“Un giorno di settembre del 1802 un piccolo gruppo di greci, turchi e inglesi si riunì sull’Acropoli. Erano arrivati per testimoniare la rimozione di una metopa dalla struttura del Partenone, un pannello scolpito raffigurante una donna rapita da un centauro”. Così lo studioso Christopher Hitchens descrive l’inizio della rimozione dei marmi del Partenone da parte degli inglesi: alla fine, avrebbe preso la via di Londra circa metà delle sculture sopravvissute nel grande tempio di Atena, e che si trovavano in loco dal 432 a.C., sui due frontoni del grande edificio che svetta sull’Acropoli di Atene, e lungo i fregi sui quattro lati. La storia moderna dei marmi del Partenone si può però far cominciare ancor più indietro, almeno dal 1458, anno in cui la città di Atene venne catturata dagli ottomani, che cinque anni prima avevano conquistato Costantinopoli e avevano cominciato a spingersi all’interno della Grecia: nel 1460, tutto il territorio greco era finito sotto il controllo ottomano.
Fino al momento della conquista turca, il tempio non aveva subito grandi perdite. Si era mantenuto pressoché intatto fino al III secolo: subì i primi danni seri nel 276, durante l’invasione degli eruli, ma fu poi successivamente restaurato. Dopo l’editto di Teodosio II del 435, che stabiliva la chiusura di tutti i templi pagani nell’Impero Romano, il Partenone fu chiuso al culto (anche se è probabile che la chiusura effettiva sia arrivata molto tempo dopo, forse negli anni Ottanta del V secolo), mentre nel VI secolo fu convertito in una chiesa cristiana, funzione che ricoprì fino alla conquista turca, dopo la quale fu trasformato in moschea. Nel corso dei secoli il Partenone aveva già subito l’asportazione di alcune statue, e sebbene non ci fosse da parte degli ottomani l’intenzione di distruggere il tempio (i turchi infatti non si premurarono di tutelare il monumento, ma non ebbero neppure propositi nefasti), fu durante la dominazione ottomana che il Partenone subì i danni maggiori. Nel 1687, durante la guerra di Morea, gli ottomani sistemarono un deposito di munizioni all’interno del Partenone, sperando che i veneziani, per rispetto di un monumento che in antico era stato anche una chiesa, non lo attaccassero: le loro previsioni si rivelarono errate, dal momento che durante l’assedio di Atene i bombardamenti dei veneziani non risparmiarono il Partenone, e i loro cannoni lo danneggiarono in modo pesante, provocando il crollo della parte centrale. Ancora oggi vediamo il Partenone con i segni dei danni inferti dalle palle da cannone dei veneziani. Gli ottomani non lo restaurarono, ma terminata la guerra la parte del tempio ancora funzionale continuò a essere utilizzata come moschea. Il capitano generale da mar (ovvero il comandante della flotta veneziana), Francesco Morosini, ricevette dal Senato veneziano l’ordine di portare a Venezia le migliori sculture: a causa di problemi logistici (il genio veneziano non disponeva infatti di strumentazione adatta per rimuovere sculture di così grandi dimensioni e trasportarle), i veneziani non fecero che danneggiare ulteriormente le statue, mandandone alcune in frantumi. Fu dunque possibile portare via solo pochi frammenti: la più importante porzione delle decorazioni del Partenone asportata dai veneziani è la cosiddetta “testa Weber-Laborde”, una testa femminile oggi al Louvre (nell’Ottocento finì nella collezione del mercante tedesco David Weber, e da questi poi venduta al conte Léon di Laborde, e infine acquistata dal Louvre nel 1928). Altri frammenti di minore entità tra quelli asportati durante il tentativo veneziano furono reimpiegati in parte come materiale da costruzione, e in parte finirono in collezioni private, e da queste poi anche in alcuni musei (tre frammenti si trovano anche ai Musei Vaticani). La gran parte delle sculture dei frontoni era comunque rimasta al proprio posto anche dopo tutti questi eventi.
I due frontoni del Partenone erano decorati con due ricchi complessi di statue, eseguiti tra il 440 a.C. circa e il 432 a.C. da Fidia con l’aiuto della sua bottega: sono considerati grandi capolavori della scultura greca classica. Le statue ci sono arrivate in condizioni frammentarie, e al complesso lavorarono più artisti, anche se le sculture trovano una loro armonia nell’unitarietà del progetto concepito da Fidia. Conosciamo i temi della decorazione grazie alla ricca descrizione fornita nel II secolo d.C. da Pausania il Periegeta, scrittore, geografo e viaggiatore che, recandosi ad Atene, si soffermò in maniera dettagliata sulle statue del frontone del Partenone, talmente rilevanti che da sole bastavano a evocare il grande tempio (del Partenone vengono infatti descritte solamente queste sculture). Sul frontone est, il progetto iconografico aveva previsto la raffigurazione del mito della nascita di Atena, partorita dalla testa di Zeus: il gruppo centrale, che raffigurava proprio la nascita della dea della saggezza, è andato perduto. Ai suoi lati si trovavano le sculture degli dèi che erano stati testimoni della nascita di Atena, benché di difficile identificazione. Infine, alle due estremità, trovavano posto le raffigurazioni di Helios e Selene, le divinità del sole e della luna alla guida dei rispettivi carri, a simboleggiare lo spazio temporale in cui si era svolto il racconto.
Il frontone ovest raffigurava la lotta tra Atena e Poseidone per il controllo dell’Attica, vinta dalla dea. Con gruppi dal ritmo più incalzante rispetto a quelli del frontone orientale, fidia aveva immaginato la storia sistemando al centro le figure delle due divinità in lotta (perdute), seguite dai carri, con tanto di cavalli impennati sulle zampe posteriori, guidati dalle divinità schierate dall’una e dall’altra parte (Hermes e Nike con Atena, Iris e Anfitrite con Poseidone), mentre altri dèi erano raffigurati al seguito dei rispettivi cortei. Alle estremità, per suggerire il luogo della contesa, Fidia aveva sistemato le statue sdraiate di Cefiso e Ilisso, personificazioni di due fiumi dell’Attica. Come detto, i gruppi centrali sono andati perduti: alcuni disegni eseguiti nel 1674 e tradizionalmente attribuiti a Jacques Carrey, artista al servizio del marchese di Nointel, ambasciatore francese presso l’Impero Ottomano, mostrano che a quella data i frontoni avevano già subito danni ingenti, e ulteriori distruzioni avrebbero subito durante il bombardamento veneziano e il successivo tentativo di portare a Venezia le migliori sculture. Se i veneziani non erano riusciti nel loro intento, un secolo dopo sarebbe arrivato chi invece completò con successo la missione di asportare le sculture del Partenone: il diplomatico inglese Thomas Bruce, VII conte di Elgin (Broomhall, 1766 - Parigi, 1841), che nel 1798 era stato nominato ambasciatore britannico presso l’Impero Ottomano.
Non conosciamo in realtà le intenzioni originarie di Lord Elgin. Quel che è certo, ha scritto lo studioso Robert Browning, è che Elgin si trovò in “una posizione di privilegio senza precedenti, poiché dopo la sconfitta della flotta francese per mano di Lord Nelson nella battaglia del Nilo dell’agosto del 1798, il sultano [Selim III, ndr] guardava alla Gran Bretagna per proteggere l’Impero Ottomano dalla Francia. Come risultato, Elgin fu in grado di ottenere un firmano [un decreto reale ottomano, ndr] dai ministri del sultano, che lo autorizzava a realizzare calchi e disegni delle sculture collocate nel ‘tempio degli idoli” al fine di eseguire scavi per cercare i frammenti, e a rimuovere ‘alcune parti in pietra con iscrizioni e figure’”. Secondo Browning non è mai stato chiarito, data la vaghezza del documento (peraltro l’originale è andato perduto), se il firmano andasse inteso come un’autorizzazione ad asportare tutte le sculture che Elgin volesse, ma in effetti le cose andarono effettivamente così: nella primavera del 1801, con la supervisione dei lavori affidata al pittore Giovanni Battista Lusieri (Roma, 1755 - Atene, 1821), raccomandatogli dall’archeologo William Hamilton, il diplomatico inglese fece dapprima rimuovere cinquanta rilievi interi dal fregio, oltre ad altri due che erano sopravvissuti per metà, e quindici metope. Le cornici, durante le operazioni, subirono danneggiamenti rilevanti.
Successivamente, Elgin cominciò a far rimuovere anche le sculture dei frontoni: il diplomatico aveva infatti dichiarato, durante la sua visita ad Atene nell’estate del 1802, che le sculture rischiavano di subire ulteriori danni, e che dunque andavano asportate per garantirne la conservazione. Tuttavia, scrive Browning, “gli uomini di Elgin avevano cominciato a rimuovere sculture e a imballarle per il trasporto già sei mesi prima della sua prima e unica visita ad Atene, all’inizio dell’estate del 1802. I suoi privilegi senza precedenti sembrano averlo gradualmente spinto moralmente ed esteticamente oltre le sue possibilità”. Le spedizioni verso l’Inghilterra cominciarono nel 1803: alla fine, partirono per le isole britanniche 39 metope, 56 rilievi del fregio e 17 statue dei frontoni. All’inizio, le sculture furono conservate nella residenza di Lord Elgin, che decise di aprire la sua collezione di marmi del Partenone a partire dal 1807, su invito. Il successo dell’esposizione fu enorme tra i tanti amanti delle arti antiche. Ma ci furono anche numerose critiche già all’epoca: il poeta George Byron riteneva che Lord Elgin fosse un vandalo, e nel 1812 pubblicò un poema, Childe Harold’s Pilgrimage, nel quale offriva brevemente il suo punto di vista sulla questione: “O bella Grecia, freddo è il cuore di chi ti guarda / e non si sente come l’amante sull’urna dell’amata, / cieco è l’occhio che non piangerà nel vedere / le tue mura in rovina, i tuoi santuari saccheggiati / da mani britanniche che si sarebbero comportate meglio / se avessero custodito quelle reliquie che non sarebbero mai state restaurate. / Maledetta sia l’ora in cui se ne andarono dalla loro isola”. Tra gli altri poeti che attaccarono Lord Elgin si registrano anche Horace Smith, John Galt e John Hamilton Reynolds (quest’ultimo, in un suo scritto satirico, definì una “rapina” la “depredazione greca di Lord Elgin”).
Altri intellettuali del tempo furono pesantemente critici: il politico John Newport disse che Elgin aveva “approfittato dei mezzi più ingiustificati e compiuto i saccheggi più flagranti”, e riteneva “esiziale” che “un rappresentante del nostro paese abbia saccheggiato quegli oggetti che i turchi e altri barbari avevano considerato sacri”. E ancora, il pittore Edward Dodwell, anch’egli testimone oculare, aveva espresso la sua “mortificazione per essere stato presente quando il Partenone veniva spogliato delle sue sculture più belle”, col risultato che il tempio non era più “una bellezza pittoresca in un ottimo stato di conservazione”, ma era stato “ridotto a uno stato di frantumata desolazione”. Il naturalista Edward Daniel Clarke, che era stato testimone oculare della rimozione delle metope, aveva definito l’operazione una “spoliazione”, e riteneva che il tempio avesse subito più danni a causa di Elgin che per effetto dei bombardamenti veneziani. Sprezzante fu lo scienziato Francis Ronalds, inventore del primo telegrafo elettrico, che nel 1820 scrisse che “se Lord Elgin avesse avuto davvero buon gusto invece di uno spirito avido, avrebbe fatto esattamente l’opposto di quello che ha fatto, e cioè avrebbe rimosso i detriti e lasciato le antichità”. Pochi furono coloro che salutarono positivamente l’azione di Elgin: il nome più importante è quello di Benjamin Robert Haydon, pittore, appassionato d’antichità, che salutò con entusiasmo la raccolta di marmi del Partenone. I poeti John Keats e William Wadsworth si limitarono invece a commentare la bellezza dei marmi senza però entrare nella querelle sulla legittimità dell’operazione. Su un punto furono però tutti d’accordo: evitare restauri che oggi definiremmo “integrativi”. Lord Elgin si era infatti rivolto ad Antonio Canova nel 1803 per sapere se ci fosse la possibilità di eseguire restauri con ritocchi: Canova manifestò forte contrarietà, spiegando che quelle opere “erano opera degli artisti più abili che il mondo avesse mai conosciuto” e che “sarebbe un sacrilegio per chiunque presumere di toccarli con uno scalpello”. Anche John Flaxman, suggerito da Canova se Lord Elgin avesse davvero voluto metter mano alle sculture, fornì le proprie obiezioni. Lo stesso Haydon si dichiarò contrario, ritenendo che qualsiasi restauro avrebbe sminuito la bellezza delle sculture.
Fu anche stabilita una commissione d’inchiesta parlamentare per indagare sull’operato di Lord Elgin: l’esito fu favorevole nei confronti del diplomatico, dal momento che il parlamento era giunto alla conclusione che i marmi stessero meglio in un paese “libero” come era considerato il Regno Unito all’epoca. Il British Museum manifestò sin quasi da subito, ovvero dal 1810, il desiderio di acquistare la raccolta, anche se la trattativa all’inizio fu ostacolata dalla cifra chiesta dal nobile, ritenuta troppo esosa. Si creò una sorta di movimento d’opinione che appoggiò il British, dal momento che le sculture erano frammentarie, e si riteneva che non valesse la pena pagare più di 60.000 sterline per queste sculture. Alla fine, la transazione avvenne nel 1816, per la somma di 35.000 sterline (l’equivalente di circa 2,3 milioni di euro odierni), all’incirca la metà di quello che il diplomatico aveva speso per far portare le opere a casa sua, dopo che un’ulteriore commissione parlamentare, istituita questa volta per valutare la congruità dell’acquisto, si espresse in modo favorevole. Le opere furono mostrate al pubblico dal 1832 nella “sala Elgin”: da quel momento, i marmi del Partenone diventavano i “marmi Elgin”. Rimasero in questa sala fino al 1939, anno del completamento della Duveen Gallery, ambiente appositamente costruito per ospitare i marmi del Partenone, e dove ancor oggi si possono ammirare.
In anni recenti, è nato un vasto movimento d’opinione che promuove una campagna per la restituzione alla Grecia dei marmi del Partenone. Si può individuare nel 1981 la data d’inizio della campagna: fu infatti istituito in quella data, in Australia, un “International Organising Committee” per la restituzione dei marmi del Partenone, seguito nel 1983 dalla creazione di un Comitato Britannico per la Riunificazione dei Marmi del Partenone. Entrambi i comitati sono tuttora operativi. La posizione di chi vorrebbe la restituzione dei marmi alla Grecia si riassume in almeno quattro punti fondamentali: la legittimità dell’acquisizione, l’integrità con il contesto, il carattere simbolico che i marmi rivestono per la Grecia e i precedenti.
La legittimità dell’acquisizione è sicuramente il punto più controverso. Il problema sta nel fatto che, nonostante numerose ricerche, il firmano originale concesso a Lord Elgin non è mai stato trovato. A oggi, conosciamo soltanto una traduzione in Italiano del firmano, che fu conservata dal reverendo Philip Hunt, cappellano di Lord Elgin, e che nel 2006 è stata acquisita dal British Museum. La traduzione è inclusa in una lettera di Sejid Abdullah, che nel dicembre del 1799 era stato nominato Kaimakam (ovvero Gran Visir ad interim), e che si può considerare la seconda carica dello Stato dopo il sultano. La lettera era indirizzata al Cadi e al Voivoda di Atene, rispettivamente capo della giustizia e governatore dell’amministrazione cittadina. La traduzione in italiano fu eseguita da un certo Antonio Dané, come attestato in una lettera di Hunt del 31 luglio 1801. “Il nostro amico sincero, S.E. Lord Elgin, Ambasc.e della corte d’Inghilterra presso la porta della felicità”, si legge nella traduzione, “avendo esposto esser notorio che la maggior parte delle corti franche, ansiosa di legger ed investigar i libri, le pitture, ed altre scienze delli filosofi Greci, e particolarmentei Ministri, filosofi, primati, ed altri individui d’Inghilterra essendo portati alle pitture rimaste dalli tempi delli d.i Greci, le quali si trovano nelle spiaggie dell’Arcipelago, ed in altri climi, abbiamo di temp’in tempo mandati degli uomini e fatto esplorare l’antiche fabriche, e pitture, e che di questo modo li abili dilettanti della Corte d’Inghilterra essendo desiderosi di vedere l’antiche fabriche e le curiose pitture della Città d’Athene, della vechia muraglia rimasta dalli Greci, e ch’esistono nella part’interiore del d.o luogo, egli abbia commesso ed ordinato a cinque Pittori Inglesi, già esistenti nella d.a Città, che abbian a vedere, contemplar, ed anche a dissegnare [le pitture] rimaste ab antiquo, ed avendo questa volta expressamente suplicato acciò sia scritto ed ordinato che ai d.i pittori, mentre saran’occupati col’intrar e sortire dalla porta del Castello della d.a Città, che è illuogo d’osservazione, col formare delle scalinate attorno l’antico tempio dégl’Idoli, coll’estrarre sulla calcina (osia sul gesso) gl’istessi ornamenti, e figure visibili, col misurare gli avvanzi d’altre fabriche diroccate, e coll’intraprendere di scavare secondo il bisogno, le fondamenti per trovar i matton’inscritti, che fossero restati dentro le ghiaja, non sià recata molestia, nè apportato impedim.o dalla parte del Castelano, nè di verun’altro, e che non s’ingerisca nelle loro scalinate, ed instrumenti, che vi avranno formati; e quando volessero portar via qualche pezzi di pietra con vechie inscrizioni, e figure, non sia fatta lor’oposizione [...] già chè non vi è alcun male che le sud.e pitture e fabriche siano vedute, contemplate, e dissegnate, e dop’essere state accompite le convenevoli accoglienze d’ospitalità verso li suriferiti pittori, in considerazioneanche dell’amichevol istanza sù questo particolar avenuta, dal prefato Amb.re, e per esser’incombente che non si faccia opposizione al caminare, vedere e contemplare delle medeme le pittur, e fabriche che vorranno dissegnare, nè alle loro scalinate, ed instrumenti, all’arrivo della presente lettera usiate attenzione”.
Dalla forma in cui è redatta la traduzione, gli studiosi hanno inferito che si tratta evidentemente di una sintesi del documento originale: ci sono infatti abbreviazioni, non vengono citati i nomi degli incaricati, gli stessi saluti vengono rivolti in forma abbreviata, e in più il fatto che il documento porti il sigillo del Kaimakam e non quello del sultano indica che si tratta di un documento non correlato a un eventuale firmano, sul quale veniva invece apposto il sigillo del sultano. In sostanza, secondo il professor Vassilis Demetriades, docente di studi turchi all’Università di Creta, nessun documento tra quelli che sono sopravvisuti è assimilabile a un firmano. Rimangono dunque forti dubbi sulla natura del documento originale, che non arrivò mai in Inghilterra: durante le indagini del 1816, infatti, vennero richiesti a Elgin i documenti, ma il diplomatico affermò che le copie originali erano state consegnate alle autorità ottomane di Atene. Nonostante le forti lacune e l’impossibilità di consultare la documentazione ottomana, la commissione si espresse comunque in modo favorevole.
Il dibattito sulla legittimità dell’acquisizione tuttavia chiama in causa anche la traduzione italiana, nel passaggio controverso in cui si dice che “quando volessero portar via qualche pezzi di pietra con vechie inscrizioni, e figure, non sia fatta lor’oposizione”: secondo chi sostiene l’illegalità dell’operazione, è evidente che la locuzione “portar via qualche pezzi di pietra” sottende il fatto che l’autorizzazione fosse limitata a pochi frammenti. Si tratta comunque di una traduzione ambigua, dal momento che il termine “figure” potrebbe riferirsi a eventuali figure scolpite sui “pezzi di pietra”, al pari delle “vechie inscrizioni”, ma potrebbe anche voler significare “sculture”, e in questo caso la locuzione sarebbe slegata dall’aggettivo “qualche”. C’è poi anche chi, come il docente di diritto David Rudenstine, ha avanzato l’ipotesi che Elgin e i suoi collaboratori abbiano falsificato i documenti presentati alla commissione del 1816. La situazione è dunque molto fumosa, e chi sostiene il ritorno in Grecia è solito far leva su questi argomenti per indicare come illegittima l’acquisizione.
La seconda ragione è quella dell’integrità: “i marmi del Partenone”, spiega il Comitato Britannico per la Riunificazione dei Marmi del Partenone, “non sono opere d’arte indipendenti, ma parti architettoniche integrali di uno dei monumenti più magnifici e conosciuti al mondo”. Per questa ragione “è inconcepibile che oltre la metà dei suoi celebri elementi scultorei debba essere esposta a duemila miglia di distanza dal monumento per il quale sono stati espressamente progettati e scolpiti”. Va rilevato che, per ragioni di conservazione, oltre che per ragioni storiche, sarebbe impossibile riposizionare le sculture al loro posto: le statue del Partenone sono molto delicate, hanno subito danni anche al British Museum (per effetto dell’inquinamento e per i metodi di pulizia adoperati dai restauratori del XIX secolo) e di conseguenza, se esposte all’aria aperta, rischierebbero un veloce e nefasto deterioramento. Inoltre, ricollocarli al loro posto significherebbe cancellare due secoli di storia: i frontoni vuoti sono testimoni molto eloquenti di ciò che il Partenone ha subito all’inizio dell’Ottocento. Questo però non vuol dire che i marmi non possano tornare ad Atene, ritrovando dunque almeno il loro contesto storico, culturale e geografico.
Sussistono poi motivazioni di carattere simbolico. “Il Partenone è il simbolo più importante del patrimonio culturale greco e secondo la dichiarazione dei diritti umani e culturali universali lo Stato greco ha il dovere di preservare il suo patrimonio culturale nella sua totalità, sia per i suoi cittadini che per la comunità internazionale”, sottolinea ancora il Comitato Britannico per la Riunificazione dei Marmi del Partenone. “Pertanto la richiesta di riunificazione degli elementi scultorei del Partenone è ipso facto una giusta se non legittima richiesta”. Ancora, si insiste sul fatto che, quando i marmi furono asportati, la Grecia era occupata dagli ottomani, e il popolo greco non ha mai dato il suo consenso per la rimozione delle sculture. Inoltre, rileva ancora il Comitato, il Partenone “fu eretto per celebrare la vittoria della Democrazia ateniese che incoraggiò la creazione e lo sviluppo di tutte le arti così come della politica, della filosofia, del teatro e persino della scienza come le conosciamo oggi. Quindi, il Partenone è la celebrazione delle conquiste di persone libere e democratiche e per questo motivo è un simbolo importante per il mondo intero”. Anche per questa ragione i marmi andrebbero riuniti, secondo chi sostiene questa tesi.
Infine, i precedenti: sono numerosi i paesi che negli ultimi anni hanno avviato processi di decolonizzazione culturale, e ormai le restituzioni di opere d’arte ai paesi da cui provengono sono all’ordine del giorno e spesso riguardano anche opere acquisite in maniera legittima. C’è però un importantissimo precedente che riguarda lo stesso Partenone: il caso del frammento di Palermo, noto anche come Reperto Fagan. Si tratta di un frammento di una lastra del fregio orientale del Partenone, raffigurante il piede della dea Peitho o Artemide seduta in trono, e fino all’inizio del 2022 conservato presso il Museo Archeologico “Antonino Salinas” di Palermo. Fu consegnato nel 1816 da Elgin a Robert Fagan, collezionista di antichità: dopo la sua scomparsa, nel 1820, la sua raccolta di antichità confluì al Museo della Regia Università di Palermo, il “padre” del Museo Salinas. A gennaio 2022, la Regione Sicilia e la Grecia avevano raggiunto un accordo per un prestito di otto anni del frammento al Museo dell’Acropoli di Atene: in cambio, la Grecia stabiliva di prestare all’Italia una statua acefala di Atena del V secolo a.C. e un’anfora geometrica di tre secoli precedente. La volontà della Sicilia era comunque quella di restituire il frammento alla Grecia: decisione che è effettivamente giunta nel maggio del 2022, con l’accordo tra Sicilia e Grecia, al quale il Ministero della Cultura dell’Italia ha dato il nulla osta, concedendo alla regione l’autorizzazione per l’esportazione definitiva. Il frammento di Palermo è stato dunque restituito alla Grecia e questo atto costituisce, secondo gli esperti, il più importante precedente per la restituzione dei cosiddetti marmi Elgin, e potrebbe forse sbloccare la situazione.
La posizione del British Museum è però sempre stata fortemente contraria alla restituzione, e viene ribadita dal museo in una dichiarazione dei suoi trustees che elenca tutti i motivi della contrarietà. Intanto, secondo il British Museum, Lord Elgin “agì con la piena conoscenza e il permesso delle autorità legali dell’epoca sia ad Atene che a Londra. Le attività di Lord Elgin furono studiate a fondo da un comitato parlamentare nel 1816 e ritenute del tutto legali. A seguito di un voto del Parlamento, al British Museum furono assegnati fondi per acquisire la collezione”. Ancora, sul punto dell’integrità con il contesto, il British Museum sostiene che “la complessa storia dell’Europa ha spesso portato alla divisione e alla distribuzione di oggetti culturali, come pale d’altare medievali e rinascimentali provenienti da un luogo originale, attraverso musei in molti paesi. Riunire le sculture del Partenone in un insieme unificato è impossibile. La complicata storia del Partenone fece sì che nel Ottocento circa la metà delle sculture fosse andata perduta o distrutta”. I trustees ritengono poi “che sia un grande vantaggio pubblico vedere le sculture nel contesto della collezione mondiale del British Museum, al fine di approfondire la nostra comprensione del loro significato all’interno della storia culturale mondiale. Ciò fornisce il complemento ideale per l’esposizione nel Museo dell’Acropoli. Entrambi i musei insieme consentono la più completa comprensione del significato e dell’importanza delle sculture del Partenone e massimizzano il numero di persone che possono apprezzarle”. In definitiva, secondo il British Museum, “l’approccio del Museo dell’Acropoli e quello del British Museum sono complementari: il Museo dell’Acropoli offre una visione approfondita della storia antica della sua città, il British Museum offre un senso del contesto culturale più ampio e una prolungata interazione con le civiltà vicine dell’Egitto e del Vicino Oriente che hanno contribuito alle conquiste uniche dell’antica Grecia”. Per queste ragioni, secondo il museo è giusto che le sculture del Partenone rimangano in Inghilterra. I contrari avanzano poi altre motivazioni: il fatto che a Londra molte più persone vedano le sculture (il British ha un numero di visitatori che è circa cinque volte più alto rispetto a quello del Museo dell’Acropoli), il fatto che, dal momento che i marmi sono in Inghilterra dall’inizio dell’Ottocento, sono ormai diventati parte del patrimonio culturale britannico, la potenziale creazione di un precedente che potrebbe svuotare tutti i musei mondiali dove sono conservate antichità provenienti da altri paesi.
Negli ultimi anni le richieste di restituzione dei marmi alla Grecia si sono fatte sempre più insistenti, con conseguenti attriti tra Grecia e Regno Unito. Un primo scontro si è verificato tra il 2013 e il 2015, quando, a seguito di un incontro nel luglio 2013 tra l’allora ministro greco della cultura e dello sport, Panos Panagiotopoulos, e l’allora direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokova, la Grecia chiese all’Unesco di spingere il Regno Unito a partecipare a un processo di mediazione al fine di risolvere la questione dei marmi del Partenone. L’Unesco inviò una lettera ufficiale al Segretario di Stato del Regno Unito, al Segretario alla Cultura e al Direttore del British Museum, chiedendo che il Regno Unito favorisse la mediazione con la Grecia. Il governo britannico e il British Museum risposero soltanto, in via separata nel marzo del 2015, respingendo l’ipotesi (il British ha sempre sottolineato la legittimità dell’acquisizione delle sculture). Il ministro greco a sua volta rispondeva che il Regno Unito dimostrava scarsa volontà di cooperazione e dialogo, e ignorava le raccomandazioni dell’Unesco.
Le richieste si sono intensificate a partire dalla fine del 2018, sull’onda del grande dibattito internazionale sulla decolonizzazione culturale e delle restituzioni che vari paesi hanno cominciato a intraprendere verso i paesi d’origine. Nel gennaio del 2019, il direttore del British Museum, Hartwig Fischer, in un’intervista al quotidiano greco Ta Nea dichiarava che il museo non avrebbe restituito le sculture, sostenendo che la rimozione rappresentava essa stessa “un atto creativo”, che anche il British Museum offre alle sculture un “contesto specifico”, che l’asportazione è parte della storia dei marmi e che “anche al Museo dell’Acropoli ci sono opere che non sono più nel loro contesto originario”. Pochi giorni dopo, la ministra greca della cultura, Myrsini Zorba, rispondeva affermando che le parole di Fischer “degradano il patrimonio culturale facendolo passare da bene d’inestimabile valore universale a semplice merce di scambio”, che “sono reminiscenti del colonialismo” e che “ignorano il dibattito internazionale e le dichiarazioni dell’Unesco, soprattutto quelle che riguardano i monumenti mutilati, che meritano di essere riuniti e restaurati secondo il principio fondamentale dell’integrità, come richiesto dalla Convenzione Unesco del 1972”.
Non sono mancate neppure le ipotesi di prestito temporaneo dei marmi alla Grecia: il British Museum, in questo caso, rispondeva sostenendo che un prestito ci potrà essere solo se la Grecia riconoscerà che le sculture sono legittima proprietà inglese. Una precondizione ovviamente rifiutata dalla Grecia. La questione è stata discussa, nell’autunno del 2021, in un vertice tra i due primi ministri di Regno Unito e Grecia, Boris Johnson e Kyriakos Mitsotakis, ma l’esito è stato una doccia fredda per gli ellenici, dal momento che Johnson ha ribadito la posizione del governo britannico, ovvero che la materia è di competenza del British Museum. E il museo, come si è visto, non ha alcuna intenzione di restituire le opere.
Una svolta importante è arrivata sempre nell’autunno del 2021, quando per la prima volta l’Unesco ha adottato una Decisione sui marmi del Partenone, giunta dopo la 22esima sessione della Commissione Intergovernativa dell’Unesco per la Promozione della Restituzione dei Beni Culturali ai Paesi d’Origine (ICPRCP), tenutasi tra il 27 e il 29 settembre. Nella Decisione, la numero 22.COM 17, si legge: “La Commissione, 1) Richiamando l’articolo 4 paragrafo 1 e 2 del suo Statuto, 2) notando che la richiesta di restituzione delle sculture del Partenone è iscritta nella sua Agenda fin dal 1984, 3) Richiamando le sue sedici raccomandazioni sulla materia, 4) Richiamando altresì che il Partenone è un monumento emblematico di eccezionale valore universale iscritto nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità, 5) Consapevole della legittima e giusta richiesta della Grecia, 6) Riconoscendo che la Grecia ha richiesto al Regno Unito nel 2013 di mediare in accordo con le Regole procedurali dell’Unesco sulla Mediazione e la Conciliazione, 7) Riconoscendo che il caso ha un carattere intergovernativo e che, dunque, l’impegno di restituire le sculture del Partenone ricade sul governo del Regno Unito, 8) Esprime la sua profonda preoccupazione per il fatto che la questione è ancora sospesa, 9) Esprime inoltre la sua delusione per il fatto che le sue raccomandazioni non sono state osservate dal Regno Unito, 10) Esprime la sua forte convizione che gli Stati coinvolti in casi di restituzione portati all’attenzione dell’ICPRCP dovrebbero fare uso delle procedure di Mediazione e Conciliazione dell’Unesco in vista della loro risoluzione, 11) Richiama il Regno Unito affinché riconsideri la sua posizione e proceda in un dialogo in buona fede con la Grecia sulla materia”. Si tratta della prima Decisione dell’Unesco che chiama i britannici a rivedere le loro posizioni. La Decisione, accolta con entusiasmo dai greci, potrebbe forse smuovere le acque, anche se il British Museum dichiarava poco dopo di non ritenere che il caso possa risolversi passando dall’Unesco, poiché il museo non è un ente governativo. Ma la questione è sempre più dibattuta e non è detto che prima o poi non si arrivi a un cambio di direzione.
Bibliografia essenziale