Un Pierrot e un Arlecchino: anche i figli degli artisti si mascheravano


Un dipinto di Renoir e uno di Picasso ci mostrano i loro figli mascherati per Carnevale, il primo da Pierrot e il secondo da Arlecchino. Due curiosi episodi delle loro carriere.

Siamo stati tutti bambini e tutti almeno una volta nella vita, a Carnevale, ci siamo travestiti come più ci piaceva. Io amavo vestirmi sempre da principessa o da fatina, perché già da piccola avevo un animo romantico, da sognatrice e da amante delle favole, come adesso, e a distanza di anni il mio animo non è cambiato (solo un anno ho deciso di trasformarmi in un pinguino, non ricordo neanche il motivo, forse per provare a rivoluzionare il mio abituale aspetto da dolce bambina dai lunghi capelli sciolti con cappello a punta sulla testa, abito ampolloso con maniche a sbuffo e una bacchetta magica tra le mani, ma poi dall’anno successivo è tornata a vincere la mia natura “fiabesca”). Decidere da cosa travestirsi per Carnevale può dipendere dalle nostre inclinazioni, dai nostri desideri, dalle nostre passioni, ma anche dalle mode del momento: quando io ero piccola, ad esempio, oltre alle principesse, alle indianine, agli zorro, ai moschettieri e ai pirati, era scoppiata la moda del “punk”, il travestimento considerato da ‘bimbi grandi’, diciamo dagli otto-nove anni in su, e allora ecco che si sfoggiavano jeans e giubbini jeans strappati su cui non si contavano i simboli e le scritte, ciocche di capelli fosforescenti e brillantini a gogo. Oppure si deve alla creatività dei genitori: non più tardi di qualche giorno fa mi è capitato di vedere in occasione di un corso mascherato a Viareggio, città sulla costa versiliese famosissima per il suo Carnevale e dalla quale abito a pochi chilometri di distanza, un’intera famiglia vestita da... gin tonic, ovvero padre e madre abbigliati da gin e da acqua tonica e il figlio da fettina di limone, e dalla faccia del bambino credo che avrebbe voluto mascherarsi da tutto, magari dal suo supereroe preferito, fuorché da fetta di agrume.

Mi diverte immaginare, osservando il Pierrot bianco di Pierre-Auguste Renoir e Paulo vestito da Arlecchino di Pablo Picasso, che entrambi gli artisti abbiano invitato i due bambini raffigurati, rispettivamente i propri figli, a posare per loro, mettendo al centro della scena una sedia, lasciandoli liberi di utilizzarla a loro piacimento. L’impressione che entrambe le immagini danno è quella che oggi potrebbe essere paragonabile a un vero shooting fotografico realizzato come ricordo di quel preciso Carnevale. E mi piace pensare che ad essere più a suo agio nel suo travestimento sia Jean, il futuro regista, secondogenito del pittore impressionista, per l’espressione del volto e per la nonchalance che mostra nel posare per il padre. Siede infatti su una sedia di legno, con un atteggiamento rilassato ma allo stesso tempo elegante. Il suo corpo è leggermente girato di tre quarti, e tiene un braccio appoggiato allo schienale della sedia mentre la mano opposta è appoggiata sulla gamba. Fulcro del dipinto, realizzato tra il 1901 e il 1902 e conservato al Detroit Institute of Art, è il volto del bambino: ha un’espressione dolce e lo sguardo è rivolto leggermente di lato, come se fosse assorto nei propri pensieri. Il rossore delicato delle guance e le labbra appena socchiuse suggeriscono un senso di innocenza e di serenità e la delicatezza dei suoi tratti viene ulteriormente sottolineata dalla luce morbida e diffusa che inonda l’intera composizione. In particolare la luce si riflette, con una sapiente sfumatura di toni chiari e perlati, sul costume bianco da Pierrot reso dal pittore con grande maestria: un’ampia tunica bianca che gli cade in morbide pieghe lungo il corpo con grandi bottoni della stessa stoffa e larghi pantaloni dello stesso colore. A completare il travestimento, un vaporoso colletto di tulle rosso attorno al collo che rompe la monocromia dell’abito e aggiunge un tocco di calore cromatico e un cappello a punta color panna. Il volto però non è dipinto di bianco e non presenta la tipica lacrima nera come vuole la tradizionale iconografia della maschera.

Pierre-Auguste Renoir, Pierrot bianco (1901-1902; olio su tela, 79,1 x 61,9 cm; Detroit, Detroit Institute of Arts)
Pierre-Auguste Renoir, Pierrot bianco (1901-1902; olio su tela, 79,1 x 61,9 cm; Detroit, Detroit Institute of Arts)

La figura di Pierrot emerge in primo piano con tutto il suo candore dallo sfondo reso con tonalità scure e indefinite e con una pennellata morbida che crea un effetto sfumato e quasi etereo; i colori non sono netti ma si fondono armoniosamente tra loro. È proprio questa fusione di pennellate a suggerire un ambiente intimo e quotidiano, un’atmosfera di calma e di quiete tipicamente familiare.

Diversamente da quanto si potrebbe pensare, la maschera di Pierrot non è originaria della Francia: è nata nella Commedia dell’arte italiana con il nome di Pedrolino, ma è tuttavia in Francia che il personaggio assume le caratteristiche che conosciamo ancora oggi sia per quanto riguarda l’aspetto sia per quanto riguarda la sua indole. Da servo ingenuo al servizio di personaggi più furbi, Pierrot diviene nell’Ottocento noto per la sua natura malinconica e sentimentale grazie al mimo Jean-Gaspard Debureau. Un personaggio delicato, poetico, con un senso di tristezza perenne che rappresenta una delle figure più evocative della Commedia dell’Arte, spesso accostato anche alla figura dell’artista malinconico e incompreso. Renoir nel suo dipinto non enfatizza questa tristezza, ma piuttosto ne sottolinea i tratti contemplativi. Senza eccessi drammatici, raffigura suo figlio in una posa rilassata e quasi sognante, in linea con la sua produzione che fa immergere l’osservatore nell’armonia della vita quotidiana.

Appare invece diverso il figlio primogenito di Pablo Picasso, Paulo, nato dal matrimonio tra l’artista e la ballerina Olga Khokhlova, nel dipinto del 1924 oggi conservato al Musée Picasso di Parigi che lo raffigura vestito da Arlecchino, il celebre personaggio della Commedia dell’Arte astuto e burlone, sempre pronto a escogitare stratagemmi a suo favore e capace di destreggiarsi per uscire con facilità e agilità da situazioni difficili (spesso si esibisce infatti in capriole e salti acrobatici)

A differenza di Jean in abiti da Pierrot, che sedeva comodamente sulla sedia al centro della composizione, qui Paulo è in piedi, appoggiato con un gomito alla sedia, imbottita, nera e più elegante rispetto a quella del dipinto di Renoir. La sua espressione è seria, lo sguardo è rivolto direttamente allo spettatore. Nonostante il costume sgargiante che indossa, il suo volto appare pacato e leggermente malinconico, in contrasto con l’energia vibrante tipica della figura di Arlecchino.

Pablo Picasso, Paulo vestito da Arlecchino (1924; olio su tela, 130 x 97,5 cm; Parigi, Musée National Picasso)
Pablo Picasso, Paulo vestito da Arlecchino (1924; olio su tela, 130 x 97,5 cm; Parigi, Musée National Picasso)

Il costume è quello tipico di Arlecchino, caratterizzato da un motivo a losanghe nei toni del giallo e del blu separati da linee nere marcate: una combinazione cromatica che dà all’opera un forte impatto visivo. Attorno al collo e ai polsi, un ampio colletto e voluminosi polsini bianchi con effetto arricciato che aggiungono un tocco di leggerezza e di raffinatezza in contrasto con il tessuto dell’abito che sembra di stoffa pesante. Sulla testa, un cappello nero, semplice e privo di decorazioni, dal quale escono capelli castano-rossicci pettinati con una graziosa frangetta. Il volto di Paulo, dalla carnagione chiara, accesa sulle gote leggermente arrossate, e dai tratti delicati, appare quasi distante: sembra che il bambino, pur essendo vestito da una delle maschere più esuberanti che ci siano, non partecipi pienamente al suo travestimento, ma rimanga immerso nei suoi pensieri. E il modo in cui si tiene le mani aggiunge un ulteriore senso di quiete e di riflessione. Si nota con particolare evidenza proprio questa contrapposizione tra l’apparente allegria dell’abito e la compostezza dell’espressione del bambino.

Uno degli aspetti del dipinto da evidenziare è il rapporto tra quest’ultimo e lo sfondo. Mentre Paulo e il suo costume sono resi con attenzione nei dettagli, il resto della composizione appare volutamente incompiuto per il mancato trattamento del fondo, lasciato grezzo, sia per i piedi del bambino e per parti della sedia appena accennate con schizzi e tratti leggeri. Spunta inoltre un piede da uomo non riferibile ad alcuna persona in corrispondenza di un piedino della sedia.

Il dipinto, che fa parte di una serie di ritratti di arlecchini che Picasso realizzò tra il 1923 e il 1924, è un esempio significativo dell’interesse dell’artista per il tema dell’infanzia e per il mondo teatrale.

In molte delle sue opere, la sua identità di artista si intreccia con quella del personaggio teatrale di Arlecchino. Quest’ultimo diventa il suo alter ego malinconico, che simboleggia le sue fragilità e il suo senso di solitudine, un aspetto che emerge a partire dal 1901, anno d’inizio del suo Periodo Blu. In questo contesto, la figura di Arlecchino viene incarnata dal figlio dell’artista. Allo stesso tempo, Picasso suggerisce la complessità della sua interiorità, raffigurando il bambino con un costume che riflette la sua molteplicità, proprio come i rombi che lo compongono. Non è solo un ritratto infantile, ma si trasforma implicitamente in un autoritratto dell’artista, che si identifica sia con il celebre personaggio della Commedia dell’Arte sia con il proprio figlio. È una mascherata riflessione sulla molteplicità dell’essere.

Questi due ritratti, Pierrot bianco di Renoir e Paulo vestito da Arlecchino di Picasso, offrono uno sguardo intimo e quotidiano sul rapporto tra gli artisti e i loro figli. Tra pennellate delicate e colori vibranti, i bambini diventano figure della Commedia dell’Arte, evocando il sottile confine tra realtà e finzione. Così l’arte trasforma il momento effimero del travestimento in un’immagine di complessa profondità.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.




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