Scrivendo della tavola di Cesio, stravagante vertice del Rinascimento in Liguria, oggi conservata nel pregiatissimo Museo Diocesano di Albenga, lo storico dell’arte Mauro Natale aveva parlato di una “assoluta eccezione”: non era infatti consuetudine che un’opera così ambiziosa e così “internazionale”, potremmo dire, fosse destinata a un minuscolo oratorio di provincia. In antico, la tavola si trovava infatti a Cesio, piccolo e appartato borgo nascosto tra i monti della valle del torrente Impero, nel ponente Ligure. Sappiamo però molto poco di quest’opera: non conosciamo chi sia l’autore, che probabilmente aveva lasciato il suo nome nell’iscrizione che corre lungo la transenna marmorea dietro i due protagonisti, ovvero sant’Eleuterio a sinistra e san Mauro a destra. E non potendo con certezza ricondurre il suo stile a una mano nota, converrà identificarlo, secondo tradizione, come il “Maestro di Cesio”. Sappiamo che c’era un donatore, perché lo vediamo raffigurato in basso a sinistra, vicino a sant’Eleuterio, ma anche per lui s’è perso il nome verosimilmente presente nell’iscrizione. Forse era un personaggio che aveva a che fare coi Doria: fu un membro della famiglia, Paganuccio Doria, a portare a Genova, nel 1354, dopo l’occupazione di Parenzo, le reliquie, poi restituite nel 1934, dei due santi, Eleuterio e Mauro, vescovi e martiri della città istriana. E a un certo punto della storia, in Liguria l’iconografia del san Mauro vescovo dev’essersi confusa con quella del san Mauro benedettino, quello raffigurato qui: ci sono attestazioni, ancorché secentesche, dei benedettini di Genova che riverivano le reliquie del Mauro istriano. Sappiamo poco pure dell’oratorio di San Giacomo, quello in cui le fonti attestano la tavola, distrutto secoli fa: prima d’esser trasferita al Museo Diocesano d’Albenga poco dopo la sua apertura nel 1981, il dipinto era custodito nella parrocchiale di Cesio.
Le scarse fonti scritte non aiutano molto a chiarire l’occasione in cui l’opera fu dipinta. Dunque, per la Tavola di Cesio, a parlare sono soprattutto i pochi elementi che sopravvivono sulla superficie pittorica, rovinata un po’ per gli effetti d’una improvvida e dozzinale ridipintura cinquecentesca (l’immagine che vediamo oggi venne infatti coperta con una Madonna del Rosario), un po’ per secoli d’incuria che avevano compromesso le condizioni di conservazione del dipinto. Poi, negli anni Sessanta, quando finalmente la Soprintendenza della Liguria si decise a restaurare il dipinto, grande fu la sorpresa nel constatare, durante la pulitura, che sotto il brutto rifacimento del Cinquecento si nascondeva un’immagine di altissimo livello: la Madonna del Rosario venne quindi rimossa e si diede nuovamente luce alla tavola del Maestro di Cesio, eseguita nel 1457, come attestano i brandelli rimasti della scritta (“MCCCCLVII DIE XV MADII A MAGESTAS FUIT FACTA”).
Chi era il Maestro di Cesio? S’è detto che è la tavola a parlare per lui: e la tavola ci parla di un artista moderno, aggiornato, nato e cresciuto in un contesto di alto livello, sicuramente cittadino, sicuramente lontano dai vernacoli popolareschi dei piccoli centri dell’Appennino ligure. I due santi trovano collocazione sotto un berceau che accoglie un grande sedile concavo, in uno spazio prospetticamente definito e scorciato in profondità, con modalità rare da trovare a quest’altezza cronologica in Liguria. Si guardi come il senso della terza dimensione sia dato dal forte passaggio chiaroscurale dell’ombra dietro sant’Eleuterio: il trono, dietro di lui, è al buio, e con dei trapassi piuttosto bruschi s’arriva alla parte dietro san Mauro ch’è invece rimasta al sole. La luce è bassa (siamo evidentemente alla fine del giorno) e proviene da sinistra, facendo sì che le ombre degli oggetti tenuti dai santi si proiettino sulla porzione della spalliera coperta dal ricco tessuto damascato che vediamo nella porzione inferiore: le ombre della palma tenuta da san Mauro e del pastorale, fasciato con un velo bianco, che sant’Eleuterio regge con la sua sinistra, sono tra i più commendevoli brani di virtuosismo del dipinto.
Notiamo poi che il Maestro di Cesio aveva un certo gusto per le eccentricità (lo vediamo dai datteri che pendono dalle palme) ed era abilissimo nella resa dei dettagli minuti: ecco che allora i volti di sant’Eleuterio e del donatore, impietosamente resi con un grafismo che si sofferma su rughe, occhiaie, sporgenze e appesantimenti varî, sono definiti con piglio ritrattistico, ecco che i pochi brani di broccato mostrano come l’artista vi avesse indugiato con una certa lena, ecco che l’attenzione lenticolare dell’artista ci permette di leggere il libro che sant’Eleuterio mostra al devoto tenendo al contempo la sua palma del martirio, oltre che il cartiglio appeso al baldacchino. Sul primo, un passaggio di san Bernardo di Chiaravalle, mentre nel secondo un’esortazione a contemplare la Passione di Cristo. Ancora, il Maestro di Cesio amava sperimentare, come vediamo dalle aureole dei santi: quella di Eleuterio è ancora tonda, gotica, con tanto di punzonature che la decorano (anche col nome del santo), mentre quella di Mauro è un disco scorciato in prospettiva, alla maniera di Masaccio, Paolo Uccello, Piero della Francesca. E poi, era un artista in grado non soltanto di collocare le figure nello spazio, ma di rendere credibili le loro volumetrie: ce ne accorgiamo osservando le pose di tre quarti adeguate agli oggetti, le vesti che, nonostante le pieghe sinuose e ampie ancora tardogotiche, ci suggeriscono la presenza dei corpi, l’evidente plasticismo del modellato.
È però anche un artista ancora ruvido in certi passaggi, ancora legato a modalità antiche (lo si vede, come detto, guardando soprattutto gli abiti), e che palesa alcune durezze di troppo, ben elencate da Anna De Floriani, la prima a firmare uno studio approfondito sulla Tavola di Cesio, nel 1982: “il disegno piuttosto trito, la resa spesso fin troppo morbida, talora ‘cincischiata’, e chiaroscurata in modo quasi meccanico dei panneggi che […] ci si aspetterebbe definiti con maggior vigore volumetrico e mediante un ben più serrato gioco di piani cromatici e luminosi”.
Tutti questi elementi ci aiutano a farci un’idea su chi fosse il Maestro di Cesio. Possiamo cominciare a figurarcelo come un artista che di sicuro s’era formato in Provenza. Ci sono strette somiglianze tra la tavola del Museo Diocesano di Albenga e certi lavori di Enguerrand Quarton, il massimo pittore provenzale del primo Quattrocento: l’attitudine fisiognomica e i tipi facciali ricordano la Pietà di Villeneuve-lès-Avignon, pose e volumetrie rimandano alla Pala Requin del Musée du Petit Palais di Avignone, la luce chiara e bassa e per certi versi la costruzione spaziale conservano qualche eco della Madonna della Misericordia del Musée Condé. Rispetto a Quarton, il Maestro di Cesio è però un artista meno elegante, decisamente più aspro, meno abile nella resa degli effetti di luce. Di converso, appare più disposto a guardare all’Italia centrale, come lasciano intendere lo spazio decisamente più razionale rispetto alle costruzioni di Quarton, e il dettaglio rivelatore dell’aureola di san Mauro. E, come ha notato De Floriani, il Maestro di Cesio era pronto ad accogliere anche qualche soluzione spagnoleggiante, come il pastorale avvolto nel velo o il broccato che fascia il sedile: elementi che comunque l’artista poté vedere nei dipinti della Francia del sud orientati verso la penisola iberica.
La sua esperienza è stata solitamente collocata entro quelle tendenze che la storiografia recente ha posto sotto il vasto ombrello del “Rinascimento mediterraneo”, un concetto che ha iniziato a comparire in nuce negli anni Cinquanta del secolo scorso e che ha assunto più di recente, almeno a partire dalla mostra El Renacimiento méditerraneo curata da Mauro Natale a Madrid nel 2001, una fisionomia più o meno definita. Si parla, dunque, di una serie di fenomeni che caratterizzarono il bacino del Mediterraneo nella prima metà del Quattrocento: la presenza di forme espressive tipicamente fiamminghe sopra strutture proprie dei Rinascimenti del centro Italia, la mescolanza di elementi stilistici tipici di regioni anche distanti, la ricorrenza di certe soluzioni in un’area che va dalla costa valenciana all’Italia meridionale, e così via. La figura del Maestro di Cesio può comunque essere ulteriormente circoscritta: ce lo immaginiamo come un ligure o un provenzale che ha studiato con Enguerrand Quarton, o che conosceva le sue opere, e che a un certo punto della sua carriera deve aver appreso le novità che andavano delineandosi tra Toscana e Marche verso la metà del secolo, magari con un soggiorno in quelle terre. Un anonimo aperto, recettivo, talentuoso. Un artista non rivoluzionario, certamente, ma capace di dipingere, nonostante la ridottissima percentuale che di lei ci è arrivata, un’opera di qualità altissima.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).