di
Federico Giannini, Ilaria Baratta
, scritto il 13/09/2019
Categorie: Opere e artisti - Quaderni di viaggio / Argomenti: Cinquecento - Toscana - Arte antica - Leonardo da Vinci - Rinascimento
La Tavola Doria è sicuramente la più nota e la più discussa (e anche la migliore) tra le copie della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Vediamola da vicino.
Il 12 giugno del 2012, il segretario generale del Ministero dei Beni Culturali, Antonia Pasqua Recchia, e il direttore del Tokyo Fuji Art Musueum, Akira Gokita, firmavano un accordo grazie al quale l’Italia rientrava in possesso di un prezioso dipinto cinquecentesco, universalmente noto come la Tavola Doria, testimonianza diretta della perduta Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519). L’accordo siglato tra i due paesi prevedeva che l’opera sarebbe stata restituita all’Italia, che ne sarebbe divenuta proprietaria esclusiva, e che sarebbe stata esposta alternamente tra i due paesi per ventisei anni (due anni in Italia, quattro in Giappone): terminato questo lungo arco di tempo, la tavola rientrerà definitivamente in Italia. Per comprendere come si sia arrivati all’accordo è necessario ripercorrere la storia recente dell’opera e tornare al 1940, quando a Napoli, a Palazzo d’Angri, viene messa all’asta la collezione del suo proprietario, il principe Marcantonio Doria. L’opera, notificata dal ministero (e quindi impossibilitata a uscire dall’Italia), viene acquistata da un altro nobile, il marchese Giovanni Niccolò De Ferrari, genovese, che scompare però nel 1942: gli eredi cedono la Tavola Doria all’antiquario fiorentino Ciardiello, e in qualche modo l’opera diviene oggetto di un acquisto illegale da parte di un trafficante svizzero, Antonio Fasciani, che nel 1962 la rivende a una società di Monaco di Baviera, la Interkunst GmbH. Nel 1970 l’opera viene ipotecata e diciassette anni più tardi il dipinto è venduto a una società di consulenza tedesca, che nel 1992, a sua volta, lo cede al Tokyo Fuji Art Museum per una somma che equivale a circa trenta milioni di euro di oggi. Trascorre tuttavia poco tempo e il museo giapponese si rende conto che l’opera è uscita illegalmente dall’Italia: la tavola viene condotta in Europa perché il Giappone intende sottoporla ad alcuni esami, e nel 2009 l’Italia viene a conoscenza del fatto che il museo nipponico l’ha acquistata. Il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri individua la Tavola Doria in un caveau in Svizzera: viene dunque avviata una trattativa col Giappone (il museo aveva acquistato l’opera in buona fede) che si conclude con l’accordo del 2012.
La Tavola Doria è stata assegnata alla Galleria degli Uffizi, ma quando si trova in Italia viene regolarmente prestata per mostre temporanee: nel 2019, per esempio, il dipinto è tra i protagonisti della rassegna Arte di Governo a la Battaglia di Anghiari. Da Leonardo da Vinci alla serie gioviana degli Uffizi (curata da Gabriele Mazzi e allestita ad Anghiari presso il Museo della Battaglia dal 1° settembre 2019 al 12 gennaio 2020), che ha fornito l’occasione per ripercorrere gli studî che un grande leonardista, Carlo Pedretti, ha dedicato alla tavola. Come ricorda nel suo saggio la storica dell’arte Margherita Melani, Pedretti, nel 1968, fu il primo studioso a pubblicare immagini a colori della Tavola Doria: all’epoca il dipinto si trovava a Monaco di Baviera. Tre anni prima, un altro storico dell’arte, Giorgio Nicodemi, lo aveva informato della presenza in Germania di “un ricordo della Battaglia di Anghiari”. L’anno dopo, Nicodemi scriveva nuovamente una lettera a Pedretti per informarlo della sua volontà di pubblicare uno studio esteso della Tavola Doria (proposito che s’interruppe però a causa dell’improvvisa scomparsa dello studioso, il 6 giugno del 1967). Pedretti si assunse dunque il compito di studiare a fondo il dipinto e cominciò a intrattenere scambi epistolari con il proprietario della tavola, il signor Georg Hoffmann, titolare della Interkunst GmbH. Questa corrispondenza, sottolinea Melani, “mostra chiaramente l’attenzione di Pedretti per tutti i problemi relativi alla perduta Battaglia di Anghiari”: Pedretti intendeva, infatti, non soltanto ricostruire con dovizia la storia della tavola, ma anche “fare ricerche specifiche”, scrive ancora Melani, “nel Salone del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio con la convinzione, mai abbandonata, di poter ritrovare almeno parte del dipinto originale di Leonardo”. Pedretti iniziò pertanto “a muoversi su due fronti: cercare di dare avvio a un progetto di ricerca ambizioso che prevedeva il distacco degli affreschi di Vasari cercando di mobilitare l’opinione pubblica attraverso un articolo divulgativo da pubblicarsi sul celebre magazine americano Life e, al tempo stesso, segnalare la Doria agli studiosi con un articolo da pubblicare ne le pagine de L’Arte”. Il progetto del distacco degli affreschi vasariani non andò in porto (sarebbe stato riproposto a distanza di quasi cinquant’anni da altri, ma anche in quest’ultimo caso, al di là di alcuni fori sugli affreschi di Vasari, fortunatamente non si andò oltre), ma lo studio proseguiva.
Nel frattempo la situazione finanziaria di Hoffmann era andata deteriorandosi in maniera molto pesante, e la Tavola Doria gli fu pignorata: inoltre, nel 1982, la Soprintendenza di Napoli segnalava, nello stupore generale, che l’opera aveva lasciato illegalmente l’Italia. La notizia giungeva nel momento in cui Pedretti stava progettando una mostra sulla battaglia di Anghiari, nell’ambito della quale la Tavola Doria sarebbe stata protagonista di rilievo (proposito che poi non avrebbe trovato seguito). Pedretti è stato inoltre a lungo coinvolto nel dibattito sull’attribuzione: in passato l’assegnò al giovane Raffaello e poi anche allo stesso Leonardo (ritenendola un bozzetto preparatorio a olio eseguito prima della pittura su muro: nel caso, si sarebbe trattato di un evento più unico che raro, dal momento che l’uso di eseguire bozzetti a olio prima del dipinto su muro si diffuse solo nel Seicento), per poi assestarsi su di una posizione aperta che non si sbilanciava nel fare nomi (nel 2014, in un suo saggio intitolato “Farewell” alla Tavola Doria, lo studioso scriveva: “non mi pongo più il problema dell’attribuzione come ai tempi di grande e motivato entusiasmo - si parla di trenta o quarant’anni fa –, con slanci di enfasi garibaldina, quando si usava partire in quarta con le attribuzioni a Leonardo senza imbarazzo e senza remore, e senza nemmeno porsi almeno l’alternativa del nome di uno dei migliori allievi al quale Leonardo avrebbe affidato impegnativi compiti di atelier secondo una prassi che Raffaello avrebbe applicato poco dopo”).
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Francesco Morandini detto il Poppi (?), Tavola Doria (1563?; olio su tavola, 86 x 115 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
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Il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze. Ph. Credit Targetti Sankey
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E in effetti il dibattito su chi possa essere l’autore della Tavola Doria è stato lungo e complesso. Molti hanno insistito sulla possibile autografia leonardiana, potendo contare su diversi indizî, primo tra tutti il fatto che nel più antico documento che la cita, un inventario delle collezioni dei Doria (i suoi antichi possessori, da cui il nome) risalente al 1621, l’opera è menzionata come “una battaglia di soldati a cavallo di Leonardo da Vinci” (e successivamente, nel testamento di Marco Antonio Doria del 1651, si parla di un “groppo de’ cavalli di Leonardo da Vinci”). Certo, di per sé due documenti seicenteschi dicono poco, ma quanti in passato sostenevano un’attribuzione a Leonardo si appigliavano ad altri elementi, tutti riassunti dallo studioso di civiltà mediterranee Louis Godart nel suo libro La tavola Doria del 2012: per esempio, i pentimenti nel disegno preparatorio (che spesso, anche se non sempre, fanno accantonare la possibilità che si tratti di una copia), il tratto a zig-zag che compare sulla tempia del cavallo e che ricorre in diverse opere grafiche di Leonardo, l’esistenza nota di un dipinto raffigurante la battaglia di Anghiari eseguito mentre l’artista lavorava nella Sala del Papa in Santa Maria Novella, il fatto che diverse copie note della Battaglia di Anghiari derivino dalla Tavola Doria, e ancora la presenza di elementi che riproducono con grande precisione schizzi e appunti di Leonardo da Vinci. Dettagli che di per sé non escludono l’ipotesi che l’opera possa essere un prodotto della mano di Leonardo, ma che neppure possono suffragarla.
In questo senso, lo studio approfondito più recente (risale al 2018) è quello dello storico dell’arte statunitense Louis Alexander Waldman, che ha rigettato ogni ipotesi sull’autografia leonardiana (anche con certa ironia: “l’inesauribile ottimismo dei cosiddetti leonardisti, tanto spesso accompagnato da una completa mancanza di spirito autocritico”, ha scritto, “è una malattia per cui la scienza moderna non ha ancora trovato cura”). Per cercare di capire chi possa essere l’autore della Tavola Doria, Waldman ha rivolto la sua attenzione a un’opera “gemella”: un dipinto, verosimilmente della stessa epoca, che riproduce allo stesso modo la parte centrale della Battaglia di Anghiari. Si tratta di un’altra tavola, risalente all’incirca al 1563, conservata a Firenze, a Palazzo Vecchio (in deposito dagli Uffizi, nelle cui raccolte la sua presenza è ricordata fin dal 1635, anno a cui risale un inventario in cui il dipinto è citato come opera di Leonardo). Un poco più grande rispetto alla Tavola Doria (e quindi quest’ultima potrebbe esserne uno studio preparatorio secondo Waldman), la Battaglia di Anghiari dei depositi degli Uffizi, sottolinea Waldman, “è unica tra unica tra le copie esistenti poiché rende la sottile gradazione di tono nell’area non ?nita del modello leonardesco, corrispondente al profilo del cavaliere sul cavallo bianco all’estrema destra della composizione; include anche indicazioni dettagliate dei profili frammentari omessi da altri precedenti copisti e che sono solo accennati nella Tavola Doria”. Si tratta di un dipinto la cui finitura è talmente alta da indicare che, verosimilmente, il suo autore lavorà direttamente sul cartone originale prima della distruzione (e soprattutto prima che Vasari cominciasse a decorare il Salone dei Cinquecento, ovvero a partire dal 1563). Lo stesso Waldman aveva proposto di attribuire questa copia della Battaglia di Anghiari a Francesco Morandini detto il Poppi (Poppi, 1544 - Firenze, 1597), uno dei principali artisti del secondo Cinquecento in Toscana.
Lo studioso americano ha rilevato nelle due opere che riproducono la battaglia (quindi anche nella Tavola Doria) alcune delle caratteristiche della maniera del Poppi: “lo splendore perlaceo delle forme modellate, la liquida lucentezza della pennellata, e (segni inconfutabili della mano dell’artista) la stilizzazione dei volti naturalistici di Leonardo in fredde maschere manieriste, che portano la firma del giovane pittore casentinese: dipinte con espressioni indifferenti e distaccate, dando nel contempo alle carni tonalità fresche e rubizze”. E ancora: “in entrambe le tavole [...] ricorrono i medesimi volti cesellati, dai tratti bloccati, simili a maschere eleganti e aggraziate, con una carnagione opaca e rossastra, secondo la consuetudine del pittore casentinese”. Elementi che, ha evidenziato Waldman, si ritrovano con precisione in alcune opere di Francesco Morandini: per esempio, nella tela con il Compianto sul Cristo morto conservata nella sua città natale (il volto di san Giovanni che somiglia a quello di Francesco Piccinino, il primo cavaliere a sinistra, come si vedrà più avanti), oppure nell’opera La casa del Sole conservata al Museo di Casa Vasari ad Arezzo (il modo di dipingere le braccia), o ancora nel Tobia e Raffaele del Museo di Palazzo Pretorio a Prato (le caratteristiche figure allungate). È del resto noto che il Poppi fu, in età giovanile, un prolifico copista: non dovrebbe dunque costituire sorpresa l’eventualità che abbia copiato anche il celebre murale di Leonardo da Vinci. C’è poi un’ulteriore circostanza interessante: Morandini fu tra gli artisti che collaborarono con Vasari nella realizzazione degli affreschi del Salone dei Cinquecento tra il 1563 e il 1570, e si può quindi ipotizzare che l’artista abbia copiato l’opera di Leonardo nel contesto di questa importante impresa. Le due tavole sono comunque copie soggette all’interpretazione del loro autore (nella Tavola Doria, per esempio, è presente sulla sinistra il soldato a terra con lo scudo, assente invece nella tavola di Palazzo Vecchio) che, conclude Waldman, dobbiamo immaginare come “l’ultimo pittore che si accinse a copiare un capolavoro di Leonardo”, e al quuale dobbiamo essere grati “per ciò che ha visto e diligentemente copiato con tanta sensibilità e attenzione ai particolari, pur infondendo nelle due tavole la vivida impronta del suo aggraziato ed elegante manierismo di tardo Cinquecento”. L’assegnazione al Poppi ha già ottenuto consensi: per esempio, alla stessa mostra di Anghiari l’opera è stata esposta proprio con tale attribuzione, seppur marcata da un punto interrogativo.
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Francesco Morandini detto il Poppi (?), Lotta per lo stendardo, copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (1563?; olio su tavola, 83 x 144 cm; Firenze, Palazzo Vecchio, in deposito dalle Gallerie degli Uffizi)
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Francesco Morandini detto il Poppi, Compianto sul Cristo morto (1580-1590 circa; olio su tela, 140 x 100 cm; Poppi, Prepositura di San Marco)
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Francesco Morandini detto il Poppi, La casa del sole (terzo quarto del XVI secolo; olio su tavola, 54 x 61 cm; Arezzo, Casa Vasari)
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Francesco Morandini detto il Poppi, Tobia e l’angelo (1572-1573; olio sus tavola, 215 x 130 cm; Prato, Museo Civico di Palazzo Pretorio). Ph. Credit Francesco Bini
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Pur non essendo più accettata l’ipotesi di un’autografia leonardiana, la Tavola Doria rimane comunque un dipinto di considerevole rilevanza, e per comprenderla è prima necessario conoscere la storia dell’episodio dipinto. L’opera originale di Leonardo da Vinci risale al periodo compreso tra il 1503 e il 1506: la Repubblica di Firenze aveva deciso di far decorare il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, l’ambiente più grande dell’edificio (54 metri di lunghezza per 23 di larghezza e 18 di altezza: ospitava il Gran Consiglio della Repubblica, un organo di governo, creato all’epoca in cui Firenze era retta da Girolamo Savonarola, che era composto da cinquecento membri), con scene di battaglie nelle quali i fiorentini risultarono vittoriosi: a Michelangelo fu commissionata la Battaglia di Cascina, mentre Leonardo si occupò della Battaglia di Anghiari. Nessuno dei due progetti fu terminato: Michelangelo lo lasciò prima di completarlo, mentre Leonardo lo abbandonò dopo il fallimento dell’esecuzione del dipinto sulla parete del salone. Secondo la versione a lungo ritenuta la più probabile, Leonardo avrebbe voluto sperimentare la tecnica dell’encausto: invece di affrescare la parete, l’avrebbe dipinta a olio sull’intonaco già secco, facendo poi asciugare la pittura con il calore sprigionato da due grandi pentoloni alimentati a legna. Il racconto dell’Anonimo Magliabechiano afferma che “più basso il fuoco aggiunse e seccolla [la pittura, ndr], ma lassù in alto, per la distanza grande, non si aggiunse il calore e la materia colò”. In sostanza, la sala sarebbe stata talmente grande da rendere il calore non sufficiente a far asciugare la parte alta della pittura, così i colori in alto sarebbero colati sulla parte bassa rovinando irrimediabilmente tutto il dipinto. Tuttavia, di recente un’ipotesi dello studioso Roberto Bellucci ha messo in dubbio questa versione dei fatti: l’encausto prevedeva infatti l’utilizzo di cere, che con una fonte di calore diretto si sarebbero sciolte nuocendo ugualmente all’opera. Il calore, stando a quanto tramanda Plinio il Vecchio nel descrivere questa tecnica, serviva semmai a scaldare il supporto per favorire l’adesione dei colori sciolti nella cera. Dunque, sottolinea Bellucci, se Leonardo avesse utilizzato una tecnica simile, il calore avrebbe fatto semmai colare la parte in basso più che quella in alto, più lontana dal fuoco. È dunque più probabile che l’operazione non sia andata a buon fine a causa di un’incompatibilità tra il supporto e i colori, come notava l’umanista Paolo Giovio (Como, 1483 - Firenze, 1552): “nella sala del Consiglio della Signoria fiorentina rimane una battaglia e vittoria sui milanesi, magnifica ma sventuratamente incompiuta a causa di un difetto dell’intonaco che rigettava con singolare ostinazione i colori sciolti in olio di noce”. Ad ogni modo è certo che l’insuccesso convinse Leonardo a lasciar perdere: era con tutta probabilità l’autunno del 1505.
La Tavola Doria è una delle copie più antiche della Battaglia di Anghiari e raffigura il momento centrale dello scontro, la lotta per lo stendardo, il vessillo milanese conteso da due cavalieri dell’esercito fiorentino e due delle schiere del ducato di Milano, all’epoca governato da Filippo Maria Visconti (Milano, 1392 - 1447). I fatti risalgono al 29 giugno del 1440 e si situano nell’ambito dell’aggressiva politica di espansionismo dei milanesi, che cercavano di espandere i loro dominî nel centro Italia a scapito delle potenze confinanti: dopo aver perso Verona, riconquistata dai veneziani (nemici di Milano) e non esser riusciti a prendere Brescia, i milanesi rivolsero le loro mire alla Romagna e alla Toscana. Trovata poca resistenza in Romagna, l’esercito milanese, guidato dal capitano di ventura umbro Niccolò Piccinino (Perugia, 1386 - Milano, 1444), valicò l’Appennino, saccheggiò il Mugello prendendo diversi borghi, mentre Firenze si preparava allo scontro e riceveva aiuti dallo Stato Pontificio, che in soccorso dell’alleato fiorentino aveva inviato le sue schiere, capitanate dal patriarca di Aquileia, Ludovico Scarampo Mezzarota (Venezia, 1401 - Roma, 1465), prefetto delle armi pontificie. L’esercito fiorentino, guidato dal suo comandante generale, il nobile abruzzese Pietro Giampaolo Orsini, cominciò a tener testa ai milanesi e riconquistò alcuni dei forti che aveva perduto, mentre nel frattempo l’esercito di Venezia, anch’essa alleata dei fiorentini, sconfiggeva i milanesi sul fronte lombardo, a Soncino. Poiché la situazione volgeva a sfavore dei milanesi, questi ultimi decisero di ritirarsi, non prima però di tentare di sferrare un ultimo e imponente attacco ai fiorentini. Questo si verificò, come anticipato, ad Anghiari il 29 giugno del 1440, ma lo scontro fu vinto dai fiorentini, che sbaragliarono l’esercito di Milano e riuscirono a impossessarsi del loro stendardo, come raccontano le cronache del tempo. Scrive Giusto d’Anghiari, notaio del luogo che redasse un Diario che è stato ristudiato in occasione della mostra di Anghiari: “giovedì a dì 30 di giugno la mattina a terza venne in Fiorenza la novella come le genti nostre cioè de’ Fiorentini avevano rotto hieri che fu il dì di san Pieto el campo del duca di Milano, cioè Niccolò Piccino, ad Anghiari a piè della città verso el Borgo, e tolsargli circa 3000 cavagli e presaro 16 capi di squadra e altri huomini d’arme assai e 1456 prigioni da taglia del Borgo, e altri prigioni assai d’altri luoghi. Fu grandissima vittoria, e tolsaro loro gli stendardi. Fecisene gran festa e meritamente perché fu la salute di Toscana. Scampò Niccolò Piccino con circa 1500 cavalli in lo Borgo e la notte medesima si fuggì e passò l’Alpi con gran suo danno e vergogna”. Si trattò di una vittoria decisiva per i fiorentini, dal momento che sancì la fine delle mire milanesi sull’Italia centrale.
L’episodio raccontato da Leonardo è noto solo attraverso le copie: non esistono più i cartoni originali, né disegni completi realizzati da Leonardo (ci sono soltanto studî di porzioni della composizione, dei quali si dirà più sotto). Dalle copie notiamo che lo schema è pressappoco sempre lo stesso: nel registro superiore vediamo i quattro principali condottieri dei due eserciti, che da sinistra a destra sono Francesco Piccinino (Perugia, 1407 circa - Milano, 1449), figlio di Niccolò, a capo delle milizie provenienti dall’Umbria, quindi suo padre Niccolò, e poi, uno di fianco all’altro, i comandanti delle forze fiorentine, ovvero Ludovico Scarampo Mezzarota e Pietro Giampaolo Orsini. I quattro si stanno contendendo lo stendardo: i volti dei due capitani milanesi sono contratti in smorfie quasi ferine (e Francesco Piccinino è colto in una torsione alquanto disagevole: sembra quasi che stia fuggendo, e probabilmente Leonardo ha voluto alludere alla fuga a cui il giovane condottiero si diede nel 1446 dopo essere stato sconfitto dai veneziani a Mezzano, nei pressi del Po), mentre più tranquilli, ma comunque grintosi e risoluti, appaiono Scarampo e Orsini. Da notare anche le decorazioni dei personaggi: i milanesi sono connotati negativamente, dal momento che Francesco Piccinino indossa un’armatura decorata con corna caprine che alludono al demonio (il padre non indossa altro che un berretto, ma la sua espressione carica di violenza e ferocia è già di per sé sufficiente), mentre il contrario accade per i condottieri di Firenze, dacché Scarampo ha l’elmo decorato con un drago (secondo lo storico dell’arte Frank Zöllner, che a lungo ha studiato la Battaglia di Anghiari, è simbolo di valore militare ma anche di prudenza), e quello di Orsini richiama l’elmo con visiera e pennacchio della dea Atena. Sotto, altri soldati: nella Tavola Doria ne abbiamo uno sulla sinistra, con uno scudo, e al centro due che si azzuffano furibondamente a mani nude (alludono alla soldataglia che, nel Rinascimento, spesso seguiva i capitani di ventura: armata alla bell’e meglio, se non addirittura disarmata, rozza, animata dagli istinti più bassi e beceri, incline ai delitti contro la proprietà e contro la persona). Al centro, i cavalli, anch’essi partecipi della battaglia: guardano però atterriti, come se volessero dissociarsi dalla lotta a cui i loro padroni li hanno costretti.
Il summenzionato Godart ha sottolineato il possibile messaggio politico dell’opera: “Leonardo”, ha sottolineato lo studioso, “sapeva di dover realizzare un’opera dal forte impatto politico. Si trattava di mostrare attraverso la raffigurazione della Battaglia di Anghiari il trionfo di una Firenze riflessiva, forte dei suoi diritti e delle sue istituzioni, su un esercito di mercenari brutali e spietati. Ebbene [...], il maestro è perfettamente riuscito nel suo intento”. Un intento raggiunto da una parte con un messaggio legato alla storia di Firenze: i nemici della Repubblica che vengono dipinti come uomini cattivi, violenti e che suscitano orrore, e i condottieri fiorentini che incarnano la saggezza, l’intelligenza, la strategia, oltre che il trionfo delle istituzioni di Firenze. Dall’altra, scrive Godart, “una denuncia implacabile della guerra”. È noto che Leonardo da Vinci, in anticipo sui tempi, avesse una pessima opinione sulla guerra: nel suo Trattato della pittura, l’artista, nel suggerire come comporre gli scorci della figura umana nelle scene di battaglia, scrisse che “nelle istorie fanne in tutti i modi che ti accade, e massime nelle battaglie, dove per necessità accadono infiniti scorciamenti e piegamenti de’ componitori di tal discordia, o vuoi dire pazzia bestialissima”. E ancora, dal Corpus degli studi anatomici: “pensa esser cosa nefandissima il torre la vita all’omo [...], e non volere che la tua ira o malignità distrugga una tanta vita, che veramente chi nolla stima nolla merita”. Leonardo, tendenzialmente pacifista, riteneva dunque la guerra una “pazzia bestialissima”, una contesa propria più degli animali che degli uomini, che non si addice a esseri razionali, e allo stesso modo disprezzava profondamente chi toglie la vita a qualcun altro: tuttavia, il pittore riteneva la guerra un male necessario se la posta in gioco era la perdita della libertà (nel manoscritto Ashburnham è contenuto un frammento di proemio per un trattato d’arte militare poi mai realizzato, e nel quale Leonardo scrive che “per mantenere il dono principal di natura, cioè libertà, trovo modo da offendere e difendere in stando assediati da li ambiziosi tiranni”: di qui, la sua attività come ingegnere militare). Con la sua Battaglia di Anghiari, Leonardo avrebbe voluto esprimere una condanna nei confronti della guerra, soprattutto attraverso gli occhi dei due cavalli: “se le nobili sagome dei cavalli contrastano con la bestialità dei due condottieri al servizio del Visconti e dei due fanti che si affrontano in un duello mortale”, ha ribadito Godart, “sono soprattutto gli occhi spaventati dei due animali a condannare l’orrore della mischia in cui sono stati coinvolti [...]. Gli occhi dei cavalli di Leonardo che contemplano con ribrezzo lo scontro all’ultimo sangue che li vede coinvolti sono la più efficace delle condanne di qualsiasi forma di guerra”.
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Dettagli della Tavola Doria: Francesco Piccinino e Niccolò Piccinino
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Dettagli della Tavola Doria: Ludovico Scarampo Mezzarota e Pietro Giampaolo Orsini
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Dettagli della Tavola Doria: i soldati che lottano a terra
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Dettagli della Tavola Doria: il soldato con lo scudo
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Dettagli della Tavola Doria: gli sguardi dei cavalli
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Come detto, non abbiamo disegni completi di Leonardo, ma si conservano pochi studî: alle Gallerie dell’Accademia di Venezia si trovano alcuni disegni nei quali Leonardo studia la posizione dei cavalieri e la composizione della mischia (e dai disegni risultano scene particolarmente affollate e violente: in particolare, nei Tre gruppi di uomini in lotta vediamo quanto Leonardo si fosse concentrato sulla rissa dei due uomini a terra, disarmati, con quello in alto che cerca di trafiggere gli occhi dell’avversario a mani nude), alla Royal Library di Windsor è invece custodito un disegno a gessetto nero raffigurante alcuni cavalieri con stendardi, agli Uffizi si trovano alcuni studî per i due cavalieri di destra, mentre lo Szépművészeti Múzeum di Budapest conserva un disegno per lo studio di una testa di cavaliere, e soprattutto il più famoso studio autografo del pittore vinciano per la Battaglia di Anghiari, ovvero lo studio per la testa di Niccolò Piccinino. Gli studî di Budapest sono particolarmente importanti: una grande esperta dell’arte di Leonardo da Vinci, Carmen Bambach, ritiene che siano tra gli ultimi realizzati per le teste prima di passare alla redazione finale del dipinto, e pensa che gli studî siano stati condotti dal vivo. L’artista, sottolinea l’esperta riferendosi al disegno della testa di Budapest (che potrebbe essere identificata come uno schizzo per la figura di Pietro Giampaolo Orsini), “ha dapprima tracciato i contorni della testa, in maniera grossolana, quindi ha modellato le ombre con tratti paralleli, con il suo caratteristico modo di disegnare dall’angolo in basso a destra verso quello in alto a sinistra. Poi ha strofinato i tratti per ottenere un effetto di continuità, e per rinforzare i contorni ha calcato abbastanza forte col gessetto sulla carta”. Dai disegni e dalle copie (che si concentrano tutte sullo scontro tra i quattro condottieri) risulta comunque evidente che questa zuffa era il motivo centrale del dipinto di Leonardo. “Le copie giunte fino a noi”, ha scritto Frank Zöllner, “confermano la supposizione secondo cui l’artista non avrebbe realizzato né sul cartone preparatorio del dipinto murale né sul dipinto murale stesso alcuna composizione che essenzialmente andasse oltre la battaglia per lo stendardo”. È però anche vero che le copie differiscono tra loro per diversi dettagli, ora riportati in maniera diversa, ora celati.
Delle opere di altri autori che sopravvivono, la più antica è uno schizzo eseguito da Raffaello probabilmente prima del 1505 (era anche lui presente a Firenze all’epoca), anche se è difficile pensare si tratti di una copia, dal momento che all’epoca Leonardo stava ancora lavorando alla sua opera: più probabile, dunque, che il disegno di Raffaello si sia semplicemente ispirato alla Battaglia di Anghiari, ma non ne rappresenti una copia fedele. Ci sono poi altri disegni che potrebbero essere stati tratti dal cartone originale: ne abbiamo uno conservato all’Aia (che secondo Zöllner potrebbe essere il più vicino all’originale di Leonardo), e un altro conservato al Louvre, eseguito da un anonimo copista del Cinquecento e poi rimaneggiato e ingrandito da Pieter Paul Rubens nel secolo successivo, all’epoca del suo viaggio in Italia (l’artista fiammingo aggiunse alcuni dettagli, come la sciabola in mano a Ludovico Scarampo, la bandiera sulla spalla di Orsini, la coda dell’ultimo cavallo a destra).
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Leonardo da Vinci, Mischia tra cavalieri, un ponte e figure isolate, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro marrone su carta noce chiaro, 160 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Leonardo da Vinci, Cavalieri in lotta, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro nero su carta, 145 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Leonardo da Vinci, Mischie di cavalieri, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro nero su carta, 145 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Leonardo da Vinci, Cavalieri con stendardi, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto nero su carta chiara, 160 x 197 mm; Windsor, Royal Library)
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Leonardo da Vinci, Studî per la testa di Niccolò Piccinino, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto rosso e nero su carta rosa, 191 x 188 mm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)
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Leonardo da Vinci, Testa di cavaliere, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto rosso e nero su carta rosa, 227 x 186 mm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)
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Leonardo da Vinci, Studî per la testa di Niccolò Piccinino, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto rosso e nero su carta rosa, 191 x 188 mm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)
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Raffaello Sanzio, Schizzo della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (1503-1505 circa; disegno a punta d’argento, 211 x 274 mm; Oxford, Ashmolean Museum)
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Artista anonimo, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (XVI secolo; gessetto, matita e penna su carta, 435 x 565 mm; L’Aia, Collezioni dei Reali dei Paesi Bassi)
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Anonimo del XVI secolo e Pieter Paul Rubens, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (XVI secolo con ritocchi successivi di Rubens; matita nera, penna e inchiostro bruno e grigio, matita grigia e pigmenti bianchi e grigio-blu su carta, in origine 428 x 577 mm poi ingrandito a 453 x 636 mm; Parigi, Louvre, Département des arts graphiques)
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Se è vero che la Tavola Doria e la tavola di Palazzo Vecchio sono attribuibili al Poppi e il pittore casentinese le ha realizzate prima che Vasari dipingesse gli affreschi del Salone dei Cinquecento, potremmo ritenere queste ultime le copie dipinte più cronologicamente vicine alla Battaglia di Anghiari di Leonardo (lo stesso Zöllner, che si è a lungo occupato del problema delle copie della Battaglia di Anghiari, già nel 1991 riteneva che le due tavole fossero state realizzate osservando direttamente il murale: l’indizio chiave sarebbe la figura di Orsini, non definito, il che lascerebbe pensare che in quel punto la pittura parietale di Leonardo non era completa o si era danneggiato). Vicina al dipinto murale potrebbe essere poi la cosiddetta “copia Rucellai”, così chiamata in quanto un tempo nelle collezioni della famiglia fiorentina (e oggi invece in una collezione privata di Milano): è un’opera molto dettagliata, che presenta però una differenza rispetto a molte altre copie, ovvero il soldato che sta schiacciando il suo rivale a terra nella parte bassa non combatte a mani nude ma è armato di pugnale (probabile che si tratti di un’invenzione dell’autore di questa copia).
Altra importante copia cinquecentesca è la Lotta per lo stendardo del Museo Horne di Firenze, oggetto di una recente ricognizione di Elisabetta Nardinocchi per la mostra Arte di Governo a la Battaglia di Anghiari: fu comperata dallo storico dell’arte e collezionista Herbert Percy Horne (Londra, 1864 - Firenze, 1916) nel 1890, che la identificava come “la mia copia della Battaglia dello Stendardo di Leonardo” e che l’aveva acquistata proprio perché intenzionato a possedere un’opera legata all’impresa di Leonardo da Vinci. L’opera è da riferire all’ambito di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma (Vercelli, 1477 - Siena, 1549): Horne infatti riteneva che non si trattasse di una copia diretta, bensì di un derivato da una copia eseguita dal Sodoma, anche per quelli che Horne e Berenson ritenevano elementi ripresi dalle Storie di Alessandro Magno che il pittore piemontese aveva dipinto alla Villa Farnesina a Roma. Nardinocchi ha però messo in relazione la copia Horne con una scena del ciclo della Villa Farnesina dipinto non dal Sodoma, bensì dal suo principale aiuto, Bartolomeo di David (Siena, 1482 - 1545 circa), che su di una parete della camera di Agostino Chigi dipinse la scena della Battaglia di Isso: il paesaggio marino che vediamo nello sfondo della copia Horne deriverebbe dunque da quello della Battaglia di Isso di Bartolomeo. Il dato interessante è che lo stesso Sodoma, per gli affreschi della Villa Farnesina, probabilmente si ispirò a Leonardo, come lascerebbero intendere i due cavalli, i combattenti, i soldati a terra nella scena della Battaglia di Isso (ricordiamo comunque che il disegno si deve a Giovanni Antonio Bazzi): il valore della copia Horne sta pertanto anche in questo singolare gioco di rimandi.
Infine, occorre citare almeno altre due copie cinquecentesche probabilmente eseguite direttamente osservando il dipinto murale di Leonardo: un olio su legno trasferito su tela noto come “Copia Timbal” in quanto un tempo nella raccolta del pittore e collezionista Charles Timbal (oggi è proprietà di un collezionista che nel 2014 se l’è aggiudicata per 257mila dollari in un’asta da Sotheby’s), che si distingue, come la copia Horne, per la presenza del paesaggio, e infine un’incisione su rame di Lorenzo Zacchia il Giovane (Lucca, 1514 circa - 1587), datata 1558 e dichiaratamente ispirata a una tavola di Leonardo da Vinci. Si presume che la tavola in questione sia quella che, secondo le fonti antiche, il pittore vinciano realizzò nella Sala del Papa in Santa Maria Novella in vista dell’esecuzione finale su muro. Ad ogni modo, Zacchia il Giovane introdusse molte varianti rispetto al modello: le armi (Scarampo, per esempio, ha una scure), le proporzioni dei cavalli, la coda dell’equino che copre uno dei due soldati che rozzamente combattono a terra (come accadeva peraltro nel disegno ritoccato da Rubens).
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Artista anonimo, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci nota anche come Copia Rucellai (XVI secolo; disegno a penna, 290 x 430 mm; Milano, collezione privata, già a Firenze, Collezione Rucellai)
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Ambito del Sodoma, Lotta per lo stendardo, dalla Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (XVI secolo; olio su tela, 154 x 212 cm; Firenze, Museo Horne)
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Bartolomeo di David, La battaglia di Isso (1519; pittura murale; Roma, Villa Farnesina)
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Artista anonimo, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci nota anche come Copia Timbal (XVI secolo; olio su tela, 72,8 x 84 cm; Collezione privata)
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Lorenzo Zacchia il Giovane, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (1558; incisione su rame, 374 x 470 mm; Vienna, Albertina, Graphische Sammlung)
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Tutte queste copie (s’è volutamente taciuto di quelle seicentesche, numerose: anche Rubens, come detto, ne realizzò una) testimoniano la grande fortuna riscossa dalla Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. La Tavola Doria s’inserisce in questo solco, e di sicuro tra le copie dell’originale leonardiano è quella che ha avuto la vita più “avventurosa”, benché in pubblico sia stata esposta per la prima volta soltanto nel 1939, in occasione della grande mostra su Leonardo fortemente voluta dal regime fascista e animata non da obiettivi scientifici, bensì dallo scopo dichiarato di “celebrare il genio universale e ineguagliato di Leonardo da Vinci, assunto quasi a simbolo di tutta la civiltà latina e cristiana”. Come detto, la sua prima attestazione risale al 1621: all’epoca era nelle disponibilità di Giovanni Carlo Doria, che probabilmente ottenne la tavola dai Medici, coi quali intrattenne fitti contatti (oltre che scambi, anche di opere d’arte). Giovanni Carlo doveva accordare una grande importanza all’opera, se nell’inventario era valutata ben 300 scudi, una cifra molto alta, e se era inclusa nel nucleo di opere che, alla sua morte, sarebbero dovute passare direttamente al suo erede, Marcantonio Doria, che si sarebbe curato di conservarla nella maniera più acconcia possibile. Quando i Doria, attraverso le loro politiche matrimoniali, acquisirono feudi nel Meridione, la Tavola si spostò a sud, tanto che l’opera è attestata tra i beni dei Doria d’Angri.
Il resto è storia recente: dai passaggi di proprietà (inclusa l’uscita illegale dall’Italia) al restauro fortemente invasivo che ha rimosso lo sfondo del dipinto per sostituirlo con l’attuale fondo oro inserito probabilmente per dar risalto alle figure, dalle trattative internazionali al ritorno in Italia dell’opera. Tra le copie dipinte della Battaglia di Anghiari, la Tavola Doria probabilmente è anche quella di miglior qualità: rimane inoltre il fatto che, pur non essendo forse la copia più fedele all’originale, si tratta di un preziosissimo documento per comprendere le idee del genio di Vinci.
Bibliografia essenziale
- Gabriele Mazzi (a cura di), Arte di governo e la battaglia di Anghiari. Da Leonardo da Vinci alla serie gioviana degli Uffizi, catalogo della mostra (Anghiari, Museo della Battaglia e di Anghiari, dal 1° settembre 2019 al 12 gennaio 2020), S-EriPrint Editore, 2019
- Louis Alexander Waldman, La Tavola Doria. Francesco Morandini, detto il Poppi, copista della Battaglia di Anghiari di Leonardo in Alberta Piroci Branciaroli, Nel segno di Leonardo. La Tavola Doria dagli Uffizi al Castello di Poppi, catalogo della mostra (Poppi, Castello, dal 7 luglio al 7 ottobre 2018), Polistampa, 2018
- Cristina Acidini, Marco Ciatti (a cura di), La Tavola Doria tra storia e mito, atti della giornata di studio (Firenze, Salone Magliabechiano della Biblioteca degli Uffizi, 22 maggio 2014), Edifir, 2015
- Marco Versiero, “Trovo modo da offendere e difendere”: la concezione della guerra nel pensiero politico di Leonardo in Cromohs, 19 (2014), Firenze University Press, pp. 63-78
- Louis Godart, La Tavola Doria. Sulle tracce di Leonardo e della “Battaglia di Anghiari” attraverso uno straordinario ritrovamento, Mondadori, 2012
- Carmen C. Bambach (a cura di), Leonardo Da Vinci: Master Draftsman, catalogo della mostra (New York, The Metropolitan Museum of Art, dal 22 gennaio al 30 marzo 2003), The Metropolitan Museum ed., 2003
- Frank Zöllner, La Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci fra mitologia e politica, XXXVII Lettura Vinciana (18 aprile 1997), Giunti, 1998
- Frank Zöllner, Rubens Reworks Leonardo: ’The Fight for the Standard’ in Achademia Leonardi Vinci, 4 (1991), Giunti, pp. 177-190
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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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