Come si andava alle terme nel Medioevo? Chi fosse curioso di ricavare informazioni sulle cure termali antiche, potrebbe sfogliare un prezioso codice conservato alla Biblioteca Angelica di Roma, un poemetto di Pietro da Eboli (Eboli, 1150 circa - 1220 circa) intitolato De Balneis Terrae Laboris (“I bagni della terra di lavoro”), ma più noto come De Balneis Puteolanis (“I bagni di Pozzuoli”). Scritto nel XIII secolo, è composto da trentacinque epigrammi di sei distici ognuno (anche se nel manoscritto 1474 della Biblioteca Angelica se ne contano solo diciotto), ed ebbe una particolare diffusione perché se ne conoscono ben ventuno testimoni e, secoli più tardi, se ne ricavarono anche diverse edizioni a stampa (dodici, comparse tra il 1475 e il 1607): il manoscritto dell’Angelica, appartenuto nel Settecento a Mario Guidarelli e giunto nel suo attuale luogo di conservazione con la biblioteca dell’abate Domenico Passionei, è tuttavia il testimone più antico dell’opera di Pietro da Eboli, di cui non conserviamo l’originale scritto dal poeta, e fu prodotto negli anni Cinquanta del Duecento da una bottega napoletana evidentemente specializzata nella realizzazione di manoscritti di lusso, data la magnificenza delle illustrazioni a corredo del poemetto.
Ci troviamo, dunque, all’epoca di Manfredi, figlio di Federico II che, secondo il cronista Riccardo di Sangermano, sul finire dell’estate del 1227, mentre si accingeva a partire da Otranto per un viaggio in Terra Santa, sarebbe stato costretto a rimandare il viaggio a causa del diffondersi di un’epidemia, che gli fece cambiare i suoi propositi: “Imperator”, scrive Sangermano nella sua Chronica, “de Apulia tunc venit ad balnea Puteoli”, ovvero “L’imperatore dalla Puglia se ne andò ai bagni di Pozzuoli”, anche se il testo non aggiunge altro in merito ai motivi per cui Federico II cambiò i suoi piani iniziali per raggiungere le terme puteolane. Federico II, peraltro, secondo molti studiosi è il dedicatario del De Balneis Puteolanis, dal momento che l’opera è composta “Cesaris ad laudem”, cioè “in lode di Cesare”, sebbene non sappiamo chi sia con certezza l’imperatore che il poemetto intendeva lodare. Tuttavia è certo che, ha scritto lo studioso Salvatore Sansone, il poema “celebrava, per il tramite di un’opera letteraria, il culto per l’antico e la suggestione antiquaria che i bagni di Pozzuoli testimoniavano, insieme a quella che era la pratica classica del bagno termale”.
Se dopo la caduta dell’Impero romano gli impianti termali di tutta Europa erano caduti in rovina, in alcune zone, soprattutto in Italia meridionale, si registrano testimonianze secondo le quali non venne meno l’abitudine di bagnarsi: tuttavia, tra il XII e il XIII secolo si assistette a un rinnovato e diffuso interesse per quest’attività largamente in uso tra i romani, un interesse che a Pozzuoli riportò in auge la pratica dei bagni. “L’interesse per le terme che si manifesta in Italia tra XII e XIII secolo”, ha scritto Massimo Danzi, “ripropone, con la medicalizzazione delle acque, anche la nozione non secondaria di ‘piacere’ come ‘cura dell’animo’. E se è vero che il Medio Evo aveva caricato le acque, già simbolo di purificazione nella tradizione precristiana giudaica e romana, di panni sacrali facendone una sorgente di vita e figura di Dio come dice il sacramento del battesimo, altrettanto concreta è la trasformazione del ‘fonte battesimale” in ‘fonte di giovinezza’ e poi in profano ‘giardino delle delizie’ testimoniata da una ricca iconografia tra Età di mezzo e civiltà delle corti”.
La zona dei Campi Flegrei era ben nota già in antichità per le proprietà curative delle sue acque termali di origine vulcanica (lo stesso nome antico di Pozzuoli, Puteoli, viene dalla parola putei, ovvero “pozzi”, quelli da cui sgorgavano le acque), e il poema di Pietro da Eboli elenca tutti i bagni antichi descrivendo i benefici che le loro acque potevano recare al corpo di chi si bagnava, ma anche semplicemente evocando i momenti piacevoli che si potevano trascorrere alle terme. Esattamente come oggi, dunque, ci si recava alle terme per curare i propri malanni, ma i bagni potevano essere anche occasione di svago. Ecco allora che il Balneum quod sulphetara dicitur era adatto a rendere fertili le donne, il Balneum Juncara si riteneva curasse la depressione nutrendo gli animi, donando allegria e allonanando i pensieri preoccupanti dalla mente, il Balneolum era invece considerato idoneo per qualsiasi affezione (e in particolare per testa, stomaco e reni, inoltre si pensava avesse proprietà antipiretiche, in grado di calmare la febbre), il Balneum Calatura era indicato per chi avesse malattie dei polmoni, oppure tosse e reumatismi, il Balneum Tripergulae per i problemi allo stomaco, e ancora il bagno Salviana era invece utile alle donne. C’era anche un bagno riservato al clero, la Fons Episcopi, per di più capace di guarire dalla pellagra.
È interessante osservare come le nozioni del De Balneis Puteolanis rappresentino una sorta di commistione tra antiche tecniche mediche (benché Pietro da Eboli non si considerasse un medico, e non appartenesse in alcun modo alla celebre Scuola medica salernitana, che al contrario non sembrava ritenere particolarmente importanti le proprietà benefiche delle acque termali) e credenze popolari: nel comporre i suoi epigrammi, ha scritto lo storico della letteratura Giovanni Pugliese Carratelli, Pietro da Eboli “si salda alle leggende della Napoli magica di Virgilio o di quelle che nella devozione popolare avevano folcloricamente mutato il Sudatorium di San Germano nell’ingresso del Purgatorio e il Balneum Tripergula, vicino al lago Averno, nel luogo dove Cristo aveva infranto le porte dell’inferno. Non è dunque senza motivo l’invidia dei medici salernitani per quelle cure d’acqua miracolose: i ‘bagni’ di Pozzuoli erano gratuiti ed aperti a tutti, e gli archiatri dell’hyppocratica civitas avrebbero perso in guadagno. Il De Balneis Puteolanis celebra una grandezza ancora registrata con tutta l’emozione dalla ‘volgare’ Cronaca di Partenope nel XV secolo. Le illustrazioni del codice ci riportano nei calori benefici di quell’universo medico; da questa sensibilità si forma l’episodio straordinario della cultura e del rinnovamento intellettuale tipico del tempo di Federico II”.
Il manoscritto 1474 dell’Angelica è riccamente corredato d’illustrazioni, miniature eseguite da un unico artista, chiuse entro cornici azzurre, verdi e rosse, e che si presentano con fondi eseguiti a foglia oro. Per la ricchezza delle decorazioni, il manoscritto si attesta come uno dei principali esempi di miniatura dell’Italia meridionale del Duecento, con scene che peraltro sono descritte in maniera vivace e con spiccato gusto narrativo (benché le figure conoscano poche variazioni), e che fondono elementi bizantini ad architetture romane e orientali. Dalle illustrazioni riusciamo peraltro a farci un’idea di come si frequentassero in antico le Terme di Pozzuoli (che peraltro erano gratuite): il Sudatorium, per esempio, era un piccolo edificio a cupola che possiamo ritenere una sorta di sauna, dal momento che qui non ci si bagnava, ma si entrava per sudare (nell’illustrazione vediamo comunque anche un personaggio intento a raccogliere acqua dalla fonte con una coppa), ed era dotato di cripte ubi hospitantur infirmi, cioè di piccole grotte attrezzate con letti per accogliere i malati. L’acqua benefica si applicava sulla parte del corpo che si voleva guarire: lo vediamo nell’illustrazione che accompagna l’epigramma De balneo quod bulla nuncupatur, a proposito di un bagno le cui acque erano ritenute benefiche per la testa e la vista, e infatti i personaggi nella miniatura bagnano queste zone del corpo. Ad ogni modo, in generale per poter beneficiare delle proprietà delle acque era necessario immergersi, e lo si faceva completamente nudi, e in compagnia, come attestano le immagini del De Balneis Puteolanis: andare alle terme diveniva così anche una pratica sociale come era nell’antica Roma, e a partire dall’epoca in cui fu composto il poemetto di Pietro da Eboli (il primo testo a dar conto in modo esteso e dettagliato del ritorno dell’interesse per i bagni termali), l’uso di frequentare le terme si sarebbe sempre più esteso, soprattutto nel nord Europa.
Fondata nel 1604 dal vescovo agostiniano Angelo Rocca (Rocca Contrada, 1545 - Roma, 1620), da cui prende nome, la Biblioteca Angelica di Roma vanta un interessante primato: è infatti la prima biblioteca aperta al pubblico a Roma nonché, assieme all’Ambrosiana di Milano e alla Bodleian Library di Oxford, una delle prime in Europa, dal momento che fu fondata con l’intento di condividere i libri in suo possesso con la comunità dei lettori. Dal 1975 dipende dal Ministero della Cultura. La Biblioteca Angelica ha un fondo antico composto da circa 120.000 volumi (su di un totale di circa 200.000 libri che custodisce), ed è specializzata soprattutto nella storia della Riforma e in quella della Controriforma. Spicca poi l’importante nucleo di opere dedicate al pensiero di sant’Agostino e all’attività dell’ordine agostiniano, e da menzionare sono anche le sue collezioni di volumi su Dante, Petrarca e Boccaccio, il suo cospicuo fondo manoscritto (2.700 volumi e 24.000 documenti scuolti), i tanti incunaboli (1.100 edizioni) e il gran numero di cinquecentine (circa ventimila).
Il De Balneis Puteolanis è uno dei tesori più preziosi qui conservati, ma sono da menzionare almeno il Liber memorialis dell’Abbazia di Remiremont (un manoscritto risalente al IX secolo), un codice del XIV secolo contenente una versione illustrata della Divina Commedia, un Libro d’Ore fiammingo del XIV secolo, e l’incunabolo del De oratore, ovvero il primo libro stampato in Italia (venne alla luce nella stamperia di Subiaco, correva il 1465). L’Angelica conserva anche un esemplare della prima edizione a stampa della Commedia di Dante, pubblicata nel 1472 a Foligno. Da citare, infine, il fondo dell’Accademia letteraria dell’Arcadia, composto da circa 4.000 volumi e pervenuto all’Angelica nel 1940: conserva volumi stampati, 41 manoscritti e lettere autografe degli arcadi.
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