Camminando per gli interminabili corridoi dei Musei Vaticani, ormai colmi di visitatori anche nei martedì mattina invernali, non è semplice concentrarsi sulle opere più straordinarie, cogliere la differenza tra meraviglia e capolavoro, tra il particolare e il generale. E la cartellonistica che (con grande cura, senza intaccare allestimenti ormai storicizzati) ha pur recentemente evidenziato 100 opere notevoli, contribuisce solo in parte ad orientare l’occhio del visitatore poco avvezzo all’arte moderna, contemporanea e, ancor più, antica. Ma certo non si corre il rischio di non notare, nel mezzo del corridoio centrale del complesso Pio-Clementino, datato alla fine del XVIII secolo, un mozzicone di statua che per qualche motivo catturerà il nostro interesse, spingendo a chiedersi di che si tratta, a piegarsi a leggere la didascalia: una domanda che percorre la storia dell’arte e di Roma da più di 500 anni. Quel frammento anonimo è il cosiddetto Torso del Belvedere, e nel nostro sguardo curioso e stupito c’è lo sguardo di tanti prima di noi.
Il Torso del Belvedere è, in estrema sintesi, una statua mutila, un busto e una parte delle gambe. Rappresenta un uomo nell’atto di torcersi, appoggiato su una roccia, seduto su una pelle di felino (leone?), piegato in avanti. Datata al I secolo avanti Cristo, è firmata, in greco, da Apollonio di Atene: una firma che doveva essere un marchio di qualità (di bottega, più che d’artista nel senso moderno) che in effetti la scultura conferma anche a un primo sguardo. Pur entrando nel campo della soggettività, non siamo di fronte a una statua d’epoca romana qualunque, e neppure di livello medio. Non è chiaro chi fosse il soggetto rappresentato, seppur l’ipotesi attualmente più accreditata, come vedremo, faccia propendere per Aiace Telamonio. Ma nella sua storia moderna, l’unica a noi nota, essere frammento ed essere ipotesi ha fatto parte di questa opera quanto il marmo.
Noto a Roma fin dal XV secolo (la prima menzione, ammirata, è di Ciriaco d’Ancona, che lo vide nel palazzo del cardinale Colonna intorno al 1430), del Torso non si conosce la provenienza né si sa dove fu trovato, seppur ritrovamenti alle Terme di Caracalla o in Campo de’ Fiori furono raccontati da autori successivi, ma frutto appunto, è ormai chiaro, di leggende o invenzione. Intorno al 1500, il torso risulta trovarsi nelle mani dello scultore Andrea Bregno, e poi, tra il 1530 e il 1536, presumibilmente sotto il pontificato di Clemente VII, è arrivato nel luogo che gli ha dato il nome con cui lo conosciamo oggi: entrato nelle collezioni pontificie, è finito esposto nel Cortile delle Statue allestito inizialmente da Giulio II, il Belvedere annesso alla villa di papa Innocenzo III. Qui la storia di questo anonimo eroe di marmo conosce la svolta, insieme ad altre sculture entrate nell’immaginario collettivo, come il Laocoonte, l’Ercole con Telefo, o l’Apollo… del Belvedere. Qui la scultura incontrò sul suo cammino Michelangelo Buonarroti, che studiandola in ogni sua parte, definendola “opera d’un huomo che ha saputo più della natura”, e facendone modello per tante delle sue figure, in particolare nella Cappella Sistina, donerà celebrità pluricentenaria al frammento. Che, si badi, non è affatto scontato vedere ancor oggi in forma di frammento: la regola, nel Rinascimento e anche nei secoli successivi, era di integrare le sculture mutile antiche. Ma non accadde al Torso del Belvedere. Michelangelo, si narra, si rifiutò di integrarlo, nonostante le richieste della committenza papale, e nessuno oserà farlo dopo di lui.
Il Torso viene copiato, studiato, rivisitato da tanti, da Raffaello a Rubens, da Turner a Picasso, divenendo il frammento d’arte antica più citato della storia dell’arte moderna e contemporanea. Winckelmann stesso, inizialmente, non capisce perché tanto interesse per un frammento, ma verrà poi anch’egli convertito all’ammirazione dell’opera. Confiscato da Napoleone nel 1797, tornerà a Roma solo nel 1815, grazie alla mediazione di Antonio Canova. Oggi, nel complesso Pio-Clementino, migliaia di scoperte e rinvenimenti di sculture greco-romane dopo, continua a emanare quella potenza, artistica e non, che tanto impressionò la Roma che usciva dal medioevo: poche opere vi riescono allo stesso modo.
Ma chi è, dunque, effigiato quel Torso, divenuto tale chissà quando e chissà come? L’identificazione ha tolto il sonno ad artisti e critici per secoli. Pur considerato a lungo un Ercole (anche dallo stesso Michelangelo), data la pelle di felino, o leone, su cui siede, l’iconografia in realtà non ha mai persuaso gli studiosi. Nei secoli successivi si ipotizzarono, sempre senza fortuna, identificazioni con Dioniso, Marsia, Sileno, Filottete, Prometeo, tra gli altri. Come accennato sopra, ora l’ipotesi più convincente, elaborata qualche decennio fa a partire dalle osservazioni di Raimund Wünsche, è quella di identificare il Torso con l’eroe acheo Aiace Telamonio, colto nell’atto di meditare il suicidio, dopo aver ricevuto l’umiliazione di non ricevere le armi di Achille, ed essere impazzito.
Secondo questa ipotesi, il Torso mutilato mostrerebbe l’eroe con la testa china, la schiena incurvata, il braccio destro a impugnare la spada su cui si getterà poco più tardi. Un’immagine che ricorre molte volte, secondo quanto ricostruito dagli archeologi, in vasi, gemme, paste e dipinti realizzati da artisti e artigiani che a quella tragedia si erano ispirati già nell’antichità. Un’iconografia che sarebbe stata fissata da un monumento funebre dello stesso eroe, una statua in bronzo datata fra il 188 e il 167 a.C. e collocata davanti a Troia dagli abitanti di Rodi, che si sa essere stata così famosa e ammirata che Marco Antonio l’aveva portata in Egitto come regalo per Cleopatra. Augusto ne ordinò una copia in marmo da portare a Roma: quella che, secondo Wünsche e non solo, sarebbe diventata il Torso del Belvedere. Un’ipotesi solida, ampia, che pure non ha persuaso tutti gli studiosi: il Torso, così mutilo, potrà continuare ad essere conosciuto come Torso ancora per i secoli a seguire. In un monumento al non finito che mai Apollonio di Atene avrebbe pensato di produrre.
L'autore di questo articolo: Leonardo Bison
Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.