Suona forse un poco strana, a chi oggi dovesse sfogliare Il libro bianco di Jean Cocteau, l’idea che l’autore di questo singolare racconto, a metà tra autobiografia, romanzo e confessione, non utilizzi termini precisi per definire la propria omosessualità, né accenni alla minima rivendicazione o dichiarazione del proprio orientamento, per quanto chiaro ovviamente appaia da quelle pagine composte con tanto ardore, tanta poesia. Il libro bianco (Le livre blanc) è uno dei primi scritti autobiografici della storia della letteratura in cui l’autore ripercorra le origini e lo sviluppo del proprio sentimento omoerotico. Non è il primo in assoluto: basterà pensare a Se il grano non muore di André Gide, che precede di quattro anni Il libro bianco, benché molte siano le differenze che dividono le due opere: quella di Gide è un resoconto di tutti i primi ventisei anni dello scrittore, mentre il libro di Cocteau altro non è che un racconto delle sue esperienze erotiche. È però possibile considerarlo come uno dei capisaldi, uno dei manifesti più brillanti della letteratura omosessuale, per diverse ragioni. L’assenza di qualunque infingimento o mascheramento letterario. Il suo carattere di romanzo autobiografico in cui ogni vicenda ruota attorno alla scoperta, e poi alla presa di consapevolezza, del proprio orientamento sessuale. La franchezza con cui Cocteau confessa a se stesso e ai lettori le proprie inclinazioni, i turbamenti che derivano da questa condizione, fino all’idea di cercare conforto nella spiritualità, salvo poi giungere alla conclusione che non è possibile fuggire a se stessi, e che neppure la società può rifiutare un uomo che ne fa parte solo perché la sua natura è diversa rispetto a quella che qualcuno ha elevato a canone (“questo libro”, scrive Cocteau nel finale, “forse aiuterà a capire che esiliando me stesso non esilio un mostro, ma un uomo a cui la società non permette di vivere poiché lo considera un errore degli ingranaggi misteriosi del capolavoro divino”).
È difficile non considerare, leggendo le conclusioni dell’autore, Il libro bianco anche come un libro di denuncia, anche se forse Cocteau non aveva questa contezza: l’idea che il titolo derivi dall’uso di adoperare l’espressione “libro bianco” per indicare un rapporto politico che includa elenchi di azioni o informazioni su di un dato argomento non può che apparire anacronistica, dal momento che l’utilizzo del termine white paper appare per la prima volta nel 1922, e di sicuro non era ancora entrato nell’uso comune all’epoca in cui Cocteau pubblicava il suo racconto. O se non come un libro di denuncia, Il libro bianco potrebbe comunque essere considerato uno scritto da cui traspare una qualche forma di contestazione: nel finale, Cocteau s’abbandona alle stesse considerazioni che, tre secoli prima, Salvator Rosa affidava alle sue Satire (“quel che aborriscon vivo, aman dipinto”): “Questo è il tempo degli assassini”, scrive Cocteau, “e i giovani farebbero meglio a ricordarsi la frase ‘L’amore dev’essere reinventato’. Le esperienze pericolose, il mondo le accetta nel campo dell’arte perché non prende sul serio l’arte, ma le condanna nella vita”. Eppure, nonostante i presupposti, il libro uscì quasi nascosto. Venne pubblicato per la prima volta nel 1928, “bianco” come da titolo, ovvero senza illustrazioni, col solo titolo in copertina, e persino anonimo. Solo due anni più tardi, in una nuova pubblicazione per i tipi di Editions du Signe, il libro, benché ancora anonimo, sarebbe uscito con alcune illustrazioni. E mai Cocteau avrebbe rivendicato l’autografia del libro, pur accettando, a fine carriera, di farlo includere nella sua opera omnia.
La mostra monografica che la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia ha dedicato a Jean Cocteau (dal 13 aprile al 16 settembre 2024, a cura di Kenneth E. Silver) ha riunito un paio di studî per Le livre blanc, assieme a un numero piuttosto nutrito di fogli di altri periodi in cui l’artista, possiamo pensare, riversa comunque parte dell’immaginario che innerva il libro. “Si tratta”, spiega Silver riferendosi alle illustrazioni per Il libro bianco, “di disegni belli e suggestivi, non ‘realistici’, immagini di giovani uomini avviluppati e intrecciati, dove le parti del corpo sono spesso scomposte: una mescolanza di contorni disegnati con sensibilità e di passaggi sfumati”.
Fu con le illustrazioni per Il libro bianco che Cocteau si cimentò, per la prima volta, nella rappresentazione di un’omosessualità “visivamente astratta”, come la definisce Silver, seguita poi da “decenni di disegni realistici di vario tipo, tutti alquanto espliciti”, a cominciare da quelli eseguiti per illustrare la Querelle de Brest di Jean Genet. Certo: anche le immagini per il Il libro bianco, seppur meno caricate e meno audaci rispetto a quelle che Cocteau avrebbe tratteggiato successivamente, non lasciano gran spazio all’immaginazione e si fanno spesso traduzione visiva fedele del linguaggio schietto e franco col quale l’artista parla della propria omosessualità nel libro, benché le figure, all’occhio dell’osservatore, paiono quasi fluttuare in un’aura da sogno. I disegni di Cocteau si muovono nello spazio d’una rêverie che mescola astrazione e figurazione, dove il ricorso a scomposizioni che affondano radici nel cubismo è funzionale a mescolare (ma al contempo anche a separare) il corpo del narratore con quello dei personaggi del libro, e a lasciar campo a un’ambiguità che amplifica quella che traspare dalle pagine. Lo stesso Cocteau, del resto, s’era autodefinito “una menzogna che dice sempre la verità”. Se leggendo Il libro bianco ci si trova avvolti dal racconto credibile d’un percorso formativo, una sorta d’iniziazione all’amore omoerotico descritta con sincerità e disinvoltura da un autore che, comunque, non manca di mescolare realtà e finzione (per esempio, il vero Cocteau da giovane scappò a Marsiglia e non nella Tolone in cui sono ambientate alcune delle più audaci vicende del romanzo) ed evita di proporsi al lettore esibendo anche la minima rivendicazione, con le illustrazioni viene lasciato al lettore l’ulteriore incomodo di capire se la storia che si scioglie sotto i suoi occhi è realtà o sogno, è vita o fantasia confessata, è resoconto d’un’esperienza o proiezione d’un desiderio. Il giovanissimo Dargelos, il compagno di scuola di Cocteau, il primo ragazzo di cui l’autore s’innamora, non ricambiato (morirà poi in circostanze tragiche), viene disegnato nella stretta di due gambe nude che non trovano riscontro nel romanzo e che vanno semmai lette come la traduzione d’una ossessione di Cocteau, che anche da giovane adulto rivedrà l’immagine di quel ragazzo a lungo sognato nei volti degli amanti che incontrerà nella sua vita.
Non mancano, tuttavia, corrispondenze più puntuali tra l’immaginario delle illustrazioni e quello del romanzo. L’episodio della glace transparente, lo “specchio trasparente”, il vetro che, nel romanzo, divide in due ambienti la sala d’un bagno pubblico per uomini, e da un lato è trattato a specchio mentre dall’altro è trasparente consentendo a chi si trova in un ambiente di guardare chi sta nell’altro senza esser visto, sembra esser più una fantasia erotica che la descrizione d’una reale esperienza (“Uno dei miei unici rimpianti è stato il vetro trasparente. Ci sediamo in una cabina buia e apriamo una persiana. Questa persiana rivela una tela metallica attraverso la quale lo sguardo abbraccia un piccolo bagno. Dall’altro lato, la tela era un vetro così riflettente e liscio che era impossibile intuire che fosse pieno di sguardi. Per qualche soldo potevo passare lì la domenica. Dei dodici specchi presenti nei dodici bagni era l’unico di questo tipo. Il capo l’aveva pagato un sacco di soldi e l’aveva fatto arrivare dalla Germania. Il suo personale non era a conoscenza dell’osservatorio. La gioventù lavoratrice serviva da spettacolo. Tutti seguivano lo stesso programma. Si spogliavano e appendevano con cura i vestiti nuovi. [...]. In piedi nella vasca da bagno, si guardavano – mi guardavano – e cominciavano con una smorfia parigina che metteva in mostra le gengive. Poi si massaggiavano una spalla, prendevano il sapone, si facevano insaponare. L’insaponata si trasformava in una carezza. All’improvviso i loro occhi abbandonavano il mondo, le loro teste cadevano all’indietro e i loro corpi sputavano come animali furiosi. Alcuni, stremati, si lasciavano sciogliere nell’acqua fumante, altri ricominciavano la manovra [...]. Una volta, un Narciso che si stava divertendo portò la bocca al vetro, ci s’incollò e portò avanti l’avventura con se stesso fino alla fine. Invisibile come gli dèi greci, premevo le mie labbra contro le sue e imitavo i suoi gesti. Non aveva mai saputo che, invece di riflettere, il vetro agiva, era vivo e lo aveva amato”). Ecco: quelle immagini disegnate, così delicate, quasi aeree, di corpi che si fondono, di giovani uomini che si scoprono i loro genitali e cominciano a toccarsi, persino quella del contadino nudo a cavallo che rappresenta per Cocteau il primo contatto con la propria omosessualità, paiono aver a che fare più con l’invisibile che col visibile, sono bagliori dentro una nebbia che combina ricordi, voglie, proiezioni, offrono a chi le guarda la sensazione d’un groviglio sfumato dove il limite tra finzione e realtà è labile come quello che separa il Cocteau dello specchio dal ragazzo davanti al quale si masturba, lasciando che il lettore s’interroghi sull’effettiva concretezza di quell’esperienza (“L’estetismo in Cocteau si esprime spesso attraverso l’immagine dello specchio”, ha scritto lo studioso Richard Dyer: “Gli specchi estetizzano perché inquadrano frammenti di realtà che restituiscono su una superficie scintillante e unidimensionale: trasformano la realtà in belle immagini”).
I disegni che Cocteau avrebbe prodotto dopo quella prima edizione illustrata del Libro bianco non hanno lo stesso carattere onirico: pur attingendo dallo stesso immaginario, appaiono decisamente più descrittivi. La mostra di Venezia ne ha radunati un buon numero: due amanti nudi a letto, coi genitali ben descritti, coi peli pubici minuziosamente tratteggiati, raffigurati mentre s’abbracciano a cucchiaio (una coppia di marinai per la Querelle de Brest di Genet), e poi ancora il ritratto di Édouard Dermit, amante di Cocteau, raffigurato nudo a letto, oppure i Deux hommes enlacés “Jean à Jean” (un doppio ritratto dello stesso Cocteau che si ritrae assieme al suo compagno, l’attore Jean Marais), senza dimenticare l’intenso ritratto dell’amante Marcel Khill raffigurato nudo, a letto, mentre fuma oppio. “È difficile”, scrive Kenneth Silver, “sopravvalutare l’impatto di questo corpus di opere sui contemporanei di Cocteau e in generale sugli uomini gay da allora in poi: non esiste nulla di paragonabile, nessun’altra forma d’arte maschile queer così seducente a opera di una figura importante dell’avanguardia, parigina o meno”.
Un erotismo diretto, esplicito, che non di rado trova riferimenti nell’arte del passato, sia quando Cocteau adopera la parola scritta (ne è un esempio lo stesso episodio del vetro, in cui il giovane che s’attacca allo specchio viene paragonato a un novello Narciso), sia quando ricorre al disegno (difficile non vedere nel ritratto di Édouard Dermit nudo una qualche eco del Fauno Barberini, oppure una sorta di traduzione omosessuale dell’Amore e Psiche di Canova nel ritratto Jean à Jean): il mito serviva a Cocteau per indagare la realtà al di là dei suoi aspetti visibili e tangibili, oltre che per celare, almeno in parte e secondo accorgimenti raffinati, il proprio desiderio omoerotico lasciando al pubblico l’incombenza di decodificarlo. Un erotismo che, letto attraverso i disegni che Cocteau eseguì per la prima edizione illustrata del Libro bianco e quelli che avrebbe poi prodotto dalla fine degli anni Trenta in poi (e in particolare quelli degli anni Quaranta e Cinquanta) ci aiuta anche a comprendere come l’artista dovette percepire la propria omosessualità durante la sua vita.
È stato lo studioso Frédéric Canovas a mettere in luce questa differenza di percezione. Dalla stesura del Libro bianco, si ricava l’idea d’un Cocteau combattuto tra la necessità e il desiderio di conoscere se stesso e la difficoltà d’esprimere, se non di raggiungere, questa conoscenza. Canovas nota come Cocteau esprima questa omosessualità, nel Libro bianco, con termini come “ignoranza”, “cecità”, “onda”, “mistero”: una preoccupazione, un’assenza, un qualcosa di cui l’artista è consapevole ma che non riesce forse a comprendere fino in fondo, ragione per la quale, alla fine, cercherà di ricorrere all’aiuto della propria dimensione spirituale, salvo poi concludere con la presa di coscienza finale, che si concretizza nella consapevolezza d’una società che rifiuta gli omosessuali (un rifiuto, un disprezzo che Cocteau dovette anche subire in prima persona, financo nel proprio ambiente artistico, stante l’ostruzionismo che André Breton oppose contro la sua presenza nel gruppo dei surrealisti: “accuso i pederasti”, scrisse Breton nel 1928, “di proporre alla tolleranza umana un deficit mentale e morale che tende a configurarsi a sistema e paralizzare tutte le società che rispetto”). Forse, anche i disegni degli anni Trenta sono da leggere sulla base di questa sfuggente percezione di sé.
I fogli degli anni Quaranta e Cinquanta sono quelli del Cocteau che ha invece meglio afferrato i contorni del proprio orientamento: una consapevolezza che sarebbe poi sfociata nella pubblicazione, nel 1947, de La Difficulté d’être, altro scritto autobiografico in cui l’artista sottolinea come la sua omosessualità non dovrebbe avere significati e conseguenze sulla sua posizione all’interno della società. “La cecità, l’istinto, la confusione e la mancanza di forma, un tempo percepite come maledizioni”, scrive Canovas, “adesso vengono considerati aspetti positivi e piacevoli dell’omosessualità”. I personaggi che popolano i disegni più tardi di Cocteau, a partire da quelli che accompagnano l’edizione del 1949 del Libro bianco, appaiono soddisfatti, appagati, forse addirittura orgogliosi, i loro corpi assumono una più definita consistenza materiale ma soprattutto dimostrano una maturità ch’è invece difficile da riscontrare nelle opere di quindici-vent’anni prima. Incarnano quella che Cocteau chiama “la forza nell’amore con forza”, ovvero, spiega Canovas, “una visione più positiva ma anche più idealistica e narcisistica dell’omosessualità”. Da qui deriva anche il carattere più marcatamente sensuale dei disegni tardi, l’assenza di qualunque forma di censura, l’erotismo disinibito e privo di filtri, talora al limite della pornografia. Tuttavia, va rimarcato che Cocteau non avrebbe mai esposto, o comunque permesso la diffusione al pubblico, dei disegni più spinti: evidentemente non si sentiva pronto, oppure riteneva che il pubblico non fosse ancora pronto per affrontare figurazioni simili. La storia editoriale del Libro bianco, da leggere in parallelo all’evoluzione dei suoi disegni, rende tuttavia evidente come Cocteau abbia utilizzato le immagini, come ha scritto Canovas, per “‘riscrivere’ la sua storia e darle una nuova svolta o almeno una sfumatura più positiva”. I disegni di Cocteau raccontano la storia d’un uomo che cercò a più riprese di modificare la maniera di dichiarare la propria omosessualità. Il libro bianco non poteva essere riscritto, e andrà comunque ribadito che Cocteau, per tutta la vita, si sarebbe rifiutato di riconoscerne in maniera esplicita la paternità. L’apparato illustrativo poteva però essere modificato, e probabilmente la trasformazione delle immagini riflette il cambio di posizione che Cocteau assunse nei riguardi della propria omosessualità, una posizione che, negli anni della maturità, si sarebbe rivelata più conciliante col proprio passato, meno guardinga, decisamente più fiera, consapevole che quelle resistenze omofobe che l’artista fu sempre costretto a fronteggiare, e che rimangono tuttora la spiegazione più plausibile per la scelta di pubblicare Il libro bianco in forma anonima, cominciavano a farsi sempre più deboli. Segno che forse anche i tempi stavano maturando.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).