Nell’anno di nascita di Vanessa Beecroft, il 1969, l’artista statunitense Sol LeWitt firmava un pensiero fondante per le dinamiche del contemporaneo: “nessuna forma è mai intrinsecamente superiore all’altra, l’arte che ha successo cambia il nostro modo di comprendere le convenzioni alterando le nostre percezioni”. Per quanto ad oggi appaia un concetto acquisito, fu rivoluzionario per quella generazione concepire un’ibridazione tra le arti e aprire alla conformazione sinergica e multicanale delle opere. Da considerarsi tra i fondatori dell’Arte Concettuale, LeWitt scelse di lavorare per un buon periodo in Italia; mentre la Beecroft stava formandosi nelle Accademie di Genova e Milano di lì a diventare un’innovatrice nell’arte performativa di matrice teorica-concettuale e, al suo exploit, trasferirsi negli Stati Uniti. Favoriti entrambi da questo miscelamento culturale e di pubblico, i due autori sono certamente distanti nelle loro “epoche”, pratiche e intenzioni. Ma il lavoro della Beecroft può essere accostabile a quello di LeWitt per alcune abili intuizioni e scelte di campo che la introducono: il debito con il Rinascimento, la geometrizzazione della visione, la centralità nella ricerca del modulo- modello, la serialità della produzione nonché l’atteggiamento-l’affermazione del proprio ruolo di artista come ideatore di progetti corali, come capo di un’azienda a suo nome in grado di uno scambio multidisciplinare continuativo e proficuo.
Beecroft è tra quelle artiste pioniere esordienti negli anni Novanta che hanno aperto il nuovo millennio a un nuovo femminile attraverso esperienze impattanti, sia per il mondo dell’arte che del pubblico di massa. Artiste consapevoli dei linguaggi storici e contemporanei, del potere della donna e di quello rappresentativo dei media, capaci di sfruttarne il fascino e disegnarne le criticità. Interprete puntualissima del suo tempo, reverente alla storia dell’arte e all’evoluzione del sapere nella costruzione dell’immagine, ha trovato da subito una naturale attenzione per la rappresentazione del corpo, l’identità plurale, il desiderio alienato e una propria forma d’espressione persuasiva, lavorando nelle strette adiacenze della moda e dello showbiz.
È proprio in quegli anni Novanta che l’industria della moda si consolida e i grandi marchi entrano come soggetto tanto nelle operazioni artistiche quanto nell’organizzazione e promozione dell’arte, contribuendo a quel fenomeno d’ibridazione tra il valore del pezzo unico e i multipli, le collezioni d’arte e quelle di moda. L’immaginario “Beecroft” sarà dirompente, critico e criticato sin dalla sua prima mostra nel 1993, ma dopo oltre venticinque anni di influenza continua a rispondere alla convinzione che per liberarsi dagli schemi occorra farne uso e ribaltarli.
Il suo gallerista newyorchese degli esordî, Jeffrey Deitch, scrive che con il suo impianto performativo “ha creato un’inversione concettuale, trasformando il modello in arte […], prima ad aver trasformato quell’intuizione in un sistema estetico e ad articolarla in un corpo dell’opera ininterrotto”. Si dimostrerà infatti molto prolifica, reiterando uno stesso motivo visivo in quelle che sono ad oggi circa un centinaio di performance e che, titolate con le sue iniziali VB e secondo una numerazione progressiva, sono concepite come un unico coerente discorso.
Partendo all’origine dal disegno e col sostegno della fotografia, si tratta di quadri viventi e successive riproduzioni. Il materiale impiegato per la creazione è umano ed esibito in presenza del pubblico, e la composizione si ispira e segue le regole della pittura. Ritratti collettivi della femminilità idealizzata dalla nostra società consumistica, basati sulla tradizione pittorica europea, in particolare del Quattrocento. Gruppi armonici di figure che celebrano e attualizzano la bellezza femminile canonica, rifacendosi alla secolare pratica di disegno del nudo. E come nel linguaggio consolidato dei tableaux vivants la figurazione è statica e i modelli sono disposti in posa a comporre dal vivo le superfici di dipinti o sculture. “Arte nata dall’arte, contaminata da generi e sottogeneri, oscillando senza sosta tra normatività accademica e puro intrattenimento”, come teorizza Flaminio Gualdoni. Nel caso della Beecroft l’ispirazione alle norme estetiche è diacronica, lei frequenta e utilizza la scultura e i suoi personaggi sono caratterizzati da malcelate citazioni, dalla classicità della statuaria antica alle icone mass-mediatiche super contemporanee, laddove l’aura e l’imperturbabilità sono analoghe.
Altresì, il nutrimento di questa ricerca visiva è nei riferimenti inevitabili alle sue vicende biografiche che trovano racconto e autorappresentazione con la rispettabilità dell’arte.Sono in gioco molteplici aspetti che attengono all’apparenza eterna dei modelli verso l’umana debolezza, alla perfezione di contro alla fragilità, quindi al rapporto tra nudità e abbigliamento, libertà e vincolo. Da notarsi che la nudità esibita dalla Beecroft non è che artificiosa e paralizzante, tutt’altro che pura, conciliante e naturalistica. I soggetti come sculture sono posti “sul piedistallo”, modelle che possono essere ragazze comuni, professioniste, ballerine con indosso scarpe che a seconda dei casi ne costituiscono un ideale basamento, come nell’iconografia monumentale. Mutuando dalla formazione artistica l’esercizio con le modelle in posa dal vero e dalla fotografia di moda un’artificiosità algida, Beecroft utilizza corpi selezionati per omologhe caratteristiche fisiche. Perché che nessuna forma sia mai superiore all’altra, a cavallo dei due secoli, non sembra applicarsi a tutto. Estetica e società di quegli anni Novanta e primi Duemila hanno imposto uno standard di magrezza eterea, spigolosa, un tipo di femminilità emerso con le top model anoressiche e che la Beecroft anche nella vicenda personale fa suo. I soggetti si manifestano come presenze sospese tra l’azione a tempo del teatro e l’iconicità cinematografica e pubblicitaria.
Nell’organizzazione della scena è costitutivo il rapporto tra le geometrie umane e le geometrie architettoniche (d’altra parte si diploma a Brera in scenografia) e i colori contribuiscono all’effetto in maniera essenziale, anche quando la composizione va ad essere monocroma. Le installazioni si riferiscono non solo agli spazî, ma anche e proprio alla specificità dei luoghi, restituendo con progetti mirati suggestioni sui contesti d’esposizione, gallerie, musei e spazî di tutto il mondo. Cosicché ogni performance è diversa dalla precedente, documentata nella relativa unicità. Utilizza la fotografia, l’estemporaneità della polaroid e il mezzo video a garantire che gli eventi performativi continuino ad avere vita, diventando opere indipendenti anche al di là della mera documentazione. Offrendo punti di vista che anche il pubblico presente all’occasione può non aver percepito, si sottolinea il valore transitorio della performance. Scatti e riprese sono significativi dei momenti e nodi tematici culminanti di ognuna, anche se la forza della sua foto-videografia risiede nell’autonomia dalla perfomance live.
Al contrario di molte azioni performative che hanno fatto scuola, nel prevedere lo sfondamento del limite museale del “guardare-non toccare” e per cui è principale il contatto col pubblico, nelle VB non vi è nessun contatto ed è voluta una distanza dagli spettatori. I corpi-manichino della mise en scène sono posti al centro dell’attenzione di modo che se ne contempli innanzitutto la bellezza in un’atmosfera di rarefazione, le forme possono persuadere seppur non esposte nell’intento di sedurre. Come per trasmettere il muliebre, silenzioso, malinconico incanto di certi dipinti, di certo cinema e delle immagini di moda… ma nelle posture di virili squadroni militari.
E difatti le modelle sono truccate e disposte con criterî specifici che ne esaltano una sensuale pittoricità ed equilibrio formale; nient’affatto ironiche, senza apparente voluttà, vanno a comporre immagini frammentate ma unitarie. Ogni corpo, spersonalizzato, appartiene ad un insieme che è di volta in volta omogeneo, costruito o intorno ai dettagli di accessorî comunemente erogeni, come biancheria intima e calze, scarpe, lacci e parrucche di richiamo feticistico. O laddove coinvolti partner di progetto, in abiti di haute couture dei più importanti brand del mondo, con i quali l’artista abitualmente collabora. È stata una delle prime ad instaurare in questi decennî un tipo di coinvolgimento stabile con stilisti, designer, musicisti e celebrità.
Nelle riproduzioni così come nella scultura di sua fattura, Beecroft individua poi dall’insieme particolari anatomici e ulteriori modi di osservare il corpo nudo. È del 1996 l’opera VB23 realizzata al Ludwig Museum di Colonia in cui inizia a spogliare le ragazze. In un confronto con la strabordante offerta pornografica patinata, strutturata per generi e preferenze ma comunque intorno a un cliché di rigido e ossessionante controllo corporeo, la nudità va dunque interpretata.
Sono i volti della donna-tipo della Beecroft che impongono una riflessione sulla sfera dell’eros, le sue rappresentazioni e flessioni: appaiono uniformemente “biblici”, incarnazioni dell’archetipo della santa e sui quali, guardando oltre le diverse fisionomie, sembrano zittite le passioni viscerali. Le sue opere si basano sul valore-soglia del pregiudizio. L’artista si presenta come donna che guarda al corpo delle donne e che fa un uso sfacciatamente provocatorio della nudità con un apparente richiamo erotico, al contempo antierotico in quanto intimidatorio, considerando la iperconnotazione degli attributi di una femminilità moltiplicata. Il valore-soglia, appunto, è l’ambiguità: da un lato un’adesione dall’altra un rifiuto degli stereotipi della donna-oggetto, del predominante e convenzionale potere maschile e quindi delle questioni di genere.
Espressamente, da sua ricerca, “alle modelle sono date regole da seguire sino alla fine della performance”. Così riferisce a Massimiliano Gioni in una recente intervista del 2017: “le regole ammettono movimenti e la rottura della composizione, ma non il dialogo o l’interazione con il pubblico o tra le perfomer. Viene detto loro: non parlare, non sorridere, non muoverti teatralmente, non muoverti troppo lentamente, sii semplice, sii naturale, sii distaccata, non stabilire contatti con gli occhi, mantieni la tua posizione, non fare gli stessi movimenti allo stesso momento delle altre, alterna una posizione di riposo a una posizione di attenti, se devi andartene fallo in silenzio, sii concentrata, non guardare nella macchina fotografica, resisti fino alla fine della performance, non toglierti le scarpe, non essere rigida, sii alta, non essere sexy, comportati come se nessuno fosse nella stanza, non rompere le regole, sei l’elemento essenziale della composizione, il tuo comportamento influenza quello delle altre, verso la fine ti puoi sdraiare, prima della fine stai in pie di dritta”.
In tale universo immaginifico appare evidente un confine tra pubblico e privato, l’intimità non viene mai tradita in quanto è riconosciuta una rigorosa e seria ufficialità fronte pubblico. Eppure l’orchestrazione prevede un momento dal quale in avanti il modello si personalizza nelle reazioni di ciascuna delle donne ritratte e l’immagine torna alla carne perché con il passare delle ore l’immobilità diventa faticosa, una dopo l’altra iniziano a muoversi e va a destituirsi la rigidità imposta. Quello che lei stessa definisce il passaggio da un simbolico “Donald Judd a un Jackson Pollock”, in un succedersi dal figurativo all’astratto.
p>La traccia del cambio di stato attiverà un meccanismo voyeuristico tipico, oltre che una gamma di reazioni possibili, tante quante i tabù e gli approcci culturali nei diversi continenti. Che è poi la base della Perfomance Art, sovvertire i comportamenti codificati chiamando la risposta delle persone e amplificando l’identità dei luoghi. Beecroft è un’artista molto chiacchierata, il suo nudo artistico è uno strumento che talvolta è stato frainteso, dividendo ancora la critica tra chi ne valuta l’atteggiamento come un’adesione alle tendenze dominanti e chi ne raccoglie il subliminale messaggio critico.Tanto più che il nudo è al servizio di controverse tematiche e questioni nodali del presente, strumento nel medesimo modulo visivo per affrontare lo scabroso disordine mondiale: a partire dalla prostituzione, le diseguaglianze razziali e l’immigrazione, dalla volta in cui con VB48 introduce modelle nere in occasione del summit G8 di Genova nel 2001. Tornandovi a più riprese in progetti speciali, finanche facendo performare venti immigrati africani in VB65, accostandosi così anche al corpo maschile (però vestito e portatore di altro senso). Infatti si occuperà del valore dell’uniforme nei corpi militari, forzando i limiti dell’istituzionalità americana impiegando soldati e ufficiali appartenenti alla Marina statunitense, e di guerre, quella etnica del Darfur in Sudan, realizzando il più irrazionale dei lavori in cui affronta il tema della maternità e della perdita. Per isolarne alcuni.
Beecroft fotografa gli eventi della storia sociale utilizzando il filtro del glamour, ma la denuncia come la citazione non sono dirette. D’altronde riferisce: “i drammi possono essere sublimati dall’eleganza per essere proposti a tutti […] la natura dell’Arte non è di occuparsene ma di prenderne ispirazione”. Già nel 1998 la critica d’arte Roberta Smith in occasione di VB35 tenutasi al Guggenheim di New York scriveva: “It’s art; it’s fashion. It’s good; it’s bad. It’s sexist; it’s not. It’s Vanessa Beecroft’s Performance Art”, come a dire di una travolgente personalità dell’arte che ha trovato immediato quanto duraturo successo internazionale.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 7 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.