Tra le rovine di San Bruzio, antico monastero della Maremma toscana


Immerse tra i campi della Maremma toscana, a poca distanza dal borgo murato di Magliano, si stagliano le rovine di San Bruzio, antico monastero benedettino di cui oggi rimangono solo alcuni ruderi della chiesa monastica. Abbandonato senza che ancora si sappia il motivo.

Vento, cicale, calma. Le rovine del monastero di San Bruzio s’ergono sul dosso tondeggiante d’un morbido poggio, nascosto tra i campi, lungo la provinciale che dal castello di Marsiliana conduce fino al borgo di Magliano, ancora stretto nel cerchio imperioso delle sue mura di pietra e travertino. La strada striscia in mezzo alle campagne deserte e dorate della Maremma toscana, bruciate dal caldo d’un’estate infinita. Ogni tanto un boschetto di lecci, macchie d’ombra come miraggi al riparo dai dardi infuocati d’un sole tenace, inflessibile, prepotente. Sulla destra, arrivando dal bivio con la strada regionale, sfila la rete di metallo che protegge la necropoli etrusca. Un filare d’oleandri segnala la presenza d’un agriturismo solitario. A metà strada torreggia un circoletto d’altissimi cipressi, che paiono messi lì a far da guardia ai poderi coltivati. E poi, nel silenzio, dopo una curva, ecco in lontananza San Bruzio a rinfrancare la veduta.

L’esigenze del turismo moderno hanno evidentemente imposto agli amministratori locali la necessità d’aprire un parcheggio, non segnalato: lo si trova d’improvviso, ordinata distesa di polvere e ghiaia che giace lungo il bordo della provinciale. Nessun mezzo posteggiato. Dalla parte opposta, un sentierino di terra battuta guida il viaggiatore verso quel che resta dell’antico monastero dell’undicesimo secolo. Oggi San Bruzio è una deviazione dalle rotte di chi attraversa per lungo e per largo le terre di Maremma. Distante, il rettilineo dell’Aurelia trascina orde d’indomabili vacanzieri, mescolando i mezzi di chi raggiunge le ville e gli alberghi di lusso dell’Argentario, e quelli di chi arranca verso i campeggi che stanno tra Fonteblanda e Albinia, paesoni dove tutto è ancora semplice, dove tutto è ancora sincero, dove la vita scorre lenta tra una sagra del pesce e un gelato in piazza, dove ancora arrivano gli eredi di quelli che una volta si chiamavano “villeggianti”, calavano dalle regioni del nord Italia, e ogni estate, cascasse il mondo, dormivano per settimane nelle stesse case, si sfamavano negli stessi locali, prendevano il sole sulla stessa spiaggia.

È sul litorale oggi la vita. In antico, invece, s’evitava con cura di disegnare tragitti che passassero lungo la costa: la Maremma era un’enorme palude, sconfinata, mortifera, infestata di briganti. C’era dunque il serio rischio di non tornare vivi dal proprio viaggio, e si passava dal più salubre e civilizzato entroterra. Da queste parti, poi, forse non passavano neppure tanti pellegrini, che per dirigersi a Roma preferivano percorrere gl’itinerarî del senese, accolti dai monaci di Sant’Antimo, da quelli di San Michele a Poggibonsi, di San Galgano, di Abbadia a Isola, dei tanti monasteri che punteggiavano la Val d’Orcia, le Crete, la Val d’Elsa, le colline attorno all’Amiata. Nella Maremma selvaggia, più lontana dalle vie del pellegrinaggio, le abbazie erano soprattutto luoghi di produzione, aziende agricole avanti lettera, grance fortificate gestite da frati e monaci, lungo la strada che dall’Amiata scendeva verso il porto di Talamone, nelle terre che furono degli Aldobrandeschi. E offrivano riparo non tanto a chi era in viaggio verso la Città Eterna ma, forse meno romanticamente, ai lavoratori delle saline alla foce dell’Albegna e a quelli delle miniere di ferro che si muovevano tra le montagne e il mare. Magari poteva accadere, ogni tanto, che qualche sparuto viandante s’avventurasse per queste campagne, fino a spingersi a lambire la riviera: tra i ruderi dell’abbazia di San Rabano ad Alberese, poco distante da San Bruzio, venne rinvenuta un’insegna di pellegrinaggio recante l’immagine di san Nicola. Segno che qualcuno doveva passare anche per queste piane poco frequentate. Non è però dato sapere se anche San Bruzio si prestasse a far da ricovero ai pellegrini.

Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini

Di questo complesso sappiamo poco e niente. Il fatto che fosse dedicato a un santo inusuale, san Tiburzio martire, storpiato in “Bruzio” dai parlanti locali, non aiuta a far luce. Non sappiamo quando San Bruzio fu costruita, anche se il linguaggio di quel ch’è rimasto asseconda l’idea che la prima pietra dovette esser posata molto prima del Duecento. Non sappiamo come doveva essere quand’era integra. Non sappiamo quando fu abbandonata. Non sappiamo perché venne distrutta. Non siamo neppure certi che qui ci fosse una comunità monastica, anche se ci sono ottime possibilità che siano stati i benedettini a costruire la struttura: l’ipotesi è confortata dalle evidenze stilistiche che si possono riscontrare in mezzo alle rovine. Un erudito maremmano dei primi del Novecento, tale Carlo Alberto Nicolosi, autore d’alcuni libri su queste terre, si divertì a immaginare che la chiesa di San Bruzio fosse rimasta incompiuta: solide le rovine sopravvissute, assenti tracce d’intonaco o d’abbellimenti, e tanto bastava allo studioso per figurarsi una fabbrica che a un certo punto della storia restò interrotta, per chissà quali motivi. Non fu così: ci sono documenti antichi che attestano comunque una presenza a San Bruzio. Nel 1216, la “chiesa di S. Tiburzio di Malliano” è menzionata come dipendenza dell’abbazia di Sant’Antimo. Nel 1276 e poi ancora nel 1321 è citata negli elenchi delle decime. Nel 1356 figura tra gli Statuti del Comune di Magliano, dove ai cittadini viene imposta una tassa per riparare il tetto della chiesa. Poi le fonti tacciono.

Il capocroce, la parte della chiesa che sta oltre il transetto, è tutto quello che resta di San Bruzio. Facendo ovvia eccezione per le pietre sparse a terra tutt’intorno. Sulle prime, quando ci si trova ancora sul sentiero, sembra che i ruderi dell’antica chiesa monastica anneghino tra gli ulivi. Poi, quando s’arriva di fronte alle rovine, ci si sente come sconvolti, sopraffatti, sovrastati dalla loro imponente gravità. Nel Settecento, gli abitanti della zona chiamavano San Bruzio il “tempio pagano”: non sapevano dare altra spiegazione a quei resti, e alle sculture che ancora ornano i suoi capitelli, un linguaggio figurativo del quale avevano perso memoria. Ma come noi oggi, anche loro avvertivano un senso d’inquietudine dinnanzi alla solenne maestà delle rovine di San Bruzio. Forse neppure s’azzardavano a metterci piede dentro, forse s’avvicinavano con un certo timore a quella strana costruzione ferita, monca, sfigurata, della quale sapevano poco meno di quel che sappiamo noi.

E chissà se, tre secoli fa, San Bruzio si presentava già come si presenta adesso. Saliti sul poggio, si viene accolti dalla forma geometrica dell’arco trionfale, oltre il quale, guardando frontalmente la chiesa diroccata, rimangono brandelli delle pareti del transetto, e una sezione del tiburio, fornito di monofore su quattro lati, poggiante su altrettanti possenti archi. Persa completamente l’aula, non rimangono che il presbiterio, i monconi dei bracci del transetto con la struttura portante in pietra calcarea, e l’abside semicircolare, decorata all’esterno con coppie di archetti pensili separate da lesene che creano cinque sezioni regolari, dove s’aprono tre monofore. Si supera l’arco trionfale, ci si mette al centro del presbiterio e si volge lo sguardo verso l’alto: sopra il tiburio s’innestava un tempo una cupola che immaginiamo alta e maestosa, dacché solo le rovine raggiungono dal suolo un’altezza d’una quindicina di metri. Qualcosa di simile alla cupola della chiesa abbaziale di Santa Maria Assunta a Colle Val d’Elsa: San Bruzio doveva avere un aspetto non troppo dissimile. Adesso vediamo invece un ottagono aperto sul cielo, con qualche pianta infestante a privare lo sguardo d’una porzione d’azzurro. I bracci del transetto erano un tempo coperti da volte a crociera, che adesso possiamo soltanto intuire. Tra il presbiterio e il tiburio si percepiscono con solare chiarezza le norme d’equilibrio che guidarono gli antichi architetti: l’aspetto delle rovine, “che ha resistito al tempo”, scriveva Mario Salmi, “è nitidamente geometrico nella cupola su nicchie, ed i capitelli ancora in essere presentano un’armonica commistione di elementi zoomorfici e vegetali di intenso plasticismo”. Il grande studioso riteneva che i capitelli di San Bruzio fossero vicini a quelli di Sant’Antimo “per nettezza di segno, per rilievo, per analogia dei motivi tradotti e persino per il minuto piegheggiare concentrico delle vesti”.

Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini
Monastero di San Bruzio
Monastero di San Bruzio. Foto: Federico Giannini

Lo stile dei capitelli, la finezza delle decorazioni, il rigore geometrico dei conci di travertino usati per la costruzione, oltre ai rigorosi rapporti dimensionali tra i varî elementi dell’edificio, hanno indotto e inducono a pensare che gli architetti attivi a San Bruzio fossero d’origine lombarda, forse maestri comacini, ch’ebbero il merito di costruire, sotto il borgo di Magliano, un edificio che non ha eguali. Un unicum, l’hanno definito gli studiosi Barbara Aterini e Alessandro Nocentini, somma di “varie esperienze architettoniche e che”, spiega Nocentini, “tra quelle dell’Abbazia di San Rabano o della pieve di Sovana risulta essere la più antica per coerenza morfologica del paramento murario, ed esprime una correttezza geometrico-statica possedendo una forma armoniosa e geometrie genialmente semplici”. E semplici sono anche le figure rimaste sui capitelli: fiori, motivi vegetali, tre elementi (una protome bovina, un leone, forse un angelo) che sembrerebbero i simboli di tre evangelisti, una bizzarra figura antropomorfa col corpo che assume una postura innaturale e la testa girata di centottanta gradi. Forse la personificazione d’un qualche peccato: il soggetto è raro, ma presente nelle chiese romaniche, anche a molta distanza da qua. Vuole una tradizione che a Bologna, guardando figure simili, Dante abbia tratto ispirazione per le punizioni inflitte ai dannati della sua Commedia. Anche i capitelli di San Bruzio lasciano supporre la presenza di maestri lombardi, che hanno portato in Toscana i repertorî tipici del Settentrione.

In mezzo a tanto sfacelo, la parete interna dell’abside s’è conservata piuttosto bene, coi suoi conci lisci e regolari di travertino: se prima d’entrare si provava un senso di riverente disagio, adesso si comincia ad avvertire un’ombra di tranquillità, quell’impressione di limpida quiete contemplativa che si riesce a provare solo dentro a una chiesa romanica, dentro a uno di quegli antichi templi così semplici, così severi, che Giovanni Lindo Ferretti, tenendo a mente le pievi romaniche della Lunigiana, riteneva più rispondenti a un’idea di chiesa pura, “cassa armonica in mattone o pietra, perfetta per il culto e la preghiera, l’ascolto, l’abbandono interiore, la comunità orante, l’accoglienza del corpo e il librarsi dell’anima allo Spirito”. A San Bruzio, quest’abbandono è amplificato dai suoni della natura, dalla brezza leggera di sale che s’insinua tra le rovine e scuote con dolcezza le fronde degli ulivi, dal canto monotono e cadenzato delle tortore, dalle piante che han preso possesso delle pietre, uniche presenze vive nella chiesa dove un tempo officiavano i benedettini, dal tiburio scoperchiato che invita ad alzare gli occhi e a guardare per un attimo l’infinito. La divinità, allora, vive dentro ogni anfratto, impregna ogni pietra, ogni opera umana, è nella brezza, negli ulivi, nelle tortore, nel cielo, pulsa in ogni singolo filo d’erba che circonda la chiesa di San Bruzio e, all’interno, le fa da pavimento.

L’inizio della storia di San Bruzio si perde nelle nebbie del Medioevo, la sua fine è stata inghiottita dal tempo. Nessuna traccia a testimoniare le ragioni della rovina del complesso, se per un evento naturale o per la devastazione operata dall’essere umano. Forse semplicemente abbandonato perché mutata la situazione economica, in corrispondenza col passaggio dei feudi degli Aldobrandeschi sotto il dominio della Repubblica di Siena. Forse la rovina di San Bruzio è legata alle vicende del porto di Talamone, passato a Siena agl’inizî del Trecento, e tenuto dai nuovi dominatori con enorme difficoltà, a causa dell’avversione dei turbolenti vicini pisani, che non persero occasione d’attaccare più volte lo scalo maremmano, ostili alle politiche marittime dei senesi. Fatto è che, dal quindicesimo secolo, si perde qualunque indizio documentario sul monastero. San Bruzio continuò forse per qualche tempo a offrire occasionale riparo a qualche pastore della zona, come lascerebbero intendere i frammenti di ceramica sei e settecenteschi trovati negli scavi archeologici che hanno interessato la struttura. Poi, secoli di buio e di silenzio. Sono morti gli Aldobrandeschi, ruderi i loro castelli. Morti i monaci benedettini, crollati i loro monasteri, morti i carratori che a Talamone caricavano il ferro dell’Isola d’Elba e lo portavano nei centri di lavorazione della Maremma interna. Con l’immaginazione, forse, si può ancora immaginare San Bruzio come il luogo vivo ch’era tra il Due e il Trecento. Immaginare i monaci in preghiera, a studiare, a lavorare, sentire il suono dei loro passi sulle pietre. Immaginare le voci dei carratori e dei lavoratori delle saline che arrivavano qui bestemmiando Dio, la Madonna e tutti i santi per la loro vita grama. Immaginare quello che doveva essere un tempo questo luogo. In antico brulicante di vita, inserito in un sistema di centri produttivi, di depositi, di fortezze, di assi viarî. Oggi avvolto dal silenzio delle campagne di Maremma.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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