Non c’è da farsi ingannar dal titolo. C’è ben poco di spensierato e di delizioso in quel Trattenimento in un giardino di Albaro che campeggia nella sala 23 di Palazzo Tursi a Genova: anche un dipinto che apparentemente ci guida tra gli svaghi e gli ozî della nobiltà genovese del Settecento è in realtà un riflesso dell’indole ironica, mordace, ambigua e anticonformista del suo autore, quell’Alessandro Magnasco che fu “pittore di un carattere particolare nelle sue pitture”, com’ebbe a definirlo Carlo Giuseppe Ratti. Pittor pitocco per autodefinizione e per vocazione, “pittore del dissenso nella crisi della coscienza europea” secondo un’efficace e recente espressione di Fausta Franchini Guelfi, lucido e disilluso, capace d’osare quel che altri mai s’erano azzardati a dipingere, anticipatore della civiltà dei lumi, insofferente nei confronti dell’autorità, Magnasco fu indagatore attento, osservatore spietato e disincantato della realtà, lontanissimo dalle rassicuranti, idilliache frivolezze dei suoi contemporanei che dettavano il gusto presso le corti italiane ed europee. Il mondo di Magnasco è quello degli zingari, dei perdigiorno e dei vagabondi che mendicano da vivere, delle rozze soldatesche accampate fuori dalle città, degl’infelici torturati dall’Inquisizione, dei macilenti, ossuti e disperati frati di montagna, dei poveri cantastorie che s’aggirano tra città in rovina, dei picaros che si guadagnano il pane con metodi più o meno leciti.
Lo sguardo acuto e penetrante di Magnasco non era però distaccato: al contrario, fu artista partecipe e critico. Tanto che, secondo una scelta simbolica e ideologica allo stesso tempo, Genova decise di dedicargli, nel 1949, la prima mostra nel Palazzo Bianco riaperto dopo la distruzione che la guerra aveva portato in città, anche tra i musei. Nella seconda metà del secolo scorso lo s’è quasi elevato al rango d’artista contemporaneo mosso da intenti di denuncia sociale di stampo pressoché novecentesco: ma anche sotto la coltre dell’esagerazioni si potrà comunque intravedere la figura d’un artista moderno, che si colloca, ha scritto Franchini Guelfi che di Magnasco è la massima esperta, “in una posizione isolata […], assieme a un committenza che, nel condividerne gli accenti fortemente critici, ne apprezzò anche il linguaggio pittorico lontano da ogni rasserenante e ottimistica visione della realtà”.
Alessandro Magnasco, Trattenimento in un giardino di Albaro (1740 circa; olio su tela, 86,3 x 198 cm; Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, sale di Palazzo Tursi, inv. PB 81) |
S’è spesso sottolineato di come anche De Andrè abbia in certa misura guardato a Magnasco, data quella ch’è ritenuta una sorta di comunanza d’intenti. In una celeberrima foto di Guido Harari che lo ritrae mentre suona in casa sua, tra gli oggetti sparsi sul suo letto c’è una monografia di Magnasco. Un Pulcinella del pittore genovese se ne sta stravaccato sulla copertina dei Concerti del 1991. E dal suo appartamento di famiglia a Villa Saluzzo Bombrini, volgendo lo sguardo verso la valle del Bisagno, il giovane De Andrè poteva vedere lo stesso panorama che Magnasco dipinse nel Trattenimento, dato che con tutta probabilità anche l’artista dovette eseguire l’opera guardando le colline di Genova dal giardino della villa tardocinquecentesca.
Nel suo giardino, Magnasco mette in scena lo spettacolo decadente d’un’aristocrazia che corre inerosabile verso il suo sfacelo. Lo sguardo del pittore dal colle di Albaro s’allarga verso la piana del Bisagno, verso la sua campagna, oggi fortemente urbanizzata: sullo sfondo, dietro le mura secentesche, il quartiere di Marassi, le ultime propaggini orientali della città, le colline che la incorniciano. In primo piano, al di qua del muro che separa la villa dal contado, ecco il trattenimento, come da titolo che fu dato alla tela nel 1947, due anni prima d’esser esposta alla monografica di Palazzo Bianco, per la quale fu anche scelta come immagine di copertina del catalogo: vediamo dame e gentiluomini, preti e giovani damerini, bambini e cani, camerieri, anche un artista intento a disegnare, forse un ironico autoritratto (si noti come se ne stia solitario, distaccato, a tracciare immagini su di un foglio). Son tutti intenti a conversare, a giocare a carte, a scherzare, tranquillamente seduti su comode sdraio.
Il pennello di Magnasco, com’è per lui consueto, è rapido e pastoso allo stesso tempo, guizzante e dissacrante, impietoso, e giunge qui a una delle vette della sua libertà: siamo in una fase avanzata della sua carriera, attorno al 1740, e l’artista genovese tratteggia gli attori del suo instabile palcoscenico con pochi colpi nervosi e frammentati di pennello, i “veloci, sprezzati, artificiosi tocchi” di cui parlava Ratti, dando vita a figurine inespressive, allungate e tremolanti, che emergono da grumi densi di tonalità terrose. Non sembrano neppure esseri umani: paiono semmai larve colte un attimo prima che si dissolvano per non tornare mai più. Si avverte un forte senso d’inquietudine, di precarietà, di angoscia, di somma insicurezza, sottolineato pure dal muro perimetrale della villa, che sembra come corroso, in rovina, destinato a crollare da un momento all’altro: c’è addirittura un ragazzetto, vestito di stracci, che lo sta scavalcando. Un dettaglio sarcastico, quasi a suggerire che quelle delizie tra le quali la nobiltà gozzoviglia serena siano minacciate da fuori.
Anche la veduta è soffocante, opprimente, insolita: quanti pittori avranno dipinto vedute di Genova senza mostrare il suo mare? In occasione della mostra dedicata a Magnasco e tenutasi sempre a Palazzo Bianco, ma nel 2016, veniva data notizia della scoperta d’un dipinto dei fratelli Van Deynen, un Ricevimento genovese in onore degli arciduchi Alberto e Isabella d’Asburgo, così simile al Trattenimento da potersi considerare diretto precedente, che proponeva al riguardante all’incirca la stessa veduta, ma lo sguardo dei due fiamminghi s’estendeva fino al mare, a delineare con precisione il profilo del lazzaretto, alla foce del Bisagno, e l’ansa del golfo ch’entra nella città. È vero che probabilmente, alla base della veduta di Magnasco, c’era una precisa esigenza del committente, uno dei membri della famiglia Saluzzo: quella d’includere il santuario di Nostra Signora del Monte, cui i Saluzzo erano legati. Ma una veduta di Genova senza il mare dà comunque un senso d’asfissia.
La città era allora in pieno declino: politico, economico, sociale. È come se anche quel mare su cui Genova aveva nei secoli costruito la sua potenza sia diventato qui un accessorio ormai svuotato della sua rilevanza. Ma quell’elegante e immobile corteo, quei galantuomini e quelle nobildonne quasi istupiditi dai loro piaceri, sembrano non accorgersi di niente, completamente distaccati dalla politica, dall’amministrazione della città, dagl’incarichi di governo, presi dall’inanità e della vanità dei loro intrattenimenti, e quasi schiacciati dalle loro ville disseminate nella campagna, dai loro parchi e dai loro verzieri, se vogliamo guardare al paesaggio secondo quell’icastica lettura che, nel 1969, ne diede lo storico Franco Venturi, autore d’una descrizione del dipinto spesso citata anche nei libri di storia dell’arte.
Questo “meraviglioso quadro”, come lo definiva, era la più evidente immagine della decadenza d’una città dal peso politico sempre più ridotto, dove l’economia stagnava e le stesse ricchezze private stentavano a espandersi, dove le famiglie che l’avevan resa illustre e prospera andavano inaridendosi, dove regnava l’immobilismo. “Son questi i nobili, i patrizi che dipingeva, proprio in quegli anni, nel suo meraviglioso quadro, conservato oggi a Palazzo Bianco, Alessandro Magnasco: meschini e piccoli, chiusi nella loro minuta vita di gioco, di conversazione, di riposo, accompagnati dai loro abati e dai loro cagnolini [...]. Una decadenza secca e arida negli uomini, ornata e ricca nelle cose”. Così Venturi. Ora, non sappiamo fino a quale grado di consapevolezza potesse spingersi il pittore. Di sicuro, se il committente era un membro della famiglia Saluzzo, è piuttosto arduo pensare che condividesse una visione così feroce. E per veder calare il sipario della storia su quella “civiltà della conversazione, del cioccolato e del caffè”, ha fatto notare Clario Di Fabio descrivendo questo dipinto, ci sarebbero voluti altri cinquant’anni. Ma in questo Trattenimento, quanto meno, s’avvertono i primi sintomi.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).