Nell’ultimo appuntamento con la nostra piccola e breve storia della critica d’arte avevamo parlato della teoria della pura visibilità e delle origini del formalismo: in questa nuova “puntata” vedremo come al formalismo si accostarono alcuni grandi storici dell’arte. Vedremo, in particolare, i risultati raggiunti da due grandi nomi, ovvero Roger Fry e Lionello Venturi, e ci riserveremo di dedicare a breve un ulteriore articolo a Bernard Berenson, altro importante studioso che fu suggestionato dalle teorie formaliste.
Partiamo da un punto di contatto con quanto si era detto la volta scorsa: in breve, avevamo visto come lo studioso svizzero Heinrich Wölfflin avesse proposto cinque coppie di concetti fondamentali della storia dell’arte che determinerebbero i modi di un artista. La storia dell’arte sarebbe una sorta di continuo “alternarsi” dei principi opposti che, in certi stili, trovano applicazione come reazioni a forme espressive precedenti. Nel 1921, l’inglese Roger Fry (Londra, 1866 - 1934) pubblicò una recensione del libro Kunstgeschichtliche Grundbegriffe (“Concetti fondamentali della storia dell’arte”) di Wölfflin, che si intitolava The Baroque: nel suo saggio, Fry sosteneva che, come il neoclassicismo era stata una reazione al barocco, allo stesso modo il postimpressionismo (termine coniato dallo stesso Fry e che ha avuto una notevolissima fortuna nello studio della storia dell’arte, una fortuna tale che ancora oggi si identificano con questo termine le esperienze degli artisti giunti subito dopo gli impressionisti: Seurat, Van Gogh, Gauguin, Cézanne... ), con il suo carattere votato al linearismo, si configurava come una reazione allo stile pittorico tipico, invece, dell’impressionismo. L’estetica di Roger Fry deriva proprio da quella formalista di Wölfflin: anche per Fry un’opera d’arte è, prima di tutto, un insieme di linee, forme e colori, ed è pertanto sugli elementi formali dell’opera (e non sul contenuto che l’opera rappresenta) che lo studioso dovrebbe basare il suo giudizio. Fry era molto affascinato dall’arte africana: vale la pena sottolinearlo perché questo interesse di Roger Fry può fornirci un esempio per meglio comprendere l’estetica formalista, dal momento che, quando ci troviamo di fronte a un’opera d’arte africana, le nostre impressioni sono basate sulle qualità esteriori dell’opera, piuttosto che su ciò che l’opera rappresenta oppure sul messaggio, incomprensibile ai più, che il manufatto che stiamo osservando vuole trasmettere.
Roger Fry |
Un esempio potrà chiarire meglio. Abbiamo ben presente il Compianto sul Cristo morto che Giotto realizzò nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Nell’articolo del 1901, Fry scriveva che le caratteristiche del dipinto non potevano prescindere dal potente dramma che connota la composizione. Ma nel 1920 lo studioso inglese fornì un’intepretazione ben diversa del capolavoro giottesco: era convinto che le forme fossero indipendenti rispetto al loro significato, e che pertanto fossero di per sé sufficienti a muovere la risposta dell’osservatore. Si potrebbe dunque analizzare questo dipinto solo sulla base dei suoi elementi formali: le linee diagonali che convergono verso sinistra, le solide masse dei personaggi che affollano la scena (e la plasticità delle figure era uno degli elementi a cui Fry attribuiva maggior considerazione nel suo lavoro), la leggerezza degli angeli in volo nel cielo e il loro movimento circolare. Non deve dunque stupire l’aneddoto secondo il quale Fry, trovandosi a tenere una lezione di fronte a una non meglio specificata Crocifissione nella National Gallery di Londra, si riferì al corpo di Cristo sulla croce chiamandolo this important mass, “questa importante massa”. Eppure, anche questo approccio apparentemente così stravagante, in quanto può sembrarci strano che un’analisi debba prescindere dal significato dell’opera, secondo i sostenitori del formalismo comporterebbe notevoli vantaggi, primo tra tutti quello di consentire una lettura dell’opera priva dei pregiudizi che potrebbero derivare proprio dal messaggio di cui l’opera si fa portatrice, oppure dalla nostra reazione emotiva di fronte alla scena che stiamo osservando. E poi consente l’espressione di un giudizio anche a chi non necessariamente conosce il significato dell’opera: e qui torniamo all’esempio dell’opera d’arte africana di cui si parlava poco fa.
Giotto, Compianto sul Cristo morto (1303-1305; affresco, 112 x 73 cm; Padova, Cappella degli Scrovegni) |
Lionello Venturi |
La creatività dell’artista, tuttavia, è vincolata a diversi elementi (che tuttavia possono essere trasformati proprio dalla fantasia creatrice dell’artista): condizionamenti sociali e ambientali, attitudini morali, situazioni storiche, bagaglio culturale e ideali, contingenze e quant’altro. Spesso questi elementi sono comuni a gruppi di artisti che condividono un’epoca o vivono nella stessa regione. È qui, pertanto, che entra in gioco il concetto di "gusto", che Lionello Venturi riformulò in questi termini nel suo saggio Il gusto dei primitivi del 1926: “Questo libro [...] non cerca ciò che individua gli artisti, cerca ciò che li accomuna, non la loro arte, ma il loro gusto. Non so se la parola ’gusto’ sia la più adatta a significare quello che intendo; non ne ho trovata una migliore. E per evitare equivoci, dichiaro che intendo per gusto l’insieme delle preferenze nel mondo dell’arte da parte di un artista o di un gruppo di artisti. Michelangelo preferisce la forma plastica e il corpo ignudo, disprezza il ritratto e il paesaggio e così via: questo è il gusto di Michelangelo. Tiziano preferisce gli effetti cromatici e i vestiti scintillanti, ama il ritratto e il paesaggio e simili: questo è il gusto di Tiziano”. E per chiarire meglio il concetto, Venturi scrisse, nella sua Storia della critica d’arte del 1936: “nessuna di quelle preferenze si identifica con la creatività. Esse accompagnano la formazione dell’opera d’arte, sono comprese nell’opera d’arte, ma quando l’opera d’arte è perfetta esse risultano trasformate dalla creatività, e si possono riconoscere solo se distaccate da quell’insieme, da quel carattere di sintesi, che è proprio della creazione. Questi elementi costruttivi del fatto artistico sono di varia natura, dalla tecnica all’ideale, ma hanno un comune carattere di fronte alla sintesi, alla creazione dell’opera d’arte. Quel comune carattere fu molti anni fa da me chiamato ’gusto’”.
Niccolò di Pietro, San Lorenzo (1420 circa; tavola, 62 x 22 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia) |
Seguace di Melozzo da Forlì, Cristo benedicente (seconda metà del XV secolo; tavola, 112 x 73 cm; Torino, Galleria Sabauda) |
Per concludere, è necessario un ultimo appunto per meglio inquadrare la figura di Lionello Venturi. Per il grande studioso, la fantasia creatrice dell’artista è sempre libera (non a caso, uno dei suoi saggi più importanti s’intitola Per la libertà della fantasia creatrice): di conseguenza, non può essere ingabbiata in schemi precostituiti o, tanto peggio, strumentalizzata. Da questa concezione dell’arte ha probabilmente origine l’impegno civile di Lionello Venturi che lo portò, nel 1931, a rifiutarsi di giurare fedeltà al regime fascista, insieme a uno sparuto gruppo d’intellettuali. Il rifiuto avrebbe comportato la perdita della sua cattedra all’Università di Torino, dove lo studioso all’epoca insegnava: ma, del resto, il giuramento non era compatibile con i suoi principî. Così lo studioso scriveva, per motivare il rifiuto, al rettore dell’ateneo piemontese: “non mi è possibile di impegnarmi a ’formare cittadini devoti al regime fascista’, perché le premesse ideali della mia disciplina non mi consentono di far propaganda nella scuola per alcun regime politico”. Costretto pertanto all’esilio, e rientrato in Italia solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, Lionello Venturi è oggi ricordato anche per la sua notevole statura etica, che andò di pari passo con quella critica e professionale.
Bibliografia di riferimento