S’intitola The Women’s burden. Sulle tracce di un neo-espressionismo al femminile l’ultimo capitolo della riscoperta critica di Valeria Costa (Roma, 1912 - 2003), pittrice la cui vicenda artistica è al centro di crescenti attenzioni: si tratta d’una mostra, a cura di Valentina Gioia Levy e Pier Paolo Scelsi, ch’è ospitata nelle sale di Palazzo Contarini del Bovolo dal 16 febbraio al 28 aprile 2019, e che intende focalizzarsi sulle opere che Valeria Costa realizzò tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta. Poco più d’un decennio, dunque, ma fondamentale per la carriera dell’artista che, in quegli anni, abbandonò il realismo crudo nel solco del quale s’era formata e che riecheggiava la pittura dei grandi della Neue Sachlichkeit, la Nuova Oggettività dell’arte tedesca degli anni Trenta.
Proprio negli anni Trenta, infatti, aveva preso avvio la carriera di Valeria Costa, dopo la formazione all’Accademia di Belle Arti e alla scuola di nudo di Roma. Dapprima Valeria Costa lavorò come costumista e scenografa teatrale, collaborando con la Compagnia dell’Accademia che era stata creata dal critico teatrale Silvio D’Amico (Roma, 1887 - 1955) e che visse una prima, fortunata stagione tra il 1939 e il 1941, per poi essere rifondata nel dopoguerra (e le sue attività continuano tuttora). Valeria veniva, del resto, da una famiglia d’arte: suo fratello era il grande Orazio Costa (Roma, 1911 - Firenze, 1999), celebre regista teatrale, tra i massimi del primo dopoguerra (fondò nel 1948 il Piccolo Teatro della Città di Roma, fu per dieci anni direttore del Teatro Romeo, lavorò con attori del calibro di Nino Manfredi, Marina Bonfigli, Rossella Falk, Gianrico Tedeschi, e fu insegnante di una lunga schiera di attori più giovani: tra questi, si ricordano Pierfrancesco Favino, Claudio Bigagli, Alessio Boni, Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni). Il lavoro col teatro avrebbe accompagnato Valeria Costa per tutta la sua carriera, dal momento che per molto tempo continuò incessantemente a realizzare costumi per i drammi del fratello, ma precoce fu anche il suo avvicinamento alla pittura, tanto che già nel 1939, a soli ventisette anni, poté esporre alla terza Quadriennale di Roma.
Scorrendo gli archivi di quell’edizione dell’importante rassegna romana, si può trovare il suo nome accanto a quello di alcuni dei più grandi maestri del Novecento, da Giacomo Balla ad Afro, da Leonardo Dudreville ad Achille Funi, da Lucio Fontana a Mario Mafai, da Giorgio Morandi a Renato Guttuso. Valeria vi partecipò con un Ritratto che palesava la sua adesione agli stilemi della Scuola Romana oltre che la sua vicinanza alla Neue Sachlichkeit. Il realismo di matrice tedesca fu la cifra che contraddistinse i primi vent’anni dell’attività di Valeria Costa: abbondavano gli austeri ritratti di amici e familiari, in certo modo debitori nei confronti della ritrattistica di Alexander Kanoldt (su tutti si potrebbe citare il Ritratto di Orazio del 1939), ma anche le scene della Roma della Dolce vita (lo Striptease degli anni Cinquanta), che rivisitavano in chiave più spensierata e disimpegnata le stranianti scene urbane di Otto Dix. Si trattò, tuttavia, d’un’affermazione che avrebbe avuto scarso seguito, perché negli anni seguenti i suoi impegni pubblici sarebbero stati assorbiti in via pressoché esclusiva dal teatro, e la pittura rimase per Valeria Costa una passione da esercitare in privato, tant’è che ci fu chi ritenne che l’artista avesse cominciato a dipingere in età molto avanzata.
Valeria Costa |
Valeria Costa, Ritratto di Orazio (1939; olio su tela) |
Valeria Costa, Striptease (anni Cinquanta del XX secolo; olio su tela) |
Come anticipato, l’inizio degli anni Sessanta segnò un deciso cambio di passo, in senso totalmente inverso: abbandonato il realismo degli esordî, Valeria Costa si volse a un altrettanto crudo neo-espressionismo che rappresentò quasi un unicum, dal momento che si trattava di pittura prettamente maschile. Al contrario, la pittrice romana aderì con decisione alla furia del neo-espressionismo adoperando tinte forti per le figure violente e spigolose che popolano il corpus di opere dedicato alle sofferenze umane: alle cromie tipiche della Scuola Romana e fondate su tonalità calde e terrose (dal carminio all’ocra passando per il sabbia) unì le forme spezzate e dinamiche tipiche della pittura espressionista, per dar corpo alle proprie visioni che declinavano il tema del dolore in chiave prettamente femminile (tra gli anni Sessanta e Settanta, in particolare, Valeria Costa realizzò due serie di dipinti le cui protagoniste quasi esclusive erano, appunto, donne). Sono visioni straziate e strazianti, dove figure angosciate si muovono sullo sfondo di cieli rossi e paiono voler trasmettere le loro angustie anche al paesaggio circostante, come accade, per esempio, ne La Veronica, dipinto che rivisita in maniera originale l’episodio evangelico: vediamo la donna protagonista della sesta stazione della Via Crucis mentre corre, non si sa bene perché, con tra le mani il velo, suo tipico attributo iconografico, quasi che voglia scappare (e l’artista ha impresso alla scena un dinamismo tale che anche l’albero dietro di lei sembra volerla rincorrere).
La figura stessa della Veronica appare stravolta, deformata nelle sue proporzioni anatomiche, e lo stesso vale per ciò che si trova con lei nell’ambiente. La critica ha suggerito che il dolore che stritola l’umanità, nelle opere di Valeria Costa, appaia così aggressivo da aver trasformato in mostri gli esseri umani e a loro volta in altri esseri mostruosi ciò che li circonda: ne scaturisce una lotta furiosa dove tutti sono vittime. È quanto vale anche per altre opere dello stesso periodo, come La strage degli innocenti, o la più lirica ma non meno veemente Gerusalemme, Gerusalemme.
Valeria Costa, La Veronica (1970 circa; olio su tela) |
Valeria Costa, La strage degli innocenti (1970 circa; olio su tela) |
Valeria Costa, Gerusalemme Gerusalemme (1970 circa; olio su tela) |
Nel frattempo, l’attività espositiva di Valeria Costa andava affievolendosi, ma sarebbe ripresa con certa frequenza solo a partire dagli anni Novanta: in particolare, si ricordano la personale al Complesso Monumentale di San Michele a Ripa nel 1992, e soprattutto la retrospettiva che si tenne nel 2002, quando l’artista era ormai novantenne, al Vittoriano (e nello stesso anno fu organizzata un’altra mostra alla Galleria L’Ariete di Bologna). Valeria Costa non aveva comunque smesso di sperimentare: le sue ultime ricerche erano infatti volte all’arte astratta (in particolare, la pittrice si cimentò con l’astrattismo informale e con quello geometrico), subendo anche il fascino del surrealismo. Furono soprattutto i numerosi viaggi all’estero dagli anni Sessanta in poi a incidere sulle ulteriori evoluzioni della sua arte: i soggiorni in America la indirizzarono verso l’arte informale, mentre quelli in Asia e in Africa (soprattutto nell’Africa del Nord e nell’Africa subsahariana) contribuirono a introdurre nella sua produzione quel certo grado di primitivismo che caratterizza alcune delle sue produzioni astratte.
Data la dimensione prettamente privata della sua pittura, il nome di Valeria Costa non è certo tra quelli più noti al pubblico. Tuttavia, di recente la famiglia ha dato vita a un fondo, il Valeria Costa Piccinini Heritage Fund, che si pone l’obiettivo di diffondere la conoscenza della sua arte e di valorizzarla in Italia e nel mondo. Quello lasciato da Valeria Costa è un patrimonio ingente: per avere un’idea, occorre considerare che nel 2002, un anno prima della scomparsa, lasciò un nucleo di mille e duecento opere alla Fondazione Alberto Sordi, in seguito riacquistate dal Valeria Costa Piccinini Heritage Fund con lo scopo di conservarle e farle conoscere al mondo.
A quest’obiettivo risponde anche la rassegna The Women’s Burden che, come anticipato, trova spazio nelle sale espositive del complesso monumentale di Palazzo Contarini del Bovolo a Venezia (a questo link maggiori informazioni) e si concentra sulla fase neo-espressionista dell’artista, “privilegiando”, come si legge nella presentazione, “ le opere dalle quali emerge la sofferenza della donna in tutte le sue declinazioni: tema molto caro alla Costa. Nascita, maternità, famiglia, morte, guerra, paura, difesa, sono le parole chiave che ispirano questa selezione di dipinti che costruiranno una sorta di percorso dantesco al femminile”. Per Valeria Costa, un’ulteriore tappa nel percorso verso la riscoperta.