Se si volesse trovare una qualche traccia, un qualche lacerto della storia antica del Palazzo del Monte di Pietà di Savona (uno dei primi istituti del genere in Europa, come si premurano di sottolineare le guide turistiche), si faticherebbe a notarla all’esterno, sulla facciata ottocentesca dell’edificio che nel 1479, per volere del papa savonese Sisto IV, diventò sede dell’istituto: occorre entrare e visitare quello che oggi è il Museo della Ceramica di Savona, aperto nel 2014 dopo che il palazzo ha subito un lungo restauro, e gestito oggi dalla Fondazione Museo della Ceramica, che ha meritoriamente fondato la sua struttura organizzativa su di un affiatato gruppo di giovani specializzati ed entusiasti. Occorre aggirarsi tra le sue sale, tra le teche che raccontano la storia plurisecolare dell’arte che ha dato lustro a questo lembo del Ponente ligure, fermarsi di fronte a una parete affrescata, osservare il dettaglio d’una finestra, alzare lo sguardo per soffermarsi sulla decorazione di una volta. A un certo punto, s’incontrerà un salone col soffitto decorato da uno dei più importanti artisti liguri del secondo Seicento, Bartolomeo Guidobono, altro figlio illustre della città. Artista dal temperamento “modesto, timido, meditativo, introvertito”, com’ebbe a scrivere Gian Vittorio Castelnovi, temperamento che permise a Guidobono di tenere a freno “ogni stravaganza fantastica” e lo indusse “a volentieri osservare”: ed è certo lontano da ogni bizzarria quel suo affresco chiaro, equilibrato, movimentato, magari non così innovativo, ma sicuramente di grand’effetto, memore delle soluzioni che Pellegrino Tibaldi aveva adottato a Bologna, a Palazzo Poggi, forse con la mediazione di chi, tra i liguri, ben conosceva l’arte emiliana. C’è però una particolarità che solo qui, solo al Museo della Ceramica di Savona, è dato osservare: nelle teche disposte sotto la volta di Guidobono, ci sono i piatti in ceramica che da lui furono dipinti. O meglio: che gli si attribuiscono, dal momento che non esistono oggetti in ceramica che abbiano la sua firma. Ma siamo sicuri che l’artista fornì i suoi disegni ai laboratorî da cui uscivano i piatti che oggi s’osservano al Museo della Ceramica, sappiamo che Bartolomeo veniva da una famiglia di ceramisti, riconosciamo in certi piatti il suo stile. E allora non è da escludere che lui in persona avesse anche dipinto qualcosa che oggi possiamo ammirare dentro queste vetrine.
Non capita spesso di scoprire che un artista ch’ebbe successo nell’arte dell’affresco potrebbe essersi dedicato a una produzione più quotidiana. Figuriamoci vedere i suoi oggetti d’uso comune esposti sotto un soffitto decorato dalla sua stessa mano. Nella sala, il pannello recita “istoriato barocco”: è il nome con cui è noto il tipo di decorazione che andava per la maggiore nel Seicento. Il repertorio era tratto dalla mitologia, dalle storie antiche: gli amori degli dèi dell’Olimpo, epiche scene di battaglie tra cavalieri, cortei di putti e amorini, incontri tra dame e gentiluomini. Uno dei più grandi poeti del Seicento, il savonese Gabriello Chiabrera, forse stava guardando una delle coppe che aveva in casa, dipinte con scene simili a quelle che il visitatore osserva nelle sale del Museo della Ceramica, quando componeva l’“Invito a bere”, la sua lirica forse più nota: “Aure serene e chiare / spirano dolcemente, / e l’alba in oriente / ricca di gigli e di viole appare. / Sulla sponda romita / lungo il bel rio di questa riva erbosa, / o Filli, a bere invita / ostro vivo di fragola odorosa. / Fra le mie tazze più care / reca la più diletta, / quella dove saetta / Amor sopra un delfin gli dèi del mare”. Eccole, le divinità marine, apparire anche tra i piatti della sala riservata all’istoriato barocco: il carro di Nettuno avanza tra le onde su di un piatto attribuito a Bartolomeo Guidobono. E se qualcuno pensasse che per l’artista questa produzione fosse una sorta di ripiego, sbaglierebbe. I savonesi non avevano difficoltà a riconoscere la bontà delle sue ceramiche, a considerarle oggetti di pregio. Già nel 1738 la corporazione dei pignattari poteva affermare che “o tal scultura e pittura che si vede in detti vasi è opera di scalpello e pennello maestro [...] o [come] molti [che] anche oggi si conservano da cittadini dipinti dal Guidobono accreditato Pittore Savonese, ed in tal caso l’estimazione di tal vasi proviene dal pennello di chi li dipinse e non da chi li fabbricò”.
Per un savonese del Settecento era perfettamente normale che un grande e stimato artista collaborasse coi fabbricanti di pentolame per decorare piatti, stoviglie, coppe, rinfrescatoi. E così sarebbe stato per secoli: la ceramica qui non è mai stata un’arte secondaria. Poi, col tempo, i laboratorî si son trasferiti e la ceramica, dopo essersi spenta a Savona, s’è riaccesa ad Albissola Marina, ma non è venuta mai meno la considerazione che questa terra nutre nei riguardi della sua arte. La ceramica, qui, si vede, si mangia, si respira, si vive. La ceramica compone un universo ch’è fatto di fornaci, piccole fabbriche gestite dalle stesse famiglie che si tramandano il mestiere di generazione in generazione, minuscole officine di artigiani, atelier dove giungono artisti da ogni parte del mondo per imparare a modellare la terra, negozî dove acquistare prodotti autentici, perché a Savona e ad Albissola non c’è mai stato quel proliferare incontrollato di botteghe che rivendono oggetti di dubbio interesse, oltre che di dubbia provenienza, che ha trasformato molti centri storici in caotici suk a uso del turista. Qui è il contrario. A Savona, trovare una rivendita di ceramiche è impresa tutt’altro che scontata. Albissola Marina invece offre di più, mantenendo però intatta la propria genuinità: spesso, chi vende è anche chi produce. Ed entrando in un negozio ci si renderà anche conto di quanto la ceramica da queste parti sia trasversale: chi ha capacità di spesa punta su grandi vasi, su pezzi unici, su elaborate sculture smaltate, su estrosi servizî da caffè disegnati da artisti importanti, ma per pochi euro si può portare a casa un piattino, uno svuotatasche dipinto a mano, una statuina per il presepe.
Ecco, appunto: le statuine del presepe. Ad Albissola Marina c’è anche una tradizione della ceramica povera, popolaresca. Quella del presepe è un ottimo esempio, perché accanto alla tradizione alta che soddisfaceva le richieste dei più abbienti (si pensi alle straordinarie statue in legno di Anton Maria Maragliano), nei secoli si svilupparono forme espressive molto più umili, come quella dei “macachi” di Albissola, le statuine del presepe così chiamate per il loro aspetto goffo e sgraziato, che conobbero il loro periodo di massima diffusione agl’inizî del Novecento. “Orribili”, le avrebbe definite Giuseppe Cava, il “Beppin da Ca’” che fu il massimo poeta dialettale di Savona: durante una passeggiata alla fiera di Santa Lucia non si capacitava di come, a suo dire, l’arte del presepe fosse andata incontro a un tale degrado. “La maggioranza dei pastori, offerti in vendita, provengono dagli artigiani di Albissola e sono orribili”, si legge in un suo racconto pubblicato nella raccolta Vecchia Savona. “Mostri che delle vecchie artistiche figurine nulla posseggono, all’infuori della parvenza. Due puntini neri per segnare gli occhi e una lineetta rossa per tracciare la bocca, su pallottole gibbose che vogliono essere teste. I corpi delle statuette e i presenti da offrire al Bambino Gesù, portati sulle spalle o in canestri di un bel giallo cromo, sono un’ira di Dio. [...] Temo che la rovina di tale nostra industria sia ormai insanabile. Occorrerebbe un gruppo di mecenati e di artisti che vi si dedicasse con amore e costanza. Ma dove trovare dei volenterosi disposti a perder tempo, fatica e danaro? Nell’attesa, la produzione forestiera si affermerà maggiormente e vedremo esulare altrove un non indifferente cespite di guadagno pei nostri artigiani della creta. E sia!”. Cava non poteva immaginare che, a un secolo di distanza, i macachi sarebbero diventati oggetti ricercati, e addirittura valorizzati da un’associazione, Macachi Lab, che promuove la cultura del presepe popolare albissolese.
Con quelle statuine così strane e grossolane un genere artistico ch’era stato declinato in forme magniloquenti dai più grandi artisti tornava dunque all’elemento più semplice: la terra. O meglio: la “tærra bōnn-a” come si dice qui, la “terra buona”, l’argilla che viene accumulata in masse squadrate dentro i laboratorî in attesa d’esser maneggiata, piegata, toccata, accarezzata, massaggiata da chi le darà una forma, dopo una lavorazione premurosa e appassionata. Guido Piovene, introducendo un libro del 1963 dedicato ai protagonisti della ceramica moderna, scriveva che la ceramica è “l’arte più universale e antica, frutto di un istinto umano che si riproduce dovunque agli albori della civiltà, contemporaneamente a quello di coltivare la terra, e anche il fare ceramiche è un modo di coltivare la terra che sorge simultaneamente all’altro, come se il vangarla e l’ararla e il modellarla con le mani fossero due impulsi complementari. Perciò ogni ceramica, se partecipa al gusto del secolo che l’ha prodotta, è anche più antica di se stessa”. Arte primitiva, che nasce dalla terra e viene vivificata dall’intervento decisivo del fuoco, che lega con nodi inscindibili l’essere umano all’elemento primigenio, arte che assomma le caratteristiche della scultura, della pittura e financo dell’architettura, arte che richiede tempo, conoscenze profonde, manualità, pazienza, determinazione, arte che richiede anche d’esser disposti a ingaggiare duelli con la materia sorda.
E ad Albissola può capitare che, aggirandosi tra i suoi vicoli, s’entri in un laboratorio (sono quasi tutti nel centro storico) e si veda un qualche artigiano al lavoro, intento a modellare la terra vicino a dove gli oggetti finiti vengono venduti. Si potrebbe entrare in una di queste botteghe, allineate ordinatamente di fronte al mare, oppure nascoste nell’intrico delle vie del centro accanto a Pozzo Garitta (dove si trovava il laboratorio di Fontana), anche solo per godersi lo spettacolo. O per ascoltare i racconti di chi è nato in mezzo alla ceramica, di chi porta avanti una tradizione familiare, di chi ha lavorato gomito a gomito coi più grandi artisti. Nel centro ci s’imbatte nelle Ceramiche Pierluca, fondata nel 1989 e specializzata negli stili tradizionali: basta un’occhiata agli ordinatissimi scaffali per farsi un’idea di quattro secoli di storia della ceramica savonese e albissolese. Poco lontano, ecco le Ceramiche Viglietti che hanno allestito anche una sezione di scultura contemporanea in ceramica e declinano la tradizione nelle forme più disparate. Percorrendo l’Aurelia ci si trova davanti all’edificio futurista, progettato nel 1938 da Nicolaj Diulgheroff, delle Ceramiche Mazzotti, mentre a pochi passi si visiterà la sede delle quasi omonime Ceramiche Giuseppe Mazzotti 1903, dove s’è affermato lo stile futurista (il più grande ceramista futurista, Tullio d’Albisola, si chiamava Tullio Mazzotti e fu lui assieme al fratello Torido a fondare la manifattura), e dov’è anche allestito un piccolo museo che raccoglie opere di artisti che son passati di qui: dalla strada, nel giardino, s’intravede l’opera più famosa, il Coccodrillo di Lucio Fontana, il grande rettile a grandezza naturale modellato nel 1936 da un Fontana che aveva da poco cominciato a indagare le potenzialità della ceramica. Impossibile, poi, non fermarsi alle Ceramiche San Giorgio: varcata la soglia si respira subito profumo di terra misto a quello del salmastro, e ci si sente quasi sopraffatti dall’atmosfera caotica dell’atelier fondato nel 1958 da Eliseo Salino assieme a Giovanni Poggi e Mario Pastorino, e oggi gestito con incrollabile passione da un Poggi più che novantenne, ma ancora desideroso di raccontare sessant’anni di storie a chiunque passi di qui e abbia la fortuna d’incontrarlo. Le foto appese alle pareti lo ritraggono con alcuni degli artisti che hanno lavorato nella sua bottega, su tutti Wifredo Lam e Asger Jorn, quasi due numi tutelari della bottega. Sono tutti luoghi dove il confine tra vendita e produzione è labile. A volte basta scendere una rampa di scale per vedere due ambienti totalmente diversi: sopra, le vetrine per l’esposizione. Sotto, una fornace con gente indaffarata a modellare, dipingere, preparare per la cottura. Alle volte capita pure che un artigiano sporco di terra finisca in mezzo ai turisti che stanno decidendo cosa comperare. Un viaggio dantesco in pochi metri quadri. Quali altri luoghi concedono esperienze simili? Dove il rapporto tra produzione, lavorazione, vendita, prodotti bassi e prodotti alti è altrettanto stretto, indissolubile?
La terra, del resto, è elemento umile. E costringe anche i grandi artisti a rimanere umili. Ogni guida sulla ceramica di Albissola non manca di ripetere i nomi dei grandi della storia dell’arte recente che son passati di qui. La lista è lunga: Lucio Fontana, Pinot Gallizio, Arturo Martini, Sergio Dangelo, Aligi Sassu, Piero Manzoni, Giacomo Manzù, Agenore Fabbri, Wifredo Lam, Karel Appel, e l’elenco potrebbe seguitare a lungo. Quasi tutti sono rappresentati al Centro Esposizioni del MuDA, il Museo Diffuso Albisola, dove ci s’incanta dinnanzi alla luce sprigionata dai pannelli in ceramica che Fontana realizzò per il Conte Grande, e dove ci s’aggira tra ceramiche piccole e grandi di Lam, Jorn, Fabbri e tanti altri che vengono esposte a rotazione. Altri pezzi s’ammirano negli altri musei del territorio: ancora al Museo della Ceramica di Savona, oppure al Museo della Ceramica Manlio Trucco di Albisola Superiore, altro racconto della storia della ceramica fino al futurismo e fino ai pezzi di Arturo Martini, Francesco Messina, Lele Luzzati. Ci sono poi i mosaici che arricchiscono il Lungomare degli Artisti, un’affascinante passeggiata d’un chilometro ad Albissola Marina, inaugurata il 10 agosto del 1963, e costellata di opere d’arte appositamente create da venti artisti che forse neppure avevano la contezza di partecipare a un progetto d’arte pubblica che non aveva precedenti, neanche nel resto del mondo. Forse se ne rese conto Fontana, che dopo l’inaugurazione volle installare tre dei suoi Concetti spaziali lungo il percorso. Asger Jorn, invece, non partecipò a quell’impresa (anche se nel 1999 è stato inserito sul Lungomare degli Artisti un mosaico tratto da una sua opera), ma la sua figura ha un fascino tutto particolare: il danese che abitava dentro una tenda, il vichingo che celebrava la bruttezza come una specie di antidoto all’indifferenza, l’artista che fondava la propria ricerca sulla più totale libertà, sulla spontaneità, sulla fantasia, sul rifiuto di tutte le convenzioni. “Il nostro obiettivo”, scriveva l’artista nel 1949 nel suo Discorso ai pinguini, “è di liberarci dal controllo della ragione, che è stato ed è tuttora quanto la borghesia ha idealizzato per impadronirsi del controllo delle vite”. Jorn è stato l’unico a metter qui radici, a voler costruire una casa che non fosse soltanto un’abitazione, ma un inno alla sua idea di arte, un tempio della creatività, e oggi una visita a quella ch’è diventata la Casa Museo Jorn, con annesso centro studî, è una tappa irrinunciabile in un viaggio dentro la ceramica ligure.
Altro nome che si ritrova spesso è quello di Arturo Martini. Al Museo della Ceramica di Savona c’è un suo ritratto della figlia Nena, esposto per la prima volta alla Promotrice di Torino nel 1930 e subito in grado di riscuotere un ampio successo, tanto da essere spesso replicato. È un ritratto che sorprende per la sua vividezza: la ragazzina è colta in una posa naturale, con la bocca leggermente aperta, mentre si regge la testa con una mano, appare svogliata, quasi assonnata. Il soffio di vita che anima quest’immagine così coinvolgente emerge anche da una lettera in cui Camillo Sbarbaro, scrivendo ad Oscar Saccorotti, ricordava una sua visita al laboratorio di Martini ad Albissola: qui Sbarbaro colse l’artista al lavoro su un’opera che non doveva essere poi così diversa rispetto a quella che oggi si vede al museo. “C’è [...] un’arte che non mi tocca immediatamente come la tua e che pure, sento, esiste”, scrive Sbarbaro a Saccorotti. Un’arte “più scaltrita, meno apprezzabile se non si avvertono richiami e risonanze di cui è ricca; se non ci si mette dal punto di vista dal quale solo è a fuoco. Ma non per questo cade la mia diffidenza e non applaudo finché non giungo a sincerarmi che è arte sofferta come bisogno. Fortuna che mi capitò, a esempio, un’estate con quel prepotente scultore che è Arturo Martini. Lo trovai in uno stambugio a Albisola che stava, per così dire, dando alla luce una sua terracotta: il busto d’una ragazzina con le trecce accercinate, il berrettuccio e una trasognata timidezza nel viso già serio. L’immagine era ancora cieca. ‘Ora la sveglio’ ci disse Martini. Quel coccio era vivo per lui; non dalla frase solo e dalla voce si capiva, ma dal modo che lo maneggiava: vivo e bisognevole di riguardo. E quando le ebbe aperto gli occhi, guardandola a distanza: ‘Si chiama Andreina. Ha dodici anni. Esce adesso dalle suore… ’. Ogni particolare diventava vero appena enunciato; calzava; illuminava l’opera, la metteva nella sua aria”.
Capita ancora, girando per Albissola Marina, di sentirsi raccontare aneddoti come quello di Sbarbaro. Non serve cercare negli archivi o nelle biblioteche: per tanti che hanno vissuto quella stagione, i ricordi sono ancora vivi. A volte la fiamma s’accende da una fotografia attaccata alla parete d’un ristorante o di una bottega, altre volte è sufficiente camminare per la strada, o guardare quella spiaggia che non era “una spiaggia come tutte le altre” per Milena Milani, altra figura straordinaria che ha legato il suo nome a queste terre (anche un suo romanzo è ambientato ad Albissola Marina, e le opere che appartenevano alla collezione sua e del compagno Carlo Cardazzo sono esposte alla Pinacoteca di Savona). “Ci sono gli intellettuali, pittori, poeti, romanzieri, saggisti, filosofi, scultori, critici, mercanti d’arte, ceramisti, tutta una élite che fa di Albisola un posto unico tra le spiagge italiane”, scriveva nel 1960. "Non si creda che con tutte queste personalità altamente qualificate, Albisola sia un posto noioso, dove la gente non si sa divertire. Anche qui si balla, ci sono orchestrine, c’è frastuono, si eleggono miss; tuttavia l’atmosfera è diversa, perché anche le persone normali, i così detti villeggianti, sono intossicati dal bacillo dell’arte, partecipano alle mostre, vanno alle conferenze, ascoltano la lettura di poesie. [...] Gli albisolesi, di solito, non si spaventano davanti all’arte più avanzata, o meglio, non si scompongono nemmeno più, hanno un gusto eccezionale, accettano quadri di un solo colore, o le strisce di carta, lunghe venti, trenta metri, come quelle di Piero Manzoni, discendente dello scrittore; i buchi e i tagli di Fontana sono ormai un fatto scontato, come le sue ultime sculture, enormi boules di creta, sulle quali lo straordinario artista sferrava pugni (ribellione? disperata irrequietezza? certo la vita di oggi porta a queste forme insoddisfatte); gli albisolesi accettano quadri e ceramiche del danese Jorn, uno degli artisti più quotati internazionalmente, e al quale il sindaco Ciarlo, che è anche collezionista, ha concesso la cittadinanza onoraria (con lui, l’hanno avuta Fabbri, Fontana e Sassu)".
Per gli albissolesi è ancora naturale parlare di Fontana, di Jorn, di Sassu e di tutti gli altri come se si parlasse di vecchi amici. Ad Albissola non esistono barriere, non si percepisce quel misto di timore reverenziale e distanza che, tolte poche eccezioni, in qualsiasi altro luogo d’Italia s’avverte quando qualcuno spiega l’opera d’un artista, magari anche legato al territorio. La tærra bōnn-a univa tutti, non c’erano distanze, gli abitanti erano abituati agli artisti, alle loro stravaganze, alle gallerie (Milena Milani scriveva che ad Albissola Marina, in proporzione, ce n’erano più che a Milano), anche perché frequentavano gli stessi ritrovi della gente del posto. E anche oggi si respira un’aria simile, ci sono ancora artisti di rilievo che frequentano le botteghe di Albissola Marina: Ugo Nespolo, Giorgio Laveri, Vincenzo Marsiglia, giusto per citare tre nomi a caso. Oppure il savonese Sandro Lorenzini, che di recente ha avuto l’onore d’una grande personale al Museo della Ceramica, che s’è popolato delle sue opere restituendo al pubblico un racconto di cinquant’anni d’impetuosa e vivacissima carriera. E poi qui la ceramica, assieme al mare e alle spiagge, alla grande arte, alle serate passate nei locali del lungomare o del centro, è ancora parte di uno stile di vita irriproducibile altrove. Però non esiste più quella comunità irripetibile, non esiste più quella congerie così varia e così densa che muoveva le estati albissolesi degli anni Cinquanta e Sessanta. Forse è stato un miracolo. Tanto che ancora oggi ci si chiede come sia stato possibile che in un contesto così periferico, così piccolo, così nascosto sia germogliata e cresciuta una comunità che ha prodotto alcune vicende fondamentali per le arti del XX secolo. Nessun altro centro della ceramica al mondo ha conosciuto una stagione come quella, neppure in quelle città dove la ceramica struttura un sistema economico e formativo. Com’è stato possibile? Ha provato a dare una risposta Martina Corgnati, in un suo contributo sulle Ceramiche Giuseppe Mazzotti: “Alchimia singolare di provincialismo e cosmopolitismo, semplicità e apertura mentale, capacità produttiva e sensibilità al rinnovamento delle forme. I catalizzatori di questo processo straordinario che istituzioni ben più sostenute e situazioni in apparenza ben più favorevoli non sono riusciti ad attivare, si trovano innanzitutto in fabbrica”.
È stato, insomma, un mélange di elementi ch’è impossibile reperire altrove. Gli artisti che arrivavano qui trovavano un tessuto produttivo vivace che aveva alle spalle secoli di storia, trovavano abitanti ben disposti nei loro confronti e indifferenti nei riguardi delle loro eccentricità, erano sedotti da uno stile di vita che solo le località delle coste italiane sono in grado d’offrire. Era poi quella la stagione delle villeggiature al mare: si pensi a quelle comunità d’artisti e letterati che ogni estate si ritrovavano, pensando a luoghi non troppo lontani da Albissola Marina, alle Cinque Terre, sul Golfo dei Poeti, a Bocca di Magra, a Forte dei Marmi, a Viareggio. È un periodo della storia che non tornerà, capitolo recente d’una tradizione che ha prodotto così tanto lungo i secoli. E per capire perché la ceramica qui è elemento fondante dello stile di vita non basta lasciarsi trasportare dai ricordi, dagli scritti, dai racconti, dalle immagini. Serve andare. Bisogna vedere di persona. Respirare l’aria di mare di queste città. Farsi accarezzare dal vento in una sera sul lungomare. Incontrare le persone del luogo, parlare con loro, uscirci assieme a pranzo o a cena, chiacchierare del più e del meno. Oppure andare in un bar qualsiasi e ascoltarle. Vedere le opere dentro i musei e dentro le botteghe. Toccare una vecchia fotografia. Guardare il cielo di Albissola, il cielo che muta a ogni momento, come scriveva Milena Milani, “nuvole passano e ripassano, e quando il cielo è sgombro, è di un bell’azzurro, carico, invitante”. Solo così si potrà cercare di capire perché qui la ceramica è come l’aria. E perché ogni volta che un abitante del posto racconta anche una storia, anche la più insulsa e insignificante, che abbia a che fare con la ceramica, i suoi occhi s’illuminano.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).