Il Tempio Malatestiano di Rimini: un mausoleo di famiglia specchio delle ambizioni di Sigismondo Malatesta


Il Tempio Malatestiano di Rimini riflette tutte le ambizioni del signore che lo volle Sigismondo Malatesta, figura ingiustamente condannata dalla storia.

È un po’ come entrare in un tempio pagano. E per certi versi anche in una sontuosa residenza nobiliare, se si preferisce. Certo è che il sacro e il religioso paiono venir relegati a un ruolo marginale, o almeno è quel che si percepisce dopo che si varcano le soglie del Tempio Malatestiano, l’edificio pensato e costruito per celebrare le ambizioni del signore di Rimini, Sigismondo Malatesta (1417 - 1468). Anche se, più che di ambizioni, si potrebbe parlare anzi di velleità. E lo stato d’incompiutezza del Tempio diventa sinonimo visivo di quel desiderio di fare della piccola e marginale signoria di Rimini uno stato forte, che riuscisse a espandersi a scapito dei suoi vicini. Di certo, a Sigismondo Malatesta si potevano rimproverare la scarsa lealtà nei confronti degli alleati, la sua eccessiva bellicosità, il fatto d’essersi inimicato molti dei più potenti sovrani del Rinascimento, il suo agire spesso istintivo. Ma non gli si poteva rimproverare di non amare la propria città. Al punto che, quando il papa Paolo II, nel 1467, gli chiese di considerare l’ipotesi di cedere Rimini alla Chiesa in cambio di alcuni benefici che Sigismondo aveva richiesto dopo la partecipazione alla guerra in Morea contro i turchi, l’orgoglioso Malatesta considerò che mai avrebbe ceduto “quella povera città che m’è rimasta, dove sono la maggior parte delle ossa delli miei antiqui”, e che “m’è meglio morire con honore che di ricevere tale vilipendio”. E al papa in persona disse che “io aspettaria innanzi mille morti che lassarmi congiongere a tal caso e victoperio di tutti li miei passati”. L’ostinazione premiò Sigismondo, che alla fine della sua vita, povero, sconfitto e deluso, riuscì comunque a conservare Rimini.

La storia, si sa, viene scritta dai vincitori. E i vincitori di Sigismondo Malatesta diffusero del signore di Rimini un ritratto a tinte foschissime, tanto che per secoli è stato considerato sbrigativamente e ingiustamente come un tiranno rozzo e sanguinario. In realtà, poche figure del Rinascimento sono affascinanti come quella di Sigismondo Malatesta. E per conoscerla più da vicino, occorre recarsi a Rimini ed entrare nel Tempio Malatestiano. Le vicende che portarono al rifacimento dell’antica chiesa di San Francesco sono state delineate con una certa precisione (ancorché rimanga tuttora impossibile stabilire con assoluta certezza la storia del cantiere), e partono verso la fine degli anni Quaranta del Quattrocento, quando Sigismondo si trovava all’apice della sua gloria. Le fortunate campagne militari gli avevano infatti procurato ingenti guadagni, attraverso i quali il signore di Rimini aveva potuto dedicarsi alla sua fiorente attività di mecenate delle arti e della cultura: radunò così in Romagna una raffinatissima corte di poeti (e lui stesso fu poeta), intellettuali, letterati, artisti. Non solo perché Sigismondo era grande appassionato d’arte e di lettere, ma anche perché, attraverso il lavoro dei suoi intellettuali, intendeva celebrare la propria famiglia, esaltarla quasi come fosse oggetto di un culto, figura centrale di una particolarissima religione. E, come fecero anche altri signori rinascimentali, Sigismondo cercò di legare la storia della propria famiglia (e della propria persona) a un repertorio di simboli antichi, tratti dalla classicità. Il Tempio Malatestiano diventò perciò il simbolo di questa politica culturale. La storia dell’edificio iniziò nel 1447, e i progetti vennero affidati a Leon Battista Alberti (1404 - 1472), al quale, a partire dal 1453 circa, spettò il compito di sistemare l’esterno, e a Matteo de’ Pasti (1412 - 1468), chiamato invece a rivedere gl’interni.

Pisanello, Medaglia di Sigismondo Malatesta (1445; bronzo, diametro 9 cm)
Pisanello, Medaglia di Sigismondo Malatesta (1445; bronzo, diametro 9 cm)
Il Tempio Malatestiano di Rimini. Foto: Comune di Rimini
Il Tempio Malatestiano di Rimini. Foto: Comune di Rimini

Leon Battista Alberti entrò in scena a lavori già iniziati (partirono infatti dall’interno), e ideò un tempio dalla concezione del tutto innovativa: adottò infatti, per la facciata, la struttura tipica dell’arco di trionfo romano, prendendo largo spunto dall’Arco di Augusto di Rimini, che si trova a pochi passi dall’area su cui sorge il Tempio. Era la prima volta che per una chiesa si adottava il modello dell’arco di trionfo: così, l’arco maggiore inquadra il portale d’accesso al Tempio, mentre i due archi laterali, secondo il progetto originario, avrebbero dovuto essere più profondi onde ospitare i sepolcri di Sigismondo e della sua amata, Isotta degli Atti, poi posti in due cappelle all’interno della chiesa. E ancora, come i templi antichi, anche il Tempio Malatestiano poggia su un alto stilobate, ovvero il piano orizzontale sul quale s’ergono le colonne. Il fatto che l’esterno sia rimasto incompiuto non inficia il giudizio sull’opera, che possiamo considerare la prima applicazione pratica delle teorie di Leon Battista Alberti, espresse anche nel suo trattato De re aedificatoria, a proposito dell’architettura intesa come armonia, semplicità rigorosa, giustezza di proporzioni, che trae ispirazione direttamente dall’antico. E, ancora come in un tempio antico, anche qui Leon Battista Alberti inserisce un fregio su cui corre l’iscrizione SIGISMUNDUS PANDULFUS MALATESTA PANDVLFI F V FECIT ANNO GRATIAE MCCCCL, ovvero “Sigismondo Pandolfo Malatesta, figlio di Pandolfo, realizzò per voto nell’anno di grazia 1450”. La celebrazione del signore e le dichiarazioni dei suoi intenti iniziano già da questa iscrizione, e non solo perché Sigismondo ha voluto imprimere nella facciata il suo nome onde far comprendere a tutti a chi si deve l’impresa del Tempio, ma anche perché la data apposta nell’iscrizione è parecchio significativa: il 1450 fu anno giubilare, nonché anno in cui papa Niccolò V rinnovò il vicariato apostolico (una sorta di legittimazione ufficiale, da parte della Chiesa, del potere di un signore) sia a Sigismondo che a suo fratello Domenico, detto Malatesta Novello, signore di Cesena. Ma non solo: nella stessa occasione, il papa legittimò anche i due figli maschi di Sigismondo e garantì il vicariato ai Malatesta per tre generazioni. Sigismondo considerava tutto ciò come la legittimazione di una dinastia forte e destinata a durare nel tempo: il Tempio si configurava così come una sorta di mausoleo della famiglia, di cui Sigismondo era, peraltro, continuatore, dato che nell’iscrizione viene evidenziato anche il patronimico.

Tuttavia, se il vicariato apostolico conferiva prestigio alla dinastia, è pur vero che l’ambizioso Sigismondo aspirava a titoli più alti, che però mai ottenne, e queste sue ambizioni frustrate furono uno dei motivi dei numerosi attriti con il papato, che sfociarono poi in contrasti gravissimi. Ed è per questo che l’autorità papale, all’interno del Tempio Malatestiano, viene sfidata a più riprese. A cominciare dal celeberrimo affresco di Piero della Francesca (1412 - 1492), anche lui gravitante attorno alla corte di Sigismondo, che ritrae il signore di Rimini in preghiera di fronte a san Sigismondo. Il santo, personaggio storicamente esistito (fu re dei Burgundi tra il 516 e il 523) non è raffigurato, come da tipica iconografia, con fattezze giovanili, bensì come un uomo vecchio, che regge con una mano uno scettro e con l’altra tiene un globo: san Sigismondo è stato infatti rappresentato con i simboli tipici del potere imperiale e con le fattezze dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, che nel 1433 aveva concesso il titolo di cavaliere a un Sigismondo Malatesta appena sedicenne, conferendo dunque la legittimazione imperiale al suo potere e alla sua famiglia. Il messaggio è chiaro: Sigismondo Malatesta dichiara apertamente la sua fedeltà al potere imperiale, tanto più che nell’immagine compaiono anche due cani, simboli, appunto, di fedeltà e vigilanza. E questo messaggio, inserito in un affresco all’interno della principale chiesa cittadina, costituiva una sorta di sfida al papato. E ancora: la prima cappella di destra, la cappella di San Sigismondo, pensata come cappella funeraria di Sigismondo dopo che si optò per ospitare il sepolcro all’interno del Tempio, è ornata con le figure delle Virtù, riservate solitamente, in cappelle simili, alle sepolture di re e principi o comunque di sovrani desiderosi di richiamare con allegorie quanto di buono fatto durante il loro governo. Anche qui, dunque, l’idea è quella di presentarsi al mondo come un potente governante.

Parte dell'iscrizione sulla facciata del Tempio
Parte dell’iscrizione sulla facciata del Tempio
Sulla sinistra, l'arca degli antenati e dei discendenti di Sigismondo
Sulla sinistra, l’arca degli antenati e dei discendenti di Sigismondo
Piero della Francesca, Sigismondo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo
Piero della Francesca, Sigismondo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo (1451; Rimini, Tempio Malatestiano)
L'affresco di Piero della Francesca dentro al Tempio
L’affresco di Piero della Francesca dentro al Tempio
La tomba di Sigismondo Malatesta
La tomba di Sigismondo Malatesta
La cappella di San Sigismondo
La cappella di San Sigismondo

In effetti, all’interno del Tempio Malatestiano, ogni minima decorazione è pensata e studiata per esaltare Sigismondo e la sua famiglia. Ovunque ricorrono i tipici simboli malatestiani, a cominciare dall’elefante: lo troviamo come cimiero di elmi, alla base di pilastri e colonne, all’interno di elementi decorativi, e anche a reggere il sepolcro di Isotta degli Atti. È simbolo di forza, potenza e imperturbabilità perché, come recita il motto di Malatesta Novello, elephas indus culices non timet, “l’elefante indiano non teme le zanzare”, a significare che le grandi persone non si curano dei fastidi recati da quelle piccole, e l’elefante è così divenuto uno dei simboli malatestiani per eccellenza. E ancora troviamo l’impresa delle tre teste, che richiama visivamente il nome della famiglia Malatesta perché raffigura tre teste di altrettanti mori (ovvero di infedeli, teste cattive, quindi “male teste”) che sarebbero stati uccisi dal leggendario capostipite della casata, il mitico eroe troiano Tarcone, figlio del re di Troia Laomedonte. Compare spesso la raffigurazione della rosa canina (la troviamo anche nei cassettoni che ornano l’arco che ospita il sepolcro di Sigismondo), attraverso la quale i Malatesta volevano attribuirsi la discendenza dalla famiglia romana degli Scipioni il cui simbolo era, appunto, la rosa a quattro petali. Infine, ovunque vediamo ripetuto il simbolo della S e della I intrecciate: è la prima sillaba del nome Sigismondo, ma a lungo ci fu chi ritenne (e forse ancora qualcuno lo ritiene) che si trattasse in realtà delle iniziali dei nomi di Sigismondo e di Isotta, che in questo modo vollero suggellare il loro amore all’interno del tempio.

Occorre infatti evidenziare l’importanza del ruolo di Isotta degli Atti (1432 circa - 1474) all’interno del Tempio. La gentildonna, di origini non nobili, fu dapprima amante di Sigismondo, quando il signore di Rimini era sposato con Polissena Sforza, e in seguito, nel 1456, ne divenne la moglie: fu uno dei rari matrimoni disinteressati del Rinascimento, perché sposando la giovane Sigismondo non avrebbe tratto alcun vantaggio politico (a eccezione della legittimazione dei figli da lei avuti al di fuori del matrimonio), però avrebbe coronato il sogno d’amore che inseguiva ma che la ragion di stato non gli aveva ancora permesso di veder esaudito. L’amore tra i due fu così appassionato che alla corte di Rimini i poeti lo cantarono a più riprese, facendo nascere il filone della cosiddetta poesia isottea. E fu così appassionato che all’interno del Tempio Malatestiano la moglie di Sigismondo ha un ruolo da prima protagonista. Sigismondo aveva pensato a celebrare Isotta fin dai primi progetti per il Tempio, nel 1447, quando ancora non erano sposati: del resto, non era affatto un mistero che il signore di Rimini coltivasse tale relazione fuori dai vincoli coniugali. Il sepolcro di Isotta occupa dunque una posizione preminente all’interno del Tempio: è collocato nella cappella di San Michele, dove occupa un’intera parete ornata con uno spiccato decorativismo di matrice tardogotica (una delle caratteristiche peculiari del Tempio Malatestiano è, appunto, il contrasto tra l’esterno compiutamente rinascimentale, e l’interno ancora legato al gotico cortese). E, all’epoca in cui il sepolcro fu realizzato, destò enorme scandalo. È infatti accompagnato da un’epigrafe che recita: “D. ISOTTAE ARIMINENSI B.M. / SACRUM MCCCL”. La D puntata, all’epoca, fu letta come abbreviazione di Divae, “Divina”, appellativo riservato ai santi, mentre la B venne interpretata come abbreviazione di Beatae, altro aggettivo che indica una condizione propria delle figure sacre, la beatitudine. Tradotta, l’epigrafe poteva dunque suonare così: “Consacrato nel 1450 alla beata memoria della divina Isotta di Rimini”. Interpretata in questo modo, la frase aveva il sapore d’una bestemmia, perché Sigismondo si permetteva, senza esser investito di alcuna autorità da parte della Chiesa, di elevare la moglie al rango dei santi e dei beati. Era come se sul sepolcro ci fosse scritto “a sant’Isotta”. Più verosimilmente, la D sta per “Dominae” e la “B” sta per “bonae”, e la frase sarebbe dunque da leggere, in modo innocuo, come “Consacrato nel 1450 alla buona memoria della signora Isotta di Rimini”: ma al tempo di papa Pio II, che fu probabilmente il più accanito nemico di Sigismondo Malatesta, le due lettere bastarono per far gridare allo scandalo.

Il Tempio dunque era visto come una delle tante manifestazioni irriguardose nei confronti della religione da parte di Sigismondo, contro il quale il papa, nel 1461, lanciò una violentissima requisitoria. Pio II era alleato di Ferdinando I d’Aragona, il quale reclamava da Sigismondo un cospicuo credito, che il signore di Rimini doveva già al suo defunto padre, ma che stentava a onorare. Il papa richiamò più volte Sigismondo Malatesta ai suoi doveri, ma il giorno di Natale del 1460, date le continue disubbidienze (e data soprattutto la sua volontà di disfarsi di un valoroso condottiero che aveva sempre dato problemi alla Chiesa), lanciò contro di lui e contro suo fratello Domenico la scomunica e, in un concistoro convocato il 16 gennaio del 1461, celebrò una sorta di processo in contumacia durante il quale furono lanciate terribili accuse contro Sigismondo. Il signore di Rimini veniva tacciato d’essere un eretico, un bestemmiatore, un assassino e un uxoricida (il papa infatti lo accusava di aver ucciso le sue due prime mogli per potersi sciogliere dai vincoli matrimoniali), e di commettere regolarmente furti, incesti, stupri, violenze anche a danni di bambini. E una personalità secondo il pontefice così deviata, non poteva che far edificare un tempio a propria immagine. Nel 1462 Pio II, nei Commentarii, la sua opera di memorie storiche di quei tempi, dipinse in questi termini il Tempio Malatestiano: Aedificavit tamen nobile templum Arimini in honorem divi Francisci, verum ita gentilibus operibus implevit, ut non tam Christianorum quam infidelium daemones adorantium templum esse videatur, “Fece costruire a Rimini un nobile tempio dedicato a san Francesco, tuttavia lo riempì di opere pagane, così che sembrava un tempio non di cristiani, ma di infedeli adoratori di demoni”.

Gli elefanti malatestiani
Gli elefanti malatestiani
L'emblema delle tre teste retto da un putto
L’emblema delle tre teste retto da un putto
La S e la I intrecciate
La S e la I intrecciate
Altra raffigurazione della S e della I
Altra raffigurazione della S e della I
Matteo de' Pasti, Medaglia di Isotta degli Atti (1446; bronzo, diametro 4,2 cm; Barcellona, Museu Nacional de Catalunya)
Matteo de’ Pasti, Medaglia di Isotta degli Atti (1446; bronzo, diametro 4,2 cm; Barcellona, Museu Nacional de Catalunya)
Il sepolcro di Isotta degli Atti
Il sepolcro di Isotta degli Atti
L'epigrafe sul sepolcro di Isotta
L’epigrafe sul sepolcro di Isotta
Matteo de' Pasti, Tempio Malatestiano
Matteo de’ Pasti, Tempio Malatestiano (1450

Può essere che, quando si entra nel Tempio Malatestiano, la sensazione sia quella d’entrare in un tempio pagano. In realtà, il programma iconografico dell’edificio è nient’altro che la manifestazione visiva della raffinatezza intellettuale e filosofica dell’ambiente della Rimini di metà Quattrocento, dunque elementi classici e neoplatonici, con abbondanza di citazioni letterarie e filosofiche, si intrecciano con i temi della religione, per una lettura molto complessa. Certo è che risulta infondata l’accusa secondo la quale Sigismondo Malatesta avrebbe mancato di rispetto alla religione cristiana: anche perché, se così fosse stato, i frati francescani che amministravano il culto all’interno della chiesa, sarebbero stati i primi a rimproverare il signore. Ma il disprezzo che Pio II provava nei confronti di Sigismondo bastò a giustificare stravaganti interpretazioni degli apparati decorativi della chiesa.

A seguito della requisitoria, il papa maledisse Sigismondo, lo condannò alle fiamme dell’inferno, sciolse i sudditi riminesi dal vincolo di fedeltà al signore e infine, nell’aprile del 1462, revocò ogni onorificenza donata dalla Chiesa a Sigismondo, ai suoi congiunti e ai suoi discendenti fino alla quarta generazione, e organizzò una sorta di “finta esecuzione” in diverse piazze di Roma, durante la quale le effigi di Sigismondo Malatesta, ritratto a grandezza naturale, furono arse sul rogo. Non pago di ciò il papa, che desiderava ardentemente la rovina di Sigismondo, promosse anche un’azione bellica contro il signore di Rimini, che di certo non stette a guardare: tuttavia, dopo alcuni iniziali successi, fu definitivamente sconfitto dal rivale di sempre, Federico da Montefeltro, alleato del papa. Dopo la sconfitta in guerra la Repubblica di Venezia, che era in buoni rapporti coi Malatesta, chiese al papa di non infierire su Sigismondo e su Rimini, e il signore, per evitare una brutta fine sia per lui che per la città, chiese e ottenne il perdono pontificio. Rimase tuttavia isolato, e per riabilitare la sua immagine partecipò alla spedizione in Morea. Di ciò che seguì, s’è detto all’inizio del’articolo: Sigismondo cercò di ottenere benefici dal nuovo papa, più benevolo di Pio II nei suoi confronti, ma alla fine riuscì solo a conservare la signoria su Rimini. Sigismondo Malatesta moriva durante l’anno successivo, il 1468: in quell’anno si concluse anche la vicenda del Tempio Malatestiano, i cui lavori si erano già fermati all’epoca degli scontri con Pio II. Non sono rimasti né disegni, né modelli di come avrebbe dovuto essere una volta finito. Ma la grandiosità che avrebbe dovuto emanare è evocata dalla celebre medaglia di Matteo de’ Pasti, che peraltro fu l’unico degli artisti di Sigismondo a rimanergli accanto fino alla fine. È l’unica opera che conosciamo in cui possiamo vedere il Tempio per come avrebbe dovuto essere una volta finito. Il registro superiore della facciata avrebbe dovuto concludersi con un grande arco a tutto sesto, raccordato al registro inferiore da due volute che avrebbero decorato le due alzate triangolari. E sul fondo avrebbe dovuto esserci una maestosa rotonda coronata con una cupola, simile a quella del Pantheon di Roma. Lavori che non videro mai la luce: il Tempio rimase definitivamente incompiuto, come i sogni del signore che l’aveva fortemente voluto. Un signore condannato dalla storia, su basi infondate e pretestuose: la sua riabilitazione è un fatto recente. Ma la cui intelligenza e la cui gloria sono eternate in un Tempio che porta il nome della sua famiglia: e in questo possiamo dire che Sigismondo Malatesta raggiunse il suo obiettivo, perché non c’è fama più duratura e più gloriosa di quella che l’arte può garantire.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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