Uno tra i dipinti più enigmatici e discussi dell’intera storia dell’arte si mostra in tutto il suo fascino al visitatore che giunge nell’ultima sala della Galleria Borghese: è l’opera di Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 1576) nota come Amor sacro e Amor profano. Una grande tela, larga quasi tre metri e alta poco più di uno, le cui protagoniste sono due floride giovani che si dispongono ai lati d’una vasca in marmo bianco, ornata d’un fregio classico e situata al centro esatto della scena. Da una canna posta sopra la lastra centrale sgorga dell’acqua, mentre sul bordo sono poggiati due recipienti: un bacile in argento, e un vaso che la donna a sinistra sfiora con la mano. La giovane è riccamente abbigliata con una meravigliosa tunica bianca, di raso, che copre una veste rossa (ne spunta una manica) e che è fermata all’altezza del seno da una cintura con fibbia d’oro. Guarda verso di noi, ma senza incontrare direttamente il nostro sguardo: par quasi più intenta a tenere a sé il vaso e il mazzolino di rose che, con la mano destra, coperta d’un guanto esattamente come la sinistra, tiene poggiato sul ginocchio. È pettinata come la sua controparte: una giovane completamente nuda, dai tratti somatici identici, tanto da indurci a pensare che le due donne siano in realtà la stessa persona. Forme generose ma al contempo delicate, le gambe che s’incrociano, un manto rosso che dalla spalla scende fino ai piedi, un perizoma bianco che esalta il colorito vivo della pelle che s’arrossa sulle gote, il braccio destro poggiato sulla vasca e quello sinistro sollevato, con la mano che tiene un braciere da cui esce del fumo nero. Tra di loro, un putto rimesta le acque della vasca.
Dietro s’apre un paesaggio tipicamente veneto, fatto di dolci colline che lasciano intravedere, in lontananza, rilievi più aspri. Par quasi che Tiziano abbia voluto suddividere il paesaggio in due sezioni, equamente ripartite da un frondoso albero che si trova al centro della scena, esattamente dietro il putto, così che ognuna delle due porzioni accompagni una delle due donne. A sinistra, dietro la donna vestita, un paesaggio montano, con un borgo costruito sulla cima del monte, sul quale svetta il torrione circolare d’un castello. A destra, un più dolce paesaggio lacustre, con un altro borgo, il cui profilo è caratterizzato da un campanile, adagiato sulle rive del lago, e con un bosco al limitare dello specchio d’acqua. È un paesaggio vivo: ci sono animali (due coniglietti), e soprattutto presenze umane. Nel borgo montano alcuni personaggi s’affaccendano davanti alla porta d’accesso mentre sopraggiunge un cavaliere. Vicino al bosco sulle rive del lago vediamo cacciatori a cavallo col loro seguito di cani, e un pastore che conduce un gregge di pecore.
Il colorito è quello tipico del Tiziano poco dopo gli esordi. Pieno e caldo, luminoso, colmo di cangiantismi e forte d’una gamma vasta, che s’arricchisce di contrasti anche decisi: spicca il drappo della giovane nuda che col suo rosso vivo interrompe bruscamente il digradare verso l’ombra dal paesaggio ed evidenzia i delicati incarnati della ragazza, ma tra i vertici coloristici dell’opera occorre anche sottolineare le ombre dei panneggi della donna vestita, che mutano il bianco dell’abito in un tripudio d’accenti perlacei e argentati, nonché gli squarci luminosi del cielo al tramonto che esaltano il profilo blu delle montagne sullo sfondo e che evocano atmosfere venete.
Tiziano, Amor sacro e Amor profano (1515; olio su tela, 118 x 278 cm; Roma, Galleria Borghese) |
Il dipinto di Tiziano alla Galleria Borghese |
Il titolo col quale l’opera è universalmente nota, Amor sacro e amor profano, è in realtà posteriore alla realizzazione del dipinto: è mutuato da un inventario della Galleria Borghese risalente al 1693 (ancor oggi il dipinto si conserva alla Galleria: con ogni probabilità vi giunse nel 1608, quando Scipione Borghese lo acquistò assieme ad altri dipinti dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati, ma non sappiamo con sicurezza dove si trovasse prima) e che indicava il quadro come “L’Amore divino et Amore profano con un amorino che pesca dentro una vasca al n. 462 di Tiziano con cornice dorata”, poi definitivamente divenuto “Amor sacro e Amor profano” nel 1792 con la guida di Roma redatta da Giuseppe Vasi, il primo a utilizzare l’espressione che conobbe la più vasta fortuna. Tuttavia, quella del 1693 non è la prima attestazione del dipinto tizianesco, e non si trattò neppure della prima volta in cui all’opera veniva attribuito un titolo che cercasse di esplicitarne il contenuto. Prima dell’inventario del 1693, i riferimenti sono puramente descrittivi: un manoscritto sulla Galleria redatto nel 1613 da Scipione Francucci indica l’opera semplicemente come “Beltà disornata e Beltà ornata”, mentre nel 1648 Carlo Ridolfi, nel suo trattato Le maraviglie dell’arte, scrisse che nell’abitazione del principe Borghese si trovava un dipinto raffigurante “due donne vicine ad un fonte, entro a cui si specchia un fanciullo”. Nel 1650 si registra il primo titolo in cui si prova a identificare il soggetto del quadro: Giacomo Manilli, in una descrizione di Villa Borghese fuori di Porta Pinciana, riportò infatti l’esistenza del quadro “grande de’ tre Amori” di Tiziano. Dunque fu probabilmente per tramite dello spunto di Manilli che l’inventario del 1693 tentò d’individuare nelle due donne l’Amore sacro e l’Amore profano, e questa lettura fu destinata a orientare le posizioni della critica per moltissimo tempo. Peraltro non vi fu mai accordo su quale delle due fosse l’Amor sacro e quale l’Amor profano, dacché a ognuna delle due donne si potrebbero assegnare attributi validi per l’una e per l’altra tesi (la donna castamente vestita simbolo d’amor sacro e il sensuale nudo simbolo d’amor profano, ma anche il ricco abbigliamento simbolo di mondanità e dunque d’amor profano, e la nudità allegoria della purezza, simbolo d’amor sacro).
Gli storici dell’arte ottocenteschi si attestarono su interpretazioni di carattere allegorico e morale: Wilhelm Lübke, nel 1878, interpretò il soggetto come “amore e castità”, Moritz Thausing (1884) parlò di “desiderio d’amore e desiderio appagato”, mentre già in Italia Giovanni Battista Cavalcaselle e Joseph Archer Crowe (1877) avevano proposto di vedere nella donna vestita l’“amore sazio” e in quella nuda l’“amore ingenuo” (si trattava, peraltro, della prima volta dal 1792 in cui si proponeva di cambiare il titolo dell’opera). Da questo tipo di letture si discostò, nel 1895, Franz Wickhoff, che propose un’interpretazione di tipo letterario: per lo studioso austriaco, Tiziano aveva tratto il soggetto dal settimo libro delle Argonautiche di Valerio Flacco, e la scena rappresenterebbe Medea (la donna vestita) cui si rivolgerebbe Venere per convincerla a recarsi nel bosco dietro di loro onde incontrare Giasone. L’interpretazione di Wickhoff che, pur debole sul piano dell’identificazione dei personaggi (mancavano infatti elementi decisivi per affermare con sicurezza la loro identità: troppo labile l’appigliarsi al vaso come a quello che avrebbe contenuto i sortilegi coi quali Medea avrebbe aiutato Giasone nelle sue imprese), ebbe il merito di leggere l’opera come un’allegoria dell’invito all’amore, si garantì una vasta risonanza e fu molto discussa: tra i primi a ricusare la teoria di Wickhoff vi fu Italo Mario Palmarini (1902), che tentò anche (con ipotesi molto suggestive, ma basate su fondamenta molto vaghe) di ricostruire la storia dell’opera. Per Palmarini, le due giovani dipinte da Tiziano mostravano somiglianze col dipinto celeberrimo noto oggi come la Donna allo specchio, che per lo studioso rappresentava Laura Dianti, amante di Alfonso I d’Este. Secondo l’autore, l’opera era stata eseguita nel periodo in cui Tiziano lavorò per gli estensi, e il tema gli sarebbe stato suggerito proprio dal duca, che avrebbe chiesto all’artista di rifarsi all’Orlando innamorato di Matteo Boiardo e di raffigurare la propria favorita, vestita e nuda, sopra la fonte d’Ardenna, la fonte dell’amore cantata dal poeta nella sua opera. L’ipotesi di Palmarini fu seccamente rifiutata, sempre nel 1902, da Umberto Gnoli, che facendosi beffe della ricostruzione storica del collega (“Via, così si fanno i romanzi, non la storia dell’Arte!”), prese invece per buona quella di Wickhoff, proponendo di confermarla. Ancora, nel 1906 Leandro Ozzola ipotizzava che il soggetto del dipinto fosse tratto dal libro III dell’Eneide e raffigurasse Venere che esorta Elena ad abbandonare Menelao.
La donna vestita |
La donna nuda |
Il paesaggio dietro la donna vestita |
Il paesaggio dietro la donna nuda |
Cupido mescola le acque della vasca |
I due conigli |
Nel 1910, Olga von Gerstfeld aprì un nuovo filone: la studiosa pensò che le due donne dipinte da Tiziano fossero la dea Venere e la giovane Violante, figlia di Palma il Vecchio, verso la quale si dice che Tiziano nutrisse un sentimento amoroso. Accogliendo l’ipotesi dell’invito all’amore, quella della narrazione d’una vicenda personale e quella del soggetto letterario, nel 1917 Louis Hourticq, in un contributo intitolato La fontaine d’amour de Titien (saggio importante in quanto fu il primo che cercò di legare strettamente il dipinto all’ambiente culturale veneziano del tempo) pensò che il pittore veneto avesse tratto spunto da un romanzo attribuito a Francesco Colonna, l’Hypnerotomachia Poliphili, pubblicato a Venezia nel 1499 e che godette di un gran successo (già nel 1913 Josef Poppelreuter lo aveva indicato come possibile fonte dell’Amor sacro e Amor profano, ma giunse poi a diverse conclusioni). In particolare, Hourticq suggerì che la vasca al centro della scena fosse il sarcofago di Adone, con Cupido che ne raccoglie il sangue per poi offrirlo a Venere, al quale giungono i due protagonisti del romanzo, Polia e Polifilo, e ugualmente a loro, secondo Hourticq, Tiziano avrebbe condotto l’amata Violante nello stesso luogo, al cospetto della dea Venere. L’ipotesi di Hourticq ebbe una vasta eco e fu favorevolmente accolta, seppur spesso con variazioni, da diversi studiosi (Graziano Paolo Clerici, Max Friedländer, August Mayer e molti altri), molti dei quali cercarono d’individuare nella giovane vestita la Polia protagonista dell’Hypnerotomachia Poliphili.
Un altro filone particolarmente fortunato fu quello che tentava di sciogliere i nodi su base filosofica. Secondo tali letture, l’Amor sacro e Amor profano risentirebbe della cultura umanistica del tempo e si nutrirebbe di quella filosofia neoplatonica che si diffuse nei circoli culturali della Venezia del primo Cinquecento: Tiziano, inoltre, era amico di Pietro Bembo, scrittore e poeta la cui opera è pregna di filosofia neoplatonica, e il capolavoro tizianesco risentirebbe di tale clima (secondo alcuni, il soggetto sarebbe stato suggerito da Bembo stesso). In tal senso, la lettura probabilmente più celebre è quella di Erwin Panofsky, che propose d’individuare nelle due donne le due Veneri, quella celeste (nuda) e quella terrena (abbigliata), con Cupido a mescolare le acque nella fonte come simbolo del legame tra cielo e terra. Tuttavia nel 1948 Edgar Wind, nel suo importante saggio Pagan Mysteries of the Renaissance, criticò la teoria di Panofsky, sostenendo che Tiziano abbia voluto in realtà trattare di un’iniziazione all’amore in chiave allegorica (e tuttavia sempre in accordo con la filosofia neoplatonica), con la Pulchritudo, la Bellezza (rappresentata dalla giovane vestita) che viene condotta alla Voluptas, ovvero il Piacere, col tramite dell’Amore.
È però plausibile che le interpretazioni più corrette siano quelle che cominciarono a circolare a partire dagli anni Ottanta e che legano il dipinto a un matrimonio, e ciò anche alla luce delle più recenti scoperte che avrebbero permesso di superare molte delle ipotesi formulate in precedenza. Al centro della fontana, in particolare, si trova uno stemma: è quello di un patrizio veneziano, Niccolò Aurelio, ed era stato ben identificato in passato, tanto che già il succitato August Mayer aveva ipotizzato che il committente dell’opera fosse proprio Niccolò Aurelio. La storia di questi costituirebbe il tragico prologo che avrebbe condotto alla realizzazione dell’Amor sacro e Amor profano. Nel 1509, Aurelio era il segretario del Consiglio dei Dieci, un importante istituto che aveva lo scopo di garantire la sicurezza della Repubblica di Venezia. Nel 1509, il Consiglio aveva condannato a morte un giurista e docente di diritto, Bertuccio Bagarotto, padovano, che era stato accusato di alto tradimento: ci troviamo nel periodo delle guerre d’Italia, e in particolare nell’ambito del conflitto tra la Repubblica di Venezia e la Lega di Cambrai, che riuniva diverse potenze europee (Sacro Romano Impero, Francia, Spagna, Stato Pontificio, regno d’Unghieria, regno di Napoli, ducato di Ferrara, ducato di Savoia, marchesato di Mantova). Dopo la dura sconfitta che Venezia subì ad Agnadello il 14 maggio, diverse città della Repubblica tentarono di staccarsi da Venezia per porsi sotto l’egida imperiale: lo stesso accadde a Padova, che fu abbandonata dalle autorità della Serenissima e fu occupata dagli imperiali. Bagarotto rimase a Padova e tentò di fare da mediatore tra Venezia e l’Impero, continuando a fare formalmente parte del governo cittadino ma senza parteciparvi attivamente. Quando i veneziani riconquistarono la città, Bagarotto e altri furono considerati traditori, condannati e quindi impiccati a Venezia il 1° dicembre. La Repubblica riabilitò la memoria di Bagarotto, giustiziato benché innocente, pochi anni dopo, e per “riparare” il danno inferto alla famiglia, Niccolò Aurelio, nel 1514, sposò la figlia di Bertuccio Bagarotto, Laura, il cui primo marito, Francesco Borromeo, probabilmente andò incontro alla stessa sorte del padre.
La vasca |
Lo stemma di Niccolò Aurelio al centro della vasca |
È probabile che il dipinto sia nato in occasione di questo matrimonio, anche perché la donna vestita presenta tutti gli attributi tipici della sposa (l’abito bianco, i guanti, la cintura chiusa, il mazzo di rose, la corona di mirto) e perché comparirebbero altre allusioni al matrimonio (la coppia di conigli simbolo di fecondità, il bacile interpretabile come desco da parto): come suggeriva Augusto Gentili, il quadro potrebbe costituire la trasformazione della memoria di un fatto tragico in un’allegoria che celebra la vita. Inoltre, un documento rinvenuto nel 1993 da Rona Goffen nell’Archivio di Stato di Venezia parla di una veste bianca di seta posseduta da Laura Bagarotto: è stata subito messa in relazione a quella che la giovane dell’Amor sacro e Amor profano sfoggia nel dipinto. Altri invece hanno voluto individuare nel bacile lo stemma della famiglia Bagarotto (ipotesi tuttavia non confermata, data la difficoltà di lettura del dettaglio). Chiarita dunque l’occasione in cui fu realizzato il dipinto, il cerchio delle ipotesi s’è ristretto alle interpretazioni nuziali. Per Maria Luisa Ricciardi, la donna vestita è Laura Bagarotto, mentre la giovane nuda è la dea Venere che la invita a recarsi a Venezia (secondo tali ipotesi, le due città dietro le due donne sarebbero rispettivamente Padova e Venezia). Giles Robertson seguì questa lettura, modificandola: la ragazza vestita è sempre Laura Bagarotto (che stringe a sé l’urna con le ceneri del padre), mentre la donna nuda è la personificazione della Verità che informa l’osservatore della morte ingiusta del padre (occorre sottolineare che, secondo tali letture, il bassorilievo della vasca, che contiene una scena di punizione, potrebbe esser letto come un riferimento alla vicenda di Bertuccio Bagarotto). Per la succitata Rona Goffen, la donna vestita è allegoria della sposa che promette amore al marito, mentre la donna nuda è la moglie che esorta la sposa all’amore. Tra le ipotesi più recenti, occorre registrare quella di Heiner Borggrefe, secondo il quale il dipinto rappresenta Venere che istruisce Laura Bagarotto nell’ambito del suo matrimonio con Niccolò Aurelio. Negli ultimi anni ha invece acquisito credito un’ipotesi che prende le mosse da un’intuizione che Charles de Tolnay lanciò negli anni Settanta, indicando nella giovane vestita la figura della castità e in quella della nuda, ancora, la dea Venere: s’è dunque fatta strada la teoria secondo la quale le due donne rappresenterebbero le due virtù della sposa, la castità e la sensualità, con Cupido che mescola le acque per trovare il giusto equilibrio tra i due opposti. Un’ipotesi che peraltro si colloca a pieno titolo nell’ambito della cultura veneziana del tempo, dacché il problema di conciliare passione e spiritualità emerge dalle opere dei letterati del tempo, Bembo su tutti.
Per quanto le ultime scoperte abbiano contribuito a fare un po’ di chiarezza, a rimuovere alcune ipotesi sicuramente poco coerenti (in questo articolo s’è fornita una ricognizione ampia, ma necessariamente incompleta) e a fare il punto su quanto è storicamente emerso attorno al dipinto (in tal senso, la mostra sull’opera del 1995, curata da Maria Grazia Bernardini, è stata di grande utilità), rimangono ancora diverse domande prive di risposta. Il tema iconografico non ha precedenti, e ancora non è possibile stabilire con certezza quale sia il suo significato. Non sappiamo quali siano le città rappresentate sullo sfondo, non sappiamo se ci sono davvero legami con la letteratura, non sappiamo neppure se le due figure siano da leggere come complementari o contrastanti. Forse i dubbi sull’Amor sacro e Amor profano di Tiziano, uno dei dipinti più enigmatici e misteriosi di tutti i tempi, non verranno mai sciolti in via definitiva. Ma è forse anche nell’improbabilità di quest’evento che risiede gran parte del fascino di questa meravigliosa opera d’arte.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo