Vallo di Nera, tra affreschi francescani e movimenti di antica devozione popolare


A Vallo di Nera, uno dei borghi più belli dell’Umbria, si trova la chiesa di Santa Maria, che conserva numerosi affreschi: tra cicli francescani e immagini votive si cela anche una scena rarissima, che attesta la processione di un movimento di devozione popolare sorto sul finire del Trecento.

Domenica mattina d’un dicembre freddo e strano, e i vicoli di Vallo di Nera sono vuoti. Non esiste guida turistica che dimentichi d’indicare questo borgo d’arenaria negli elenchi dei luoghi da non perdere in Valnerina. Bandiera arancione, Borghi più belli d’Italia, marchi di qualità varî ed eventuali, pile di libri per viaggiatori ch’esaltano i mille pregi di questo diadema di pietra che incorona un poggio nascosto dai boschetti lungo i meandri della Nera. Divieto di transito ai veicoli, circolazione interna esclusivamente pedonale, il nucleo fortificato duecentesco, le stradine strette rimaste intatte dal Medioevo o giù di lì, gli archi, le torri, le tre chiese romaniche, la Casa dei Racconti, la valorizzazione del patrimonio narrativo della Valnerina, i formaggi, i panorami, le atmosfere. Sorprende allora che i vicoli di Vallo di Nera siano vuoti. C’è un sole sprezzante che tinge d’oro e di rosa le case e le torri e che svela dall’alto tutti i colori dei boschi che coprono le cime dei colli e punteggiano la valle. Viene in mente un mosaico, viene in mente una sinfonia, vengono in mente tutte cose artificiali, vengono in mente quelle righe sull’estetica del paesaggio lette da qualche parte (Gombrich, Rosario Assunto o chi se lo ricorda più) sull’idea che la nostra percezione della natura ha un carattere storico, nel senso che è condizionata da una sensibilità che s’è formata dentro la cultura. Paesaggi come dipinti. Anche la legge Bottai del 1939 imponeva la tutela delle “bellezze panoramiche considerate come quadri naturali”. Era la prima disciplina organica sulla tutela del paesaggio che sia stata scritta in Italia. Ma allora che esperienza ha del paesaggio chi non ha mai visto un quadro?

Forse, in giornate come questa, hanno ragione i turisti: i residui di tramontana che spazzano Vallo di Nera spengono la tentazione di girare all’aperto, i più saranno rimasti in albergo, oppure si saranno rintanati in qualche museo o in qualche centro commerciale lungo la Flaminia aspettando l’ora d’andarsi a strafogare al pranzo della domenica. Ma non sanno cosa si perdono. Vallo di Nera è un sogno che si svela lento nell’azzurro dell’aria. I soffi di vento che s’alzano all’improvviso sono come carezze che arrivano da una mano gelida. E tanto dolce è l’idea di ripararsi per qualche minuto in qualche anfratto meno esposto o dentro a qualche posto al chiuso che si finisce per desiderare questo freddo secco, pungente, importuno.

Nel paese, l’unico posto al chiuso che nelle mattine d’inverno può offrire una temperatura un poco meno rigida è la chiesa di Santa Maria Assunta, austero parallelepipedo di pietre bianche, grigie e rosa che si nasconde nella parte bassa del borgo, al fondo d’una scalinata che scende giù dall’antico Palazzo Comunale. La chiesa è citata per la prima volta nel 1176, e fuori mantiene intatto il suo severo aspetto romanico: una facciata squadrata, animata soltanto da un portale strombato, a sesto acuto, da un rosone e da una cuspide che muove un poco la linea retta del tetto, anche se forse è un’aggiunta posteriore. Dietro, sopra al presbiterio, s’alza un campanile con tre campane, e gli abitanti sono fieri di dire che quelle campane sono tra le poche, frammenti d’un tempo remoto, che ancora si suonano a mano.

Vallo di Nera
Vallo di Nera
Vallo di Nera
Vallo di Nera
Vallo di Nera
Vallo di Nera
Vallo di Nera
Vallo di Nera
Vallo di Nera
Vallo di Nera, chiesa di San Giovanni Battista
Chiesa di Santa Maria
Chiesa di Santa Maria
Chiesa di Santa Maria, interno
Chiesa di Santa Maria, interno

Chi vuol visitare la chiesa di Santa Maria d’inverno, ha due opzioni. La prima è conoscere qualcuno che gliela possa aprire. Un assessore, o magari anche la sindaca che, tolta una parentesi di due mandati, amministra Vallo di Nera da anni: la prima volta che venne eletta c’era ancora l’Unione Sovietica, chi voleva andare in Francia doveva fermarsi alla dogana, per telefonare serviva il gettone da duecento lire, Maradona giocava nel Napoli e al governo c’era Andreotti. Vallo di Nera invece era uguale a com’è oggi, e forse a com’era tre, quattro, cinquecento anni fa. Gli abitanti evidentemente amano la stabilità. La seconda opzione è informarsi sugli orari delle messe: la scelta concede qualche libertà in più, ma obbliga alla partecipazione della liturgia, nella speranza che il prete sia clemente e lasci, prima che cominci la messa o dopo ch’è finita, il tempo di dare un occhio in giro. Nel frattempo, dalla propria panca, si può comunque indugiare sugli affreschi che decorano l’unica navata della chiesa.

L’edificio attuale è del Duecento: furono i francescani a costruirlo al posto della chiesetta più antica, e furono sempre loro a tirare su il convento, all’epoca in cui l’ordine dei frati minori aveva cominciato a insediarsi in tutti i centri della Valnerina. La chiesa, che i frati naturalmente dedicarono a San Francesco, rispecchiava la struttura degli edifici che i francescani costruivano negli abitati più periferici: una costruzione semplice, sobria, conforme ai principî di povertà predicati dal santo d’Assisi. Si sa, dai documenti, che la costruzione della chiesa di Santa Maria cominciò nel 1273, epoca in cui ministro generale dell’ordine francescano era ancora Bonaventura da Bagnoregio: nelle Costituzioni Narbonesi del 1260, gli statuti che dovevano regolare la vita dei frati, Bonaventura aveva fornito anche le indicazioni per la costruzione delle chiese, che dovevano essere spoglie, dal momento che una decorazione troppo ricca avrebbe contraddetto il principio di povertà. Le Costituzioni ordinavano allora la costruzione di chiese che evitassero d’attirare la pubblica curiosità attraverso pitture, ornamenti, vetrate dipinte e ammennicoli varî. Dovevano essere piccole, funzionali, misurate, disadorne, rigorose. Pochi avrebbero dato retta a Bonaventura da Bagnoregio. Persino a Vallo di Nera.

Certo, a vedere la Basilica di San Francesco ad Assisi si potrebbe pensare che quella sia l’eccezione alla regola. Ma in realtà, anche nelle chiese più piccole e lontane si sarebbe presto diffusa l’usanza di coprire le pareti d’affreschi. Anche nella chiesa di Vallo di Nera, che forse per qualche tempo rimase effettivamente spoglia, anche se sarebbe stato per poco, perché già sul finire del Trecento l’austerità francescana doveva essere un ricordo: nel 1383, Nicola di Pietro da Camerino e il suo aiutante Francesco di Antonio d’Ancona lasciavano firme e data nel ciclo dipinto che copre tutti i muri dell’abside. Nicola di Pietro, detto Cola di Pietro, come si firma su di un’altra parete, è l’autore di gran parte degli affreschi della chiesa, o almeno di quelli principali, e s’alternò con Francesco di Antonio, cui si possono attribuire alcune scene con buon margine di sicurezza, per via delle difformità stilistiche.

Lo schema del ciclo che decora la cappella maggiore, dietro l’altare, è d’agevole lettura, il programma iconografico piuttosto elementare, con le scene racchiuse entro riquadri incorniciati, soluzione tipica delle chiese francescane: sulle pareti centrali si dispiega il racconto della vita di Cristo. Annunciazione, Natività, Adorazione dei Magi, Fuga in Egitto, Flagellazione, fino ad arrivare alla Crocifissione. Ai lati della Crocifissione, sei santi: Giovanni Battista, Cristina e Lorenzo da una parte, dall’altra Giacomo, Caterina d’Alessandria e Bartolomeo. Sono girati verso la Crocifissione: i santi sono i testimoni del sacrificio di Cristo. Le pareti laterali sono invece dedicate alla Vergine e a san Francesco. San Francesco è più che un testimone: è il santo che più somiglia a Cristo. È il santo che, ricevendo le stimmate, raffigurate nella scena in alto, s’è reso partecipe delle sue sofferenze. E poi, ecco che lo vediamo mentre parla agli uccelli: l’episodio vuol presentarci il santo come propagatore della parola di Cristo. È come se i francescani di Vallo di Nera avessero voluto dirci, col tramite di san Francesco, che l’esempio di Cristo si rivolge a tutti. A sinistra, invece, la Dormitio e l’Assunzione di Maria: i francescani erano accesi sostenitori della tesi dell’assunzione corporea di Maria, soggetto abitualmente entrato nei programmi dei loro cicli decorativi almeno a partire da papa Niccolò IV, il primo pontefice francescano della storia. Il suo corpo non poteva esser corrotto, distrutto dalla morte. Anche san Francesco era devoto alla Vergine Assunta, alla “Vergine fatta Chiesa”, come l’aveva chiamata il santo in una sua preghiera. La Vergine è dunque colei che accoglie con la grazia della sua beatitudine tutti coloro che, seguendo san Francesco, hanno accolto la parola di Cristo.

Cappella Maggiore
Cappella Maggiore

Cappella MaggioreCappella Maggiore

Cola di Pietro, Natività (1383)
Cola di Pietro, Natività (1383)
Cola di Pietro, Adorazione dei Magi (1383)
Cola di Pietro, Adorazione dei Magi (1383)
Francesco di Antonio, Flagellazione (1383)
Francesco di Antonio, Flagellazione (1383)
Cola di Pietro, Crocifissione (1383)
Cola di Pietro, Crocifissione (1383)
Gli affreschi della parete sinistra della cappella maggiore
Gli affreschi della parete sinistra della cappella maggiore

Una sorta di biblia pauperum scarna ma potente, eloquente, efficace. Immagini che parlano. Immagini politiche, se vogliamo. La cappella maggiore dà forma agli auspici dei francescani. Le pareti della navata dànno forma agli auspici della comunità. Va letto in questo senso anche l’affresco più interessante della chiesa, benché frammentario, quello con la Processione dei Bianchi, ch’è sempre opera di Cola di Pietro, del 1401: è lui che, di nuovo, firma e data l’opera. Il soggetto è rarissimo: è la raffigurazione d’un evento d’attualità, potremmo dire. È una delle processioni della Devozione dei Bianchi, folto movimento di fervida devozione popolare, forse anche con qualche punta di fanatismo, sorto spontaneamente nei primi mesi del 1399, e noto soprattutto per aver organizzato imponenti processioni di penitenza, che potevano anche durare più giorni: i penitenti indossavano un lungo saio bianco marcato con una croce rossa, come quelli che si vedono nell’affresco, e poi nelle processioni facevano di tutto. Alcuni si fustigavano e si battevano: uno di loro è raffigurato mentre si sta flagellando. Altri leggevano preghiere, lodavano Cristo, la Madonna e i santi, intonavano canti: è probabile, come ci suggerisce l’affresco, che a guidare le lodi fossero dei religiosi. Oppure portavano in processione oggetti devozionali, come i ceri tenuti dal gruppo di sinistra, o l’immagine della Vergine col Bambino portata dal gruppo di destra. Le processioni dei Bianchi potevano raggiungere dimensioni ragguardevoli: ci furono anche tentativi d’arginare il movimento o d’ostacolarlo, essenzialmente per ragioni di ordine pubblico, ma anche per il potenziale carattere eversivo che le processioni avrebbero potuto assumere. In pochi mesi i Bianchi girarono per l’Italia pregando per la remissione dei peccati, inneggiando alla concordia e alla misericordia. La pace, anzi, era un elemento fondamentale della Devozione dei Bianchi. E non solo perché i Bianchi urlavano di continuo “pace!” mentre camminavano in processione.

Le cronache del tempo riferiscono che la Devozione dei Bianchi incoraggiava la risoluzione dei conflitti tra chi prendeva parte alle processioni. E la chiesa di Vallo di Nera, che forse è quella che si vede sulla destra nell’affresco, dovette essere probabilmente teatro della ratifica d’una pace, una pace tanto importante che il committente del dipinto, tale Giovannuccio di Vallo, volle serbarne memoria dipinta. Una pace, forse, tra i capi di due fazioni rivali, sancita alla presenza di tre testimoni, e suggellata dall’osculum pacis, il bacio della pace, sotto gli auspici dell’arcangelo Michele, gesto che s’osserva anche tra altri due personaggi, più rovinati, sulla destra. Sulla parete della chiesa di Vallo di Nera assistiamo a un rito civile medievale, che al tempo era rigidamente codificato: venivano registrati i nomi delle due parti, veniva da entrambe pronunciato il giuramento, si dava lettura delle sanzioni in caso di rottura dell’accordo di pace, e alla fine i contendenti si scambiavano un bacio che aveva la funzione d’un sigillo, perché marcava l’avvenuta riconciliazione: la cerimonia si chiudeva con la redazione, da parte del notaio presente, dell’instrumentum pacis, una specie di verbale. Ogni volta che i Bianchi arrivavano in una città, subito s’industriavano per promuovere la risoluzione delle contese tra i cittadini. Le cronache di quegli anni sono colme d’attestazioni di queste operazioni di peacemaking, diremmo oggi. Una studiosa, Katherine Jensen, ha scritto che i Bianchi erano degli “attivisti per la pace”. La definizione pare calzante.

Con la scena della processione comincia lo spazio della chiesa riservato ai laici. E le pareti diventano un collage d’affreschi votivi con le immagini più disparate, aggiunte in epoche diverse, cancellate e ridipinte, poi coperte, poi di nuovo riscoperte. Tante immagini, così tante da disorientare. Sei santi sopra alla Processione dei Bianchi, anche loro opera di Cola di Pietro, anche loro dipinti nel linguaggio semplice del pittore camerte, un giottismo di provincia, un “idioma prosaico” come lo ha definito Mauro Minardi, usato per “cose deboli”, come invece Federico Zeri ha più direttamente bollato le sue pitture. Poi i quattro maialini, gli animali tipici della zona. E poi due santi sempre di Cola di Pietro. Poi un altare con una tela del Seicento. Poi una Madonna in trono di metà Quattrocento, spigolosa ed empirica. Poi tutta una teoria di santi, tutti indicati uno per uno con scritte in volgare, tutti datati 1486, tutti su fondi decorati con motivi che ricordano quelli dei broccati, tutti dentro cornici che imitano marmi intarsiati di tutti i colori. C’è anche una trinità tricefala, motivo iconografico che sarebbe stato condannato durante il Concilio di Trento: la Chiesa non voleva che Padre, Figlio e Spirito Santo fossero dipinti con quell’immagine mostruosa, con quelle tre teste da cerbero pagano.

Cola di Pietro, Processione dei Bianchi (1401)
Cola di Pietro, Processione dei Bianchi (1401)
Cola di Pietro, Processione dei Bianchi (1401)
Cola di Pietro, Processione dei Bianchi (1401)
Cola di Pietro, Processione dei Bianchi (1401)
Cola di Pietro, Processione dei Bianchi (1401)
Cola di Pietro, Processione dei Bianchi (1401)
Cola di Pietro, Processione dei Bianchi (1401)
Immagini votive sulla parete di destra nella navata
Immagini votive sulla parete di destra nella navata
Parete sinistra, Martirio di santa Lucia e Annunciazione
Parete sinistra, Martirio di santa Lucia e Annunciazione
Cola di Pietro o Maestro della Dormitio di Terni, Martirio di santa Lucia
Cola di Pietro o Maestro della Dormitio di Terni, Martirio di santa Lucia
La Trinità tricefala
La Trinità tricefala
Affreschi sulla parete sinistra
Affreschi sulla parete sinistra
Affreschi sulla parete sinistra
Affreschi sulla parete sinistra
Madonna col Bambino del Maestro di Eggi (1447)
Madonna col Bambino del Maestro di Eggi (1447)
Madonna col Bambino del Maestro di Eggi (1435?)
Madonna col Bambino del Maestro di Eggi (1435?)
Sant'Antonio abate
Sant’Antonio abate
La targa che ricorda l'episodio del 1944
La targa che ricorda l’episodio del 1944
Come si presentava la Processione dei Bianchi nel 2018, prima del restauro terminato nel 2019
Come si presentava la Processione dei Bianchi nel 2018, prima del restauro terminato nel 2019

Dall’altra parte, sulla parete opposta, un martirio di santa Lucia, variamente attribuito a Cola di Pietro o al Maestro della Dormitio di Terni: più che il supplizio della santa, trascinata da due buoi che cercano invano di portarla al bordello al quale era stata assegnata, ad attirare l’attenzione è però la folla variopinta alle sue spalle, assiepata attorno al magistrato che, rilassato, con le gambe accavallate, indica la santa. Ci s’inoltra per un attimo nella strada d’un borgo umbro di fine Trecento. Sono invece quattrocenteschi i riquadri con l’Annunciazione e la Madonna della Misericordia che seguono. Poi ancora tre santi trecenteschi prima dell’altare con gli affreschi datati 1602. Poi arriva un patchwork particolarmente ingarbugliato, disordinato, affastellato dai secoli: in alto un pezzo di Madonna in trono, poi ben due raffigurazioni di san Bernardino da Siena del 1452, poi un’altra Madonna in trono, datata 1447. Sotto, quel che rimane d’una Madonna del latte e d’un’altra Madonna in trono cui nel Seicento venne sovrapposto l’affresco con l’altra Madonna del latte in mezzo a san Gregorio magno e san Girolamo, e di fianco un francescano in preghiera. Dopo la finestra, altri cinque riquadri: altre due Madonne in trono, un san Michele, un san Bernardino, una santa Cristina, una santa Caterina con santa Barbara. In fondo, altri lacerti: si distingue quel che rimane d’una Trinità dipinta secondo un’iconografia più ortodossa, e in basso una dolcissima Madonna col Bambino. Federico Zeri assegnava questi due dipinti, oltre alla Madonna datata 1447, allo sfuggente Maestro di Eggi, artista che, nel Quattrocento inoltrato, faceva “rivivere i tratti e i dati più intimi dei massimi artisti umbri e spoletini di cento e più anni addietro”, scriveva Zeri. Quasi commuove la tenerezza goticheggiante delle sue Madonne sedute su troni marmorei improbabili, irreali, spigolosi, eccessivi, intuitivi, dipinti mentre attorno a questo maestro il mondo era ormai cambiato. A Vallo di Nera però non se n’erano accorti.

Il borgo provò a cambiare il suo mondo nel Cinquecento, quando si ribellò all’autorità del Comune di Spoleto, da cui dipendevano tutti i castelli della Valnerina. La storia si confonde con la leggenda. Un bandito, Petrone da Vallo, si mise a capo d’una rivolta che riunì diversi borghi della zona: pare che non ne potessero più delle rigide imposizioni fiscali e degl’intollerabili obblighi di leva che finivano per mandare al macello gli uomini della valle. Le cronache dipingono Petrone come un ribaldo violento e ignorante, per alcuni invece è una specie di Robin Hood della Valnerina, solo che per lui la rivolta finì male: morì nell’incendio del casolare in cui s’era rifugiato mentre combatteva contro le autorità spoletine inviate a Vallo per sedare la rivolta. Dopo, tutto sarebbe tornato come prima. Vallo di Nera sarebbe di nuovo piombata nel suo sopore di pietra.

Nella chiesa invece no, la chiesa per tutto il Seicento fu un cantiere. Sulle pareti continuavano ad aggiungersi ex voto, venivano costruiti nuovi altari che andavano a coprire le immagini medievali. Dopo il 1653, anno in cui i minori lasciarono il convento di Vallo di Nera, la chiesa aveva subito rimaneggiamenti pesanti, anche se già all’inizio del secolo parte dei dipinti antichi era già finita sotto i nuovi altari, e il resto degli affreschi, che vennero poi rimossi in epoca più recente, probabilmente coperti. Sull’arco della cappella maggiore si vede un sant’Antonio abate in buona parte picchiettato: si bucavano gli affreschi quando venivano coperti, per far aderire meglio il nuovo intonaco. Anche la Processione dei Bianchi venne coperta già in epoca antica: si vedono i frammenti d’un santo che offuscano la parte centrale dell’affresco. Poi, nel Novecento, tolte le scialbature, è riemerso quello che i secoli avevano celato. E che abbiamo rischiato di perdere nel 2016, durante il terremoto dell’Italia centrale: la chiesa di Santa Maria venne danneggiata, per tre anni fu un cantiere. Venne riaperta al culto nel 2019, perché in fondo i danni non erano così gravi. Un miracolo, avranno pensato gli abitanti. Come quando, nel 1944, gli uomini di Vallo di Nera vennero rastrellati dalle loro case e rinchiusi qui dentro. Anche loro riuscirono a salvarsi.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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