Il torneo del Pisanello a Mantova. La storia dell'emozionante scoperta di un ciclo spettacolare


Dipinto in una sala di Palazzo Ducale a Mantova tra il 1430 e il 1433 dal Pisanello, lo spettacolare ciclo del torneo cavalleresco finì presto nell’oblio, coperto da pitture successive. Poi, negli anni ’60 del secolo scorso, l’emozionante scoperta. E oggi per la sala un nuovo allestimento.

“Una delle più importanti acquisizioni nel campo della storia dell’arte nel XX secolo”: così, e giustamente, il direttore del Palazzo Ducale di Mantova, Stefano L’Occaso, definisce la scoperta del ciclo arturiano che uno dei più grandi artisti del primo Quattrocento, Antonio Pisano detto il Pisanello, dipinse in un ambiente della sontuosa reggia gonzaghesca, e del quale s’era da tempo persa la memoria. Le pitture murali del Pisanello, incompiute, erano state coperte nel corso dei secoli, prima nel Cinquecento e poi ancora nel Settecento, e la sala aveva assunto un aspetto completamente diverso rispetto a quello che doveva avere agl’inizi del XV secolo. L’ambiente era stato poi usato poco, anche perché fu interessato da un crollo del soffitto pochi anni dopo la realizzazione delle pitture: anche per queste ragioni, sono scarse le fonti che parlano di quest’opera. Il rinvenimento ha consentito la restituzione di uno dei cicli più significativi del Pisanello (oltre che del suo tempo), e da ottobre 2022, in occasione della mostra Pisanello. Il tumulto del mondo, curata dallo stesso L’Occaso, Palazzo Ducale, con un’encomiabile operazione, ha inaugurato un intervento che ha consentito di ritrovare la corretta leggibilità dell’opera: un nuovo sistema di illuminazione, a luce calda per esaltare le dorature e i dettagli del disegno, e una pedana sopraelevata per tornare alla distanza calcolata dal Pisanello (la quota attuale del pavimento è infatti più bassa di 110 centimetri rispetto a com’era nel primo Quattrocento), portano il visitatore a vedere una sala il più possibile vicina a come la vedeva il grande artista.

La scoperta del ciclo arturiano risale agli anni Sessanta del Novecento: occorsero l’intuizione e la tenacia dell’allora soprintendente di Mantova, il livornese Giovanni Paccagnini, per far riemergere le pitture dall’oblio. Che il Pisanello avesse dipinto in Palazzo Ducale, era cosa nota almeno fin dal 1888, anno in cui fu pubblicato un documento del 1480 in cui si parlava di una “salla del Pisanello” dentro al complesso architettonico. L’importanza di questo ambiente è certificata dal fatto che già nel XV secolo per identificarla veniva adoperato il nome dell’artista, cosa del tutto atipica, straordinaria: solitamente, gli ambienti di un palazzo prendevano nome, spiega L’Occaso, “dal soggetto delle pitture, dalla funzione, da una determinata cromia, o da chi l’abitava”. Si menzionava la stessa sala anche in un carteggio, scoperto più tardi e risalente al 1471-1472, in cui si parlava della preparazione del soggiorno a palazzo di Niccolò d’Este, figlio del marchese di Ferrara, Leonello d’Este. Paccagnini partì proprio da questo documento: poiché tra gli anni Cinquanta e Sessanta il Castello di San Giorgio fu interessato da importanti lavori di ristrutturazione, e dal momento che nel 1480 la “sala del Pisanello” risultava pericolante, il soprintendente intuì che l’ambiente con le pitture andava cercato nella Corte Vecchia, dove i Gonzaga abitarono dal 1328 al 1459 prima di spostarsi al Castello. Paccagnini saggiò diversi locali per poi concentrarsi, infine, su di un edificio fino ad allora trascurato, su due piani: era quello dove Isabella d’Este aveva fatto aprire, nel 1519, il suo appartamento, al pianterreno. La sala nella quale il Pisanello aveva lavorato, divenuta poi la “sala dei Duchi” in quanto decorata in seguito con un fregio settecentesco con le immagini dei duchi di Mantova, si trovava al piano superiore, attigua all’appartamento di Guastalla, e vicina all’infilata delle sale degli arazzi.

Quello che si presentava agli occhi di Paccagnini era, scrive la studiosa Monica Molteni, “un grande ambiente dalla banale facies neoclassica, all’apparenza scevro di elementi che incoraggiassero la ricerca di preesistenze quattrocentesche”. Il degrado a cui la sala era andata incontro nel corso dei secoli aveva però fatto riaffiorare i resti di una decorazione geometrica del tardo Trecento, rinvenuta nel sottotetto, mentre la rimozione degli intonaci dalle facciate esterne dell’edificio aveva reso chiara l’origine trecentesca della struttura. Paccagnini diede dunque il via alle indagini sotto alle decorazioni neoclassiche: la rimozione degli intonaci consentì la scoperta delle sinopie (il disegno preparatorio tracciato direttamente sul muro) che rivelavano l’inconfondibile stile del Pisanello. Fu disposto così lo smantellamento delle riquadrature neoclassiche e lo strappo del fregio (che fu poi ricollocato altrove): “i riscontri più stringenti e definitivi”, spiega Molteni, “si ebbero sulla parete breve del lato della sala dei papi, dove la rimozione dell’intonaco settecentesco e dei soggiacenti resti di pittura cinquecentesca lasciarono affiorare una superficie ricoperta da uno spesso strato di sudicio, che, una volta pulita, rivelò la presenza del fregio araldico e di parti di figure pertinenti alla sottostante scena di battaglia, la cui autografia pisanelliana fu subito evidente”. I lavori di recupero furono affidati ai restauratori Ottorino Nonfarmale e Assirto Coffani, che si erano messi al lavoro a partire dal 1963: servì un anno di lavoro per riportare alla luce i dipinti di Pisanello, che furono puliti e consolidati, cosicché alla fine dell’intervento l’opera dell’artista toscano poteva dirsi recuperata, anche se fu necessario attendere fino al 1972 per la presentazione della scoperta, comunque annunciata solo nel 1969. Si resero infatti necessari lavori di messa in sicurezza dell’ambiente, soprattutto per garantire alle pitture ritrovate le ottimali condizioni di conservazione, trattandosi di un locale che, come detto, nei secoli aveva conosciuto forti fenomeni di degrado. Fu un’impresa tutt’altro che facile: anche le pitture e le sinopie di Pisanello infatti furono strappate (con enormi rulli di legno ancor oggi conservati nei depositi di Palazzo Ducale, e che saranno esposti) per trasferire il tutto su un doppio strato di tela a sua volta sistemato su supporti mobili. Terminati i lavori e annunciata la scoperta, seguì poi lo studio che portò alla pubblicazione della monografia sul ciclo, nel 1972.

Pisanello, Torneo di cavalieri (1430-1433; pittura murale strappata, tecnica mista; Mantova, Palazzo Ducale, Sala del Pisanello, parete sud-est). Foto di Ghigo Roli
Pisanello, Torneo di cavalieri (1430-1433; pittura murale strappata, tecnica mista; Mantova, Palazzo Ducale, Sala del Pisanello, parete sud-est). Foto di Ghigo Roli
Pisanello, Torneo di cavalieri (1430-1433; pittura murale strappata, tecnica mista; Mantova, Palazzo Ducale, Sala del Pisanello, parete nord-est, parte destra). Foto di Ghigo Roli
Pisanello, Torneo di cavalieri (1430-1433; pittura murale strappata, tecnica mista; Mantova, Palazzo Ducale, Sala del Pisanello, parete nord-est, parte destra). Foto di Ghigo Roli
Pisanello, Torneo di cavalieri (1430-1433; pittura murale strappata, tecnica mista; Mantova, Palazzo Ducale, Sala del Pisanello, parete nord-est, parte sinistra). Foto di Ghigo Roli
Pisanello, Torneo di cavalieri (1430-1433; pittura murale strappata, tecnica mista; Mantova, Palazzo Ducale, Sala del Pisanello, parete nord-est, parte sinistra). Foto di Ghigo Roli
La sala rinnovata e con gli allestimenti della mostra Pisanello. Il tumulto del mondo
La sala rinnovata e con gli allestimenti della mostra Pisanello. Il tumulto del mondo
La sala rinnovata e con gli allestimenti della mostra Pisanello. Il tumulto del mondo
La sala rinnovata e con gli allestimenti della mostra Pisanello. Il tumulto del mondo
La targa che ricorda Giovanni Paccagnini, scopritore del ciclo del Pisanello
La targa che ricorda Giovanni Paccagnini, scopritore del ciclo del Pisanello

L’ambiente si presenta dipinto su tutti i lati con un’unica, grande scena raffigurante, senza soluzione di continuità, un torneo di cavalieri raccontato in diverse fasi, anche se non tutte le pareti presentano lo stesso grado di compiutezza: nella parete nord-est, quella a sinistra quando si entra, è sopravvissuta quasi esclusivamente la sinopia, condotta tuttavia con un’accuratezza sospetta per un disegno preparatorio, argomento decisamente importante per comprendere una parte della storia di questo ciclo, come vedremo più sotto. Sulla parete contigua invece sopravvive un’ampia composizione eseguita a tecnica mista, la prima a essere portata a termine: una grande composizione che doveva dare l’impressione di essere un grande quadro prezioso, uno splendido arazzo, dal momento che “i clienti di Pisanello”, scrivono Vincenzo Gheroldi e Sara Marazzani, “percepivano il dipinto anche come un grande oggetto di lusso”, come si evince osservando la presenza di molti materiali costosi in questa parte completata (per esempio i finimenti dei cavalli realizzati in stagno dorato, e aggiunti allo strato pittorico: erano richieste precise della committenza, finalizzate a ostentare il valore economico dell’insieme). Anche di questa scena terminata, peraltro, è stata recuperata la sinopia, esposta nella sala attigua.

La scena va letta dalla parete sud-est in senso antiorario: un concitato torneo si svolge sulla parete opposta rispetto a quella da cui si entra nella sala, dopodiché si volge lo sguardo verso la parete lunga a sinistra dove sono raffigurati alcuni cavalieri erranti, colti durante le loro imprese. È stata la studiosa Valeria Bertolucci Pizzorusso a sciogliere l’enigma dell’iconografia del ciclo: alcuni cavalieri erranti raffigurati nella sinopia in prossimità del camino della sala recano infatti i loro nomi, celtici, e scritti in caratteri gotici (Bohort, Sobilor, Arfassart, Sardroc). Sono personaggi legati a un episodio del Lancelot du Lac, romanzo francese medievale in cui venivano raccontate le imprese dei cavalieri di re Artù. L’episodio in questione narra del torneo organizzato da re Brangoire al chastel de la Marche: al torneo prende parte Bohort, cugino di Lancillotto, e miglior cavaliere tra i partecipanti. A fianco della scena del torneo vediamo raffigurato il banchetto che viene dato alla fine del torneo per celebrare il vincitore: Bohort, in qualità di primo classificato, sceglie una damigella da dare in sposa agli altri dodici migliori cavalieri, ma rifiuta la figlia del re, che gli sarebbe spettata, perché aveva fatto voto di castità in vista della ricerca del Graal. La principessa, pur di unirsi a Bohort, convincerà però la sua balia a incantare l’eroe con un sortilegio al fine di passare una notte con lui: dall’unione nascerà un figlio, Hélain le Blanc, destinato a diventare imperatore di Costantinopoli.

Osservando la scena dipinta dal Pisanello, si ha quasi l’impressione di assistere a un vero torneo quattrocentesco, usanza piuttosto diffusa nell’Italia del tempo, per quanto le lacune ostacolino una lettura piena di ciò che l’artista ha raffigurato sulle pareti di Palazzo Ducale. “La cosa forse più sorprendente del torneo illustrato da Pisanello”, ha scritto Andrea De Marchi, “è che non ha un luogo delimitato, si propaga in tutte le direzioni, e in esso regna apparentemente una caotica commistione, per cui si fatica anche a capire chi si stia battendo e contro chi, cavalcando alla lancia o nel corpo a corpo alla spada, chi si stia preparando, chi abbia già combattuto. Coesistono, par di capire, temporalità distinte, con un voluto effetto stordente”. Nella scena del torneo, la parte in alto a sinistra è dominata da cavalieri che sembrano assistere alla lotta che infuria davanti a loro: cavalieri in armatura combattono, lance si spezzano, ci sono cavalli che corrono, combattenti disarcionati che soccombono, altri che giacciono già sconfitti, uno in basso che sta per cadere dal suo destriero. Sulla destra, infine, si noterà l’insolita presenza di un leone rivolto verso il riguardante e, più in basso, di una leonessa con i suoi cuccioli, mentre ancora più sotto si scorge un nano vestito di tricolore. Il fulcro della scena, il punto in cui vediamo le lance spezzate che volano tra i cavalieri che s’affrontano, è leggermente decentrato per suggerire a chi osserva che la figurazione continua sulla parete accanto: vi troviamo un gruppo di cavalieri, incluso uno che guarda verso di noi, con un ampio copricapo. Questo cavaliere biondo dovrebbe essere lo stesso Bohort, il vincitore del torneo. Sopra di lui, vediamo tre personaggi, ritratti con vivace gusto per la caratterizzazione individuale: un uomo maturo dai capelli castani, un moro e un giovane biondo. Nelle sinopie troviamo il palco delle donne, un castello, e infine un paesaggio rigoglioso, colmo di boschi e castelli tracciati con grande cura, dove non è insolito trovare presenze animali e dove si muovono i cavalieri, identificati dalle scritte coi loro nomi.

Scena centrale del torneo
Scena centrale del torneo
Cavalieri impegnati nel torneo
Cavalieri impegnati nel torneo
Ritratti dei cavalieri
Ritratti dei cavalieri
Ritratti dei cavalieri
Ritratti dei cavalieri
Castelli nel paesaggio
Castelli nel paesaggio
Il leone
Il leone
La leonessa
La leonessa
Dettaglio di un cavallo
Dettaglio di un cavallo

Movimento, profondità, precisione nella descrizione sono alcuni degli elementi che guidarono il Pisanello nella realizzazione delle sue pitture, che vengono caricate di significati ulteriori rispetto a quelli che emergono da una lettura immediata dell’opera. “Raramente in pittura”, scrive ancora De Marchi, “è stata avviata una riflessione così deflagrante sulla violenza umana e l’ambientazione accidentata, sommossa al suo interno da tensioni contraddittorie, poenzia l’icastica forza di tanti fotogrammi, di tanti dettagli ben noti”. Per lo studioso toscano, Pisanello si trovò a dover affrontare una doppia sfida: eseguire pitture credibili, realistiche, capaci di trasmettere con esattezza i fenomeni naturali che il Pisanello osservava e che sapeva rendere come nessun altro pittore del suo tempo, e al contempo offrire ai visitatori di questo ambiente una “percezione sinestetica”. Ecco quindi perché questi dipinti ci appaiono così avvolgenti, perché sembra quasi di sentire i cavalli, di sentire le grida del torneo, il vociare di coloro che osservano, pare di immaginarsi la polvere levarsi: la capacità di suscitare questo tipo di sensazioni gli era già del resto riconosciuta anche dai suoi contemporanei. Interessante anche il parallelo instaurato da De Marchi con le scene della Battaglia di San Romano dipinte da Paolo Uccello per Leonardo di Bartolomeo Bartolini Salimbeni: l’artista fiorentino aveva dipinto “eventi bellici come fossero tornei cavallereschi”, mentre il pisano, al contrario, aveva dipinto un torneo in maniera cruda e brutale, come fosse una battaglia. Da una parte, una battaglia dipinta per un notabile fiorentino che, pur avendo partecipato alla campagna di Lucca che Firenze intraprese contro Milano e Siena, non era un soldato di professione, e dall’altra invece un torneo dipinto per una famiglia ben abituata alla vita militare, avendo peraltro lo stesso Gianfrancesco svolto a lungo la professione del capitano di ventura garantendosi cospicue fortune. Innovativa è l’organizzazione dello spazio: l’artista opta per un punto di vista dinamico e diversi elementi ricordano il San Giorgio e la principessa della chiesa di Santa Anastasia a Verona (l’orizzonte molto alto, per esempio, oppure l’affollamento di edifici, e poi ancora, scrive L’Occaso, “medesima la cura nelle architetture, tracciate a Mantova da linee assonometriche e curate nel minimo dettaglio, che chiudono in alto il cielo, medesimo l’impiego di figure che solcano lo spazio in profondità”).

Alcuni elementi del ciclo contribuiscono a far luce sul nome del committente: la famiglia di leoni, il cane alano con la testa rivolta all’indietro nella sinopia dov’è raffigurato il palco delle donne (si trova subito sotto), simbolo di fedeltà, e ancora i fiori come le margherite e le calendule simbolo dei Gonzaga, e la figura del battente, ovvero il “nano” con veste tricolore (bianco, rosso e verde erano i colori della famiglia che reggeva le sorti di Mantova). Inizialmente era stata proposta una datazione tarda per questo ciclo: Paccagnini pensava che il Pisanello vi avesse atteso per Ludovico II Gonzaga dal 1447 fino al 1455, anno della sua scomparsa, circostanza che spiegherebbe il perché dell’incompiutezza in cui si trova il ciclo. Tuttavia, la lettura degli emblemi appena descritti consentì di assegnare più correttamente la committenza del ciclo al padre di Ludovico II, ovvero Gianfrancesco Gonzaga (che è stato anche identificato nel cavaliere con l’ampio copricapo che occupa l’angolo destro della parete laterale: quello nel quale si vuole vedere anche l’immagine di Bohort). Sul perché della scelta del soggetto, così scrive la studiosa Michela Zurla richiamando i suoi legami al contesto della politica di immagine gonzaghesca: “È stato sottolineato in più occasioni il valore che il tema della ricerca del Graal assume in relazione al culto della reliquia del Preziosissimo Sangue di Cristo conservata a Mantova, culto verso il quale i Gonzaga mostrano una profonda devozione, tanto da inserire la raffigurazione del reliquiario in alcune delle proprie monete”. Proprio la scelta di Bohort, secondo gli studi di Ilaria Molteni e Giovanni Zagni, assume una valenza molto rilevante per il fatto che, dopo aver trovato il Graal, fu l’unico dei cavalieri di Artù a tornare alla corte “e ad avere una discendenza, candidandosi, pertanto, come un capostipite ideale per la famiglia Gonzaga” (così Zurla). Non sappiamo però quando il ciclo sia stato realizzato: scartata l’ipotesi di Paccagnini che immaginava un’esecuzione nelle fasi estreme dell’attività del Pisanello, sono state avanzate varie teorie. Per Gian Lorenzo Mellini e Anna Zanoli il ciclo fu eseguito tra il 1436 e il 1444, datazione su cui è d’accordo anche Ilaria Toesca. Per Miklos Boskovits siamo poco dopo il soggiorno romano del 1431-1432.

Animali nel paesaggio
Animali nel paesaggio
L'impresa del cane alano
L’impresa del cane alano
Cavaliere caduto
Cavaliere caduto
Cavalieri impegnati nel torneo
Cavalieri impegnati nel torneo
Cavalieri impegnati nel torneo
Cavalieri impegnati nel torneo
La parata
La parata
Dettaglio di cavaliere
Dettaglio di cavaliere
Palco delle dame
Palco delle dame
La sinopia della scena del torneo
La sinopia della scena del torneo

Proprio a far luce sulla datazione potrebbero essere utili le sinopie. Di recente, lo studioso Alessandro Conti ha proposto di ritenere frutto di scelte deliberate e ben calibrate l’aver eseguito finiture di gran qualità sulle sinopie. Il fatto è che, a un certo punto della sua realizzazione, il ciclo si trovò a uno stato di avanzamento dei lavori troppo precoce per poter essere finito in tempo per palesarsi a qualche personaggio importante che sarebbe stato ospitato nella sala, ed era quindi necessario completare il tutto in via temporanea. L’evento per cui si rese necessaria questa operazione fu probabilmente, secondo Conti, la visita a Mantova dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo nel 1433. “Signorie agli albori come quella dei Gonzaga”, spiega ancora De Marchi, “erano appese al filo della legittimazione imperiale e di importanzza capitale era la prospettiva di poter ospitare il re dei romani e re di Boemia, sceso in Italia da Basilea nell’autunno del 1431”. Pisanello potrebbe dunque aver dipinto il ciclo arturiano prima oppure dopo il suo soggiorno romano, ad ogni modo in tempo per la visita dell’imperatore, che il 6 maggio del 1432, a Parma, concedeva il titolo di marchese a Gianfrancesco Gonzaga, e il 22 settembre 1433, a Mantova, con una cerimonia pubblica rinnovava la sua concessione. La visita dell’imperatore a Mantova era un evento eccezionale, in vista del quale la decorazione della sala doveva necessariamente essere pronta: è possibile dunque supporre, secondo la cronologia proposta da De Marchi, che l’artista possa aver cominciato i lavori prima del suo momentaneo trasferimento a Roma, dove il 26 luglio 1432 ottenne da papa Eugenio IV un salvacondotto per lasciare la città, e di conseguenza potrebbe esser tornato a Mantova per attendere, tra il 1432 e il 1433, alla seconda parte del lavoro, quella delle sinopie e del palco (oppure anche all’intera decorazione della sala, non lo sappiamo con certezza).

Non conosciamo il motivo per cui Pisanello abbandonò il lavoro. Conosciamo però piuttosto bene le vicende a cui andò incontro la sala da lui decorata prima di cadere nell’oblio. Il 15 dicembre del 1480, l’architetto di corte Luca Fancelli scriveva al marchese Federico Gonzaga per informarlo del crollo di una parte del soffitto della sala: Fancelli si adoperò dunque per mettere in sicurezza il locale, rimuovendo anche le parti di soffitto che non avevano ceduto ma che rimanevano pericolanti. Probabilmente, prima del crollo, al piano superiore erano stati ricavati degli ambienti che avevano in qualche modo gravato sulle coperture. Ad ogni modo, dopo il 1480 delle pitture del Pisanello non si sa più niente: secondo la cronologia ricostruita da Stefano L’Occaso, nel 1579 la quota del pavimento fu abbassata, le finestre originali tamponate, vengono aperte le finestre tuttora visibili e viene aggiunto il camino. La sala, a quell’epoca chiamata “sala degli arcieri”, versava allora in uno stato di forte degrado, e fu interamente restaurata da Pompeo Pedemonte, che la coprì con corami, mentre successivamente, nel 1595, fu interamente dipinta con finti marmi da Domenico Lippi e collaboratori, all’epoca in cui quest’ala del palazzo doveva servire da appartamento della duchessa Eleonora de’ Medici, moglie di Vincenzo I Gonzaga. In seguito, nel 1701, fu aggiunto il fregio con i ritratti dei duchi, e la sala divenne dunque nota come “sala dei duchi”: infine, tra il 1808 e il 1812, il fregio fu restaurato e la sala assunse l’aspetto neoclassico che ha mantenuto per più di un secolo. Finché un soprintendente non intuì che sotto quelle quadrature rigide e banali doveva esserci qualcosa di molto più significativo.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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