Risale probabilmente già al tempo di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) l’uso di adoperare il termine “Cenacolo” come metonimia per indicare la pittura che il grande artista eseguì sulla parete del refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano, il più noto capolavoro del lungo soggiorno milanese (che si protrasse dal 1482 al 1499), e oggi principale testimonianza dell’attività leonardiana in città. Lo studioso Stefano L’Occaso ha recentemente spiegato che, già nella Toscana del Trecento, Domenico Cavalca utilizzava questo termine per riferirsi sia alla scena dell’Ultima Cena che Gesù consumò coi suoi apostoli, sia al refettorio di un monastero. E anche Giorgio Vasari utilizza sistematicamente il termine “Cenacolo” in ambedue le accezioni. Ci sono poi anche attestazioni contemporanee a Leonardo. L’Occaso ne indica due: la descrizione, nel 1499, di “1 quadretto con 1 cenacolo” nella casa del fiorentino Andrea Minerbetti, e la commissione, a Milano nel 1506, di “uno cenacolo in tella” (cioè su tela) al leonardesco Marco d’Oggiono da parte di Gabriel Gouffier, decano del capitolo della cattedrale di Sens in Francia (si trattava di una copia dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, oggi conservata al Musée National de la Renaissance di Écouen).
Comunque la si voglia chiamare, l’importanza e l’innovatività di quest’opera erano già ampiamente lodate dai contemporanei di Leonardo. Il grande matematico Luca Pacioli (Borgo Sansepolcro, 1445 circa - Roma, 1517), il primo a commentare l’opera, nella lettera dedicatoria del suo De Divina Proportione del 1498 (data che fornisce anche un fondamentale termine ante quem per definire la cronologia del Cenacolo, dal momento che, come si vedrà, non esistono documenti certi con le date), scrisse che “Non è possibile con maggior attenzione vivi gli apostoli immaginare al suono della voce de l’ineffabile verità e quando disse ‘Unus vestrum me traditurus est’. Dove con acti e gesti l’uno e l’altro, e l’altro con l’uno con viva e afflicta admiratione par che si parlino”. L’Ultima Cena aveva colpito i contemporanei per le illusioni ottiche con le quali Leonardo aveva rappresentato lo spazio, per i moti dell’animo che animano le figure di Cristo e degli apostoli, per la capacità, da parte del pittore, di dar corpo all’episodio biblico con una scena realistica e sorprendente.
Ma si tratta anche di un grande capolavoro dell’artificio, come ha ben spiegato Martin Kemp, uno dei maggiori studiosi leonardisti, secondo cui certi fattori come la capacità narrativa, la capacità d’introspezione psicologica e l’abilità coloristica “comunicano la sensazione che stiamo osservando una raffigurazione di un fenomeno naturale dotata di suprema razionalità. Questa è senza dubbio l’impressione che Leonardo voleva suscitare, e corrisponde all’effetto che registrarono i suoi contemporanei. Ma quando analizziamo la struttura di questa illusione dipinta, troviamo gli estremi inaspettati dell’artificio e del paradosso visivo”. Ad esempio, il fatto che la lunghezza del tavolo non è adatta a ospitare su di un lato tutti i dodici apostoli: non c’è spazio per ognuno di loro, e alcuni discepoli, come Pietro e Tommaso, in uno spazio reale non avrebbero un posto dove sedersi. Ma per ottenere gli effetti narrativi a cui mirava, Leonardo fu costretto alla soluzione di raggruppare gli apostoli a scapito della logicità della loro disposizione attorno al tavolo. E poi ancora, è illogico il punto di vista: “Guardando il tavolo”, rileva Kemp, “non dovremmo vedere alcunché della sua superficie, né dovremmo vedere granché dei corpi dei discepoli. Il punto di vista del dipinto è un’impossibile posizione a un’altezza doppia rispetto a quella di un uomo” (un punto di vista realistico, secondo Kemp, data l’altezza della parete avrebbe infatti compromesso le esigenze narrative). Anche in virtù di questi accorgimenti, il Cenacolo leonardiano è una delle realizzazioni più avanzate del suo tempo.
Ricostruire la storia del Cenacolo non è semplice perché mancano documenti che riguardino la committenza, e di conseguenza non conosciamo le date precise. La prima data sicura è il 1488: risale a questo anno il completamento del refettorio di Santa Maria delle Grazie, l’ambiente che avrebbe accolto il dipinto di Leonardo da Vinci (ricaviamo la data da una notizia seicentesca di un frate, Girolamo Gattico, che compila una Descrizione succinta e vera delle cose spettanti alla Chiesa e Convento di Santa Maria delle Grazie e di Santa Maria della Rosa e suo luogo). Non sappiamo però con esattezza quando Leonardo cominciò a progettare e a dipingere la sua opera, benché la critica si orienti per lo più su di una datazione compresa tra il 1493 e il 1494 come date d’inizio (alcuni elementi, come le date che compaiono vicino ad alcuni disegni riconducibili agli studi per l’Ultima Cena, e il fatto che l’ultimo restauro abbia consentito di far luce su di uno stemma riconducibile alla committenza di Gian Galeazzo, hanno portato gli studiosi a formulare questo periodo come quello in cui più probabilmente cominciò la realizzazione del capolavoro) e il 1498 come data di ultimazione sulla quale tutti sono concordi dato che, come detto sopra, l’Ultima Cena doveva già essere completa nel 1498, poiché Luca Pacioli, nella lettera dedicatoria del De Divina Proportione, la descrive nei dettagli. Un ruolo importante nelle vicende del Cenacolo è ricoperto da Ludovico il Moro (Milano, 1452 - Loches, 1508), divenuto duca nel 1494 (benché siamo certi che il committente iniziale dell’opera fosse il suo predecessore, Gian Galeazzo Sforza, scomparso proprio nel 1494 a soli venticinque anni: il Moro gli subentrò). Sappiamo per certo che nell’estate del 1497 Leonardo doveva ancora finire il lavoro: è del 29 giugno del 1497, infatti, una lettera in cui il duca di Milano ordina al suo segretario Marchesino Stanga di “solicitare Leonardo fiorentino perché finischa l’opera del Refetorio delle Gratie principiata per attendere poy ad l’altra fazada d’esso Refetorio”, dove “l’altra fazada” è la parete che sta dirimpetto al Cenacolo e che nel 1495 venne dipinta con la Crocifissione di Giovanni Donato Montorfano (Milano, 1460 circa - 1502 circa).
Quanto alla data d’inizio, un grande studioso leonardista, Pietro Cesare Marani, ha notato come molti dei disegni preparatori dell’Ultima Cena siano da datare ai primi anni Novanta: è del resto logico pensare che, una volta completato l’ambiente nel 1488, si pose subito l’esigenza di decorarlo, e probabilmente Leonardo cominciò a studiare la sua opera molto presto. Risalgono al 1487-1490 i primi progetti di Leonardo per la lanterna del Duomo di Milano, ed è interessante notare come il disegno (conservato presso la Royal Collection) che è universalmente ritenuto il primo abbozzo compositivo dell’Ultima Cena compaia, nel foglio, assieme ad alcuni schizzi che riguardano proprio la lanterna della cattedrale. Altri elementi (per esempio la vicinanza di alcuni studi per le teste di apostoli alla famosa Dama con l’ermellino, dipinta sul finire degli anni Ottanta) farebbero supporre una datazione dei primi ragionamenti sull’Ultima Cena prossima al 1490.
Per dipingere la sua Ultima Cena, Leonardo non adoperò la tecnica dell’affresco: il Cenacolo infatti fu dipinto a tempera direttamente sul muro preparato con un supporto a base di gesso. L’artista volle evitare l’affresco per non dover essere costretto alle stringenti regole obbligatoriamente imposte da questa tecnica, che prevede una rapida esecuzione “a giornate” (ovvero su porzioni predeterminate di pittura da terminare in una sessione di lavoro) in quanto i colori devono essere stesi sull’intonaco ancora fresco. La tempera a secco avrebbe consentito al pittore non solo di lavorare con più calma e maggior precisione, ma anche di prestarsi a ricevere dettagli a olio per ottenere effetti coloristici più sorprendenti, una più spiccata luminosità: in breve, la tempera a secco permise a Leonardo di poter eseguire uno straordinario quadro su muro capace di coinvolgere ancor più il riguardante. Tuttavia, la tecnica scelta dall’artista toscano ha avuto lo svantaggio di rendere molto fragile il dipinto, il che spiega lo stato di forte degrado in cui lo vedevano già i suoi contemporanei.
L’opera, dunque, all’epoca dovette sortire un effetto molto diverso rispetto a quello che suscita oggi. Leonardo ha ambientato la sua Ultima Cena all’interno di una grande aula scorciata prospetticamente in modo illusionistico, con tre finestroni sul fondo che si aprono sul paesaggio (nonostante i diversi tentativi di provare a identificarlo con un luogo reale, non sappiamo a cosa corrisponda) e quattro grandi arazzi appesi su ciascuna parete laterale (oggi fortemente compromessi): in alto, un grande soffitto a cassettoni. Tutti gli elementi dell’architettura concorrono a creare una composizione geometrica che ha l’obiettivo di sfondare illusionisticamente la parete per aumentare artificialmente lo spazio, come se il Cenacolo fosse un prolungamento del refettorio. La lunghezza dell’aula è interamente occupata dalla tavola coperta da una tovaglia bianca, attorno alla quale si dispongono, tutti su un unico lato, Gesù con gli apostoli. Leonardo coglie il momento in cui Gesù rivela il tradimento di uno dei dodici: i discepoli cominciano dunque a manifestare la loro incredulità, il loro stupore, il loro sgomento. Sono disposti a gruppi di tre attorno a Gesù, che rimane calmo al centro: da sinistra vediamo Bartolomeo, Giacomo minore e Andrea, seguiti da Giuda, Pietro (che tiene al fianco una mano con un pugnale, chiaro rimando all’episodio della cattura di Cristo che segue cronologicamente quello della cena: in quei momenti concitati, Pietrò taglierà un orecchio a Malco, il servo del sommo sacerdote Caifa giunto assieme ad altri sgherri per arrestare Gesù), mentre alla sinistra di Gesù notiamo Tommaso, Giacomo maggiore e Filippo, e nell’ultimo gruppo ecco apparire Matteo, Giuda Taddeo e Simone il Cananeo.
Nel dipingere la sua Ultima Cena, Leonardo non poté non rifarsi alla grande tradizione fiorentina: Domenico del Ghirlandaio (Firenze, 1448 - 1494) aveva dipinto ben tre cenacoli (quello di Ognissanti e quello di San Marco, entrambi del 1480, e quello della Badia di Passignano a Tavarnelle Val di Pesa, del 1476), e prima ancora Andrea del Castagno (Castagno di San Godenzo, 1421 circa - Firenze, 1457), all’incirca tra il 1445 e il 1450 circa, aveva dipinto il Cenacolo di Sant’Apollonia, il primo cenacolo affrescato del Rinascimento, benché non il primo in assoluto. Tra i primi a stabilire confronti tra il Cenacolo leonardiano e i precedenti, è da menzionare Heinrich Wölfflin che operò un paragone con il Cenacolo di San Marco, rilevando come la principale novità introdotta da Leonardo fosse la sua raffinata capacità di raffigurare gli stati d’animo dei protagonisti. Ma le differenze non si limitano a ciò: Leonardo, per esempio, abolisce la tavola a ferro di cavallo che invece il Ghirlandaio aveva utilizzato come soluzione per i suoi cenacoli del 1480, evita di raffigurare san Giovanni addormentato tra le braccia di Gesù come la tradizione voleva, e poi ancora il grande vinciano decide di non seguire il più evidente topos della tradizione iconografica, ovvero la separazione di Giuda dal resto degli apostoli (che nei cenacoli fiorentini veniva dipinto da solo e senza aureola sul lato opposto della tavola rispetto a quello attorno al quale sedevano i commensali) per sottolinearne la sua dimensione di traditore (Leonardo lo sistema invece in mezzo agli altri: non fu tuttavia il primo ad averlo fatto, perché lo stesso fece il Beato Angelico nell’Ultima Cena dipinta sull’Armadio degli Argenti, col nimbo come tutti gli altri: Leonardo invece, per sottolineare la dimensione umana e terrena dei suoi personaggi, elimina le aureole). E sempre Wölfflin notava come Leonardo avesse rivoluzionato il rapporto tra spazio e figure: l’indice più evidente è la tavola da otto persone che ci appare comoda per tredici, mentre nei cenacoli della tradizione ognuno aveva il proprio posto, adeguatamente distanziato dagli altri. E naturalmente diversa è anche la disposizione della tavola nello spazio: se nei cenacoli precedenti è quasi addossata al muro, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ci appare invece al centro di una sala che si estende ben al di là delle spalle dei protagonisti.
Le opere del Ghirlandaio furono comunque, secondo alcuni studiosi, una base importante per Leonardo che, avendo studiato a Firenze, le conosceva molto bene. “Per la fama che la cena di Leonardo da Vinci ha nel mondo”, scrisse nel 1943 lo storico dell’arte Jan Lauts, “si dimentica troppo spesso quanto la sua soluzione classica abbia trovato il terreno preparato dal Ghirlandaio nella rappresentazione del refettorio del Convento di Ognissanti a Firenze”. C’è poi un ulteriore precedente cui Leonardo potrebbe aver guardato per la raffigurazione della stanza: è la Trinità di Masaccio (San Giovanni Valdarno, 1401 - Roma, 1428) affrescata in Santa Maria Novella a Firenze, che fornì a Leonardo un precedente importante per studiare l’impostazione prospettica della scena. Il Cenacolo del vinciano si spinge però oltre, come ha notato Martin Kemp: “Concettualmente, l’artificio di Leonardo porta la pittura naturalistica a una tappa oltre la Trinità di Masaccio”, scrive lo studioso. “L’opera di Masaccio sembra logica ed è eminentemente logica, ma questa logica è inflessibile. L’Ultima Cena di Leonardo sembra logica e confida nel fatto che noi la riteniamo logica. Ma non lo è. La sua realtà apparente contiene una serie di paradossi visivi. Questo sistema gli ha permesso di ottenere una gamma di ritmi espressivi estremamente più varia rispetto a quella che si otterrebbe con un saggio di prospettiva albertiana di stretta osservanza”.
C’è, infine, un precedente nella stessa opera di Leonardo: non è possibile leggere il Cenacolo senz’aver presente l’Adorazione dei magi, il capolavoro oggi agli Uffizi che l’artista vinciano lasciò incompiuto (o che volutamente sospese, come ha ipotizzato Gigetta Dalli Regoli): nell’Ultima Cena troviamo infatti idee che Leonardo elaborò già nell’opera per i monaci di Scopeto, portate poi, ha scritto Marani, ai loro gradi più alti di semplificazione compositiva proprio nel murale di Santa Maria delle Grazie. Lo si nota osservando, ad esempio, i personaggi che, nell’Adorazione, si dispongono attorno alla Madonna e al Bambino, con i gesti di stupore di fronte all’epifania sacra. Sono la prima volta in cui, nella pittura di Leonardo, si delinea quella poetica dei “moti dell’animo” che contraddistingue la novità più ammirata della sua Ultima Cena (benché, sempre per Marani, l’applicazione più “scientifica” di questa poetica sia da riscontrare proprio nell’Adorazione).
Il Cenacolo, dunque, continua un percorso di ricerca che Leonardo da Vinci aveva cominciato con l’Adorazione dei magi e ch’era concentrato su quelli che Leon Battista Alberti (Genova, 1404 - Roma, 1472), nella versione in volgare del suo De Pictura, aveva chiamato i “movimenti d’animo”, espressione resa poi in alcune traduzioni dal latino come “moti dell’animo”, ovvero gli stati interiori dei personaggi raffigurati. “Piacemi nella storia”, scriveva Alberti nel De Pictura, “chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso cruccioso e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri qualche pericolo o cosa ivi meravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a ridere. E così qualunque cosa fra loro o teco facciano i dipinti, tutto apartenga a ornare o a insegnarti la storia”. E ancora: “questi movimenti d’animo si conoscono dai movimenti del corpo. E veggiamo quanto uno atristito, perché la cura estrigne e il pensiero l’assedia, stanno con sue forze e sentimenti quasi balordi, tenendo sé stessi lenti e pigri in sue memra palide e mal sostenute. Vedrai a chi sia malinconico il fronte premuto, la cervice languida, al tutto ogni suo membro quasi stracco e negletto cade. Vero, a chi sia irato, perché l’ira incita l’animo, però gonfia di stizza negli occhi e nel viso, e incendesi di colore, e ogni suo membro, quanto il furore”.
Leonardo si attiene alla scienza degli affetti albertiana, sintetizzandola, nel Trattato della pittura, con una breve nota: “Farai le figure in tale atto, il quale sia sofficiente a dimostrare quello che la figura ha ne l’animo; altrimenti la tua arte non fia laudabile”. La poetica dei moti dell’animo prevede che il movimento del corpo esprima lo stato d’animo dei protagonisti: la disposizione mentale dei singoli individui dipinti è legata ai suoi gesti, in breve. E Leonardo dedica diversi suoi appunti per spiegare come le azioni s’accordino agli stati d’animo. In un appunto che compare in un foglio del Codice Forster II del Victoria and Albert Museum di Londra, lo stesso Leonardo fornisce una descrizione degli apostoli che comunica tutta l’attenzione che l’artista intendeva riservare alla raffigurazione dei gesti per far emergere l’attitudine mentale dei personaggi: “Uno, che beveva, lascia la zaina nel suo sito, e volge la testa inverso il proponitore. Un altro tesse le dita delle sue mani insieme, e con rigide ciglia si volta al compagno; l’altro, colle mani aperte, mostra le palme di quelle, e alza la spalla inverso li orecchi, e fa la bocca della meraviglia. Un altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso lui, e gli porge li orecchi, tendendo un coltello nell’una mano e nell’altra il pane, mezzo diviso da tal coltello. L’altro, nel voltarsi, tenendo un coltello in mano, versa con tal mano una zaina sopra della tavola. L’altro posa le mani sopra della tavola e guarda, l’altro soffia nel boccone, l’altro si china per vedere il proponitore, e fassi ombra colla mano alli occhi, l’altro si tira indirieto a quel che si china, e vede il proponitore infra ’l muro e ’l chinato”.
E la gamma dei sentimenti che Leonardo dipinge sui volti e nei gesti dei suoi apostoli è la più varia. Si legge l’ira sui volti di Pietro e di Giacomo maggiore, Tommaso guarda Gesù con aria interrogativa, c’è costernazione nel volto di Filippo, e poi ancora lo sgomento di Andrea, lo stupore di Matteo, Simone il Cananeo e Giuda Taddeo che discutono animatamente tra loro, la sorpresa di Bartolomeo che scatta in piedi appoggiandosi con le mani sul tavolo, l’incredulità di Giacomo minore, il finto stupore di Giuda che stringe con la mano destra la borsa dei trenta denari, la tristezza di Giovanni. Dinnanzi a un evento come l’annuncio di Gesù, e sapendo dalla sua bocca che tra i dodici si cela un traditore, gli apostoli non possono rimanere impassibili: la loro reazione è sincera, e Leonardo si preoccupa di trasmetterla al riguardante, sperimentando una continuità di azioni e sentimenti che nessuno prima di lui era riuscito a esprimere. La “magia” dei “moti dell’animo” è la chiave per comprendere l’Ultima Cena, ha scritto la studiosa Valentina Ferrari. Lo studio dei sentimenti non poteva essere trascurato da un artista che aveva dedicato l’intera carriera allo studio della natura: una così puntuale e precisa resa dei “movimenti dell’animo” derivava anche da un’osservazione attenta della realtà e della vita, che portò il pittore ad abbandonare la gestualità rigida e stereotipata della tradizione per provare qualcosa di nuovo, un qualcosa che, dopo aver toccato l’apice nell’Adorazione dei Magi, nel Cenacolo si configura come una specie di manifesto poetico.
La resa dei “moti dell’animo” ha poi delle importanti implicazioni concettuali: Leonardo, secondo il principio dell’ut pictura poesis, considerava la pittura come una poesia muta, e la poesia come una pittura cieca, “e l’una e l’altra vanno imitando la natura quanto è possibile alle loro potenze, e per l’una e per l’altra si può dimostrare molti morali costumi” (così scriveva ancora nel Trattato della pittura). Tuttavia, a suo avviso, la pittura era in grado di comunicare i moti dell’animo con più immediatezza, in maniera più universale. E anche per questa ragione Leonardo insisteva sull’importanza di esercitare la propria capacità immaginativa, studiando di continuo, provando, sperimentando.
Conosciamo le idee di Leonardo da Vinci anche grazie ai disegni preparatori per l’Ultima Cena che sono sopravvissuti. Stefano L’Occaso, nel catalogo della mostra Leonardo da Vinci. Prime idee per l’ultima cena, tenutasi al Cenacolo nel 2019, ha spiegato perché i disegni sono così importanti: ci trasmettono la struttura del percorso creativo dell’artista, gettano luce sulla sua continua sperimentazione concettuale, ci permettono di capire il grado d’attenzione che Leonardo riservava a ogni singolo dettaglio della sua composizione, e ci consentono di guardare all’Ultima Cena come a una sorta di performance teatrale, colta in un momento di viva spontaneità. Non sono comunque molti i disegni riferibili all’Ultima Cena e che si possono attribuire a Leonardo: se ne conservano sette nella Royal Library di Windsor, uno al Département des Arts Graphiques del Louvre, uno all’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, uno all’Albertina di Vienna, tre alle Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Alcuni fogli sono interessanti per capire come Leonardo risolse uno dei principali problemi del Cenacolo, come ben spiega ancora L’Occaso: come conferire unitarietà a tredici figure attorno a un tavolo e dipinte solo dal petto in su? Leonardo, spiega lo storico dell’arte, trovò la soluzione al problema espandendo la scala dei personaggi e scalandoli in profondità, su piani sfalsati, al contrario di quello che avevano fatto i suoi predecessori in altri cenacoli in cui gli apostoli vengono affiancati in modo paratattico. Un foglio di Windsor (il 912542, quello che è ritenuto il primo studio compositivo del dipinto) e uno di Venezia (il 254) studiano proprio i piani dei personaggi. Ce ne sono poi altri in cui vengono studiate le espressioni e la luce: è il caso, per esempio del numero 912552 di Windsor, in cui l’artista si concentra su san Giacomo maggiore, e dove vediamo, peraltro, che la mano ha una posizione diversa rispetto a quella che l’apostolo avrà poi sul dipinto murale terminato (la vediamo nell’atto di ritrarsi dal tavolo, quasi che Giacomo provi una certa ripulsione nel momento in cui Gesù dice che a tradirlo è colui che intinge la mano nel suo stesso piatto: evidentemente la posizione dell’arto intendeva dare un’evidenza visiva alle parole di Cristo). Sempre a Windsor, il disegno 912546 è uno splendido studio del panneggio del braccio di san Pietro, illuminato da sinistra. Ci sono poi meticolosi studi sulla posa delle mani, come il 140 delle Gallerie dell’Accademia di Venezia o il 915243 di Windsor.
Diversi critici (come L’Occaso, Marani, Carlo Pedretti e Michela Palazzo) ritengono che Leonardo non abbia realizzato un cartone preparatorio. Sul muro sul quale è dipinta l’Ultima Cena non sono state trovate tracce di polvere di carboncino (il principale indizio che avrebbe indicato un’eventuale trasposizione da cartone): non si può escludere la possibilità, come ha spiegato Michela Palazzo, che Leonardo abbia realizzato dei bozzetti preliminari, ma al momento non ne conosciamo. Nel corso dell’ultimo restauro, spiega ancora Palazzo, sono tuttavia emerse tracce di segni grafici sull’intonaco, soprattutto sulle lunette, e anche nella scena della cena sono state rinvenute tracce frammentarie della sinopia. Palazzo suggerisce che Leonardo probabilmente tracciò una prima bozza dell’idea prima di passare alla stesura della prepazione (un’idea confortata dal fatto che sono state trovate anche tracce delle incisioni che servivano per stabilire le dimensioni delle forme nelle fasi preliminari).
Il Cenacolo di Leonardo conobbe un inesorabile processo di rapida degradazione già poco dopo il suo completamento. Già Giorgio Vasari, nell’edizione giuntina delle Vite (del 1568) riferì di una sua visita nel 1566, nel corso della quale aveva potuto constatare il cattivo stato del dipinto, “avendo veduto questo anno 1566 in Milano l’originale di Lionardo tanto male condotto”, scrive Vasari, “che non si scorge più se non una macchia abbagliata; onde la pietà di questo buon padre rendea sempre testimonianza di questa parte della virtù di Lionardo”. E a fine Ottocento i danni sembravano così irrimediabili che Gabriele d’Annunzio, dopo una sua visita al Cenacolo, gli dedicò l’ode Per la morte di un capolavoro, inserito nella raccolta Elettra del 1903. L’opera era già stata sottoposta a interventi di restauro: il primo ricordato dalle fonti risale al 1725, anche se probabilmente l’Ultima Cena fu oggetto di interventi anche più antichi. Già nel Seicento, come attesta la scheda ufficiale del Ministero dei Beni Culturali, l’opera fu probabilmente oggetto di una rimozione di polvere fissata ad acqua di condensa e di una stesura di colore scuro per risarcire una lacuna nella parte alta del soffitto. Nel 1725, il pittore Michelangelo Bellotti intervenne con un aggressivo lavaggio con soda caustica per poi riverniciare l’opera per attenuarne l’opacizzazione (i metodi del Settecento non erano certo quelli odierni). Altri interventi si susseguirono nel 1775, quando Giuseppe Mazza eseguì un’operazione di mantenimento del restauro di Bellotti, oltre ad alcuni ritocchi; nel 1821, quando Stefano Barezzi risarcì alcune lacune e rimosse le precedenti ridipinture per procedere con nuove integrazioni; tra il 1903 e il 1908, con nuovi, leggeri risarcimenti delle lacune eseguiti ad acquerello da Luigi Cavenaghi; nel 1924, quando Oreste Silvestri iniettò un fissativo a base di resina e mastice in essenza di petrolio al fine di consolidare il colore ed eseguì nuove reintegrazioni; infine, tra il 1947 e il 1954, quando Mauro Pelliccioli asportò i restauri precedenti usando trementina, alcol e bisturi. Il Cenacolo vinciano era peraltro miracolosamente scampato ai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Nonostante i numerosi interventi, nel 1977 lo stato conservativo dell’Ultima Cena era tutt’altro che ottimale, e si presentavano anche problemi di natura statica, che avevano procurato serie lesioni alla parete e, di conseguenza, al dipinto. Come si legge nella scheda ministeriale, “la spinta esercitata sulla parete dalla volta della sala ricostruito dopo i bombardamenti e le modifiche effettuate sugli ambienti adiacenti alla sala, destavano preoccupazioni di ordine statico da cui il determinarsi di uno stato fessurativo preoccupante e da deformazioni della muratura, unito all’incontrastabile deperimento della pellicola pittorica dovuto alla tecnica esecutiva stessa di Leonardo”. La superficie del dipinto, in particolare, si presentava offuscata, sporca, alterata a causa delle tante ridipinture, e dunque molto manomessa, e con cadute di colore dovute ai problemi statici. Si decise dunque per un nuovo restauro, l’ultimo, affidato alla restauratrice Pinin Brambilla Barcilon (Monza, 1925 - Milano, 2020).
Brambilla Barcilon fu autrice di un lungo restauro, che durò fino al 1999, e che ci ha restituito l’immagine dell’Ultima Cena più vicina possibile all’originale leonardiano. La restauratrice monzese rimosse tutte le stratificazioni che avevano coperto la pellicola pittorica originale (vernici e ripinture, con rimozione mediante un solvente pensato per poter condurre un’azione controllata e mirata), non senza diverse difficoltà, data anche la tenacia che le ridipinture presentavano in alcuni punti (tanto che per alcune zone è stato impossibile asportare i rimasugli degli interventi antichi). Un’altra difficoltà era data anche dai diversi materiali che i restauratori avevano adoperato nelle varie zone del dipinto, ragione per cui occorse scegliere metodologie differenziate per aree anche ravvicinate dell’opera. Dopo la rimozione delle stratificazioni, fu necessario consolidare la pellicola originale, finalmente riscoperta: una pellicola molto fragile, scoperta centimetro dopo centimetro con un lavoro decisamente meticoloso ma che ha ben restituito l’intensità del capolavoro leonardiano. Le teche della Rai conservano un video che riprende il commento di Federico Zeri durante il restauro in corso, nel 1995: “colpisce il risultato di questa pulitura che ha scoperto dettagli di una sottigliezza incredibile”, affermò Zeri. “Ad esempio la tovaglia, con le piegature, con i ricami, gli oggetti sulla tavola, i piatti di peltro, i bicchieri di vino, il pane, i frutti. E poi soprattutto il linguaggio dei visi, questa sorta di linguaggio muto, espresso anche dalle mani. [...] Noi vedevamo il risultato di infiniti strati di ridipinture, anche spesso grossolane, che rendono la parte ancora da pulire praticamente illeggibile. Ora si vede che quello che era chiamato il Cenacolo di Leonardo era il risultato di coloro che avevano messo le mani attraverso i secoli. È completamente cambiata la parte pulita: è stupefacente”.
A seguito dell’ultimo restauro, il dipinto è sottoposto a controllo costante per prevenire ulteriore degrado. Il refettorio di Santa Maria delle Grazie è da allora soggetto a un rigido regime di visite contingentate (si può accedere al Cenacolo dietro prenotazione e si può rimanere nell’ambiente solo per un periodo di tempo limitato), il flusso dell’aria interna viene controllato, e sono monitorati i parametri ambientali (temperatura, umidità e così via). Anche il percorso per arrivare nella sala è stato appositamente studiato per filtrare l’aria che entra dall’esterno, in modo che il dipinto non venga intaccato. E in modo che, pertanto, possa vivere ancora molto a lungo.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo