Sull'allegoria del “carro-tartaruga” del ciclo ariostesco di Palazzo Besta a Teglio


Il Palazzo Besta di Teglio in Valtellina ospita un enigmatico affresco raffigurante un carro a forma di tartaruga trainato da due popolane: qual è il suo significato? In questo contributo se ne offre una possibile interpretazione basata su alcune direttrici simboliche e sull’ambiente culturale della Valtellina del XVI secolo.

Sul finire del Quattrocento la Valtellina era un territorio soggetto alla Repubblica delle Tre Leghe, una federazione formata da Lega Grigia, Lega della Casa di Dio e Lega delle Dieci Giurisdizioni. Nel 1487 con un esercito proveniente da Coira fatto di circa 7.000 fanti e cavalli la Lega arrivò ad impadronirsi di Tirano, Teglio e Sondrio fino ad allora sotto il duca di Milano, Ludovico il Moro. Il duca, dopo essere in un primo tempo riuscito a reimpadronirsi della valle, nell’anno 1500, a seguito dell’assedio di Novara, dovette cedere anche la Valtellina al re di Francia, Luigi XII. Nel 1512, dopo circa 12 anni di dispotico governo francese, la Valtellina passò di nuovo in mano ai Grigioni che vennero accolti in un primo tempo con sollievo dalle popolazioni locali.

Gli sviluppi politico-istituzionali si intrecciarono con la diffusione delle istanze riformatrici e, soprattutto a seguito della predicazione luterana, con le tensioni sempre più aspre fra Chiesa di Roma e Riformati. Come noto tali inasprimenti sfociarono un secolo più tardi nel famoso e triste episodio del Sacro Macello del 1620. Dagli inizi del Cinquecento la “questione religiosa”, pur con diversa modulazione ed incidenza in base ai luoghi e ai periodi, diventa centrale per gli sviluppi dell’intera Valtellina [Fay&Materietti 2016]. In tale humus culturale e di critica religiosa va inquadrata, ad opinione di chi scrive, la scelta di alcune delle decorazioni del Palazzo Besta di Teglio commissionate da Azzo II e della moglie Agnese Quadrio, ed in seguito , da Anna Travers, moglie protestante di Carlo I Besta.

Il Palazzo Besta di Teglio in Valtellina

Il Palazzo Besta di Teglio (Fig. 1) rappresenta un capolavoro dell’arte rinascimentale lombarda del XV secolo. Posizionato nel mezzo della Valtellina, su di un pianoro alla quota di circa 900 metri sul livello del mare, domina la valle affacciandosi sulle Alpi Orobie. Al suo interno vi sono decori con cicli di affreschi a soggetto biblico, mitologico e storico risalenti al Cinquecento.

Edificato per volere di Azzo I Besta a partire dalla seconda metà del Quattrocento, fu realizzato inglobando edifici medievali di un’antica casa-forte. Saranno poi il figlio Azzo II e la moglie Agnese Quadrio a commissionare le decorazioni pittoriche al suo interno trasformando il Palazzo in una vera e propria corte rinascimentale che vedrà numerosi artisti, uomini d’ingegno e letterati [Beniculturali 2024]. Al completamento dell’apparato decorativo pare partecipasse anche Andrea Guicciardi, patrigno di Azzo II, uomo di cultura e rettore dell’Università di Pavia nel 1498. Il Palazzo rimase dei Besta e dei loro eredi fino al 1726 quando divenne proprietà del console di giustizia Pietro Morelli che apportò alcune modifiche interne come la costruzione delle due stue verso la valle. La proprietà fu in seguito smembrata tra diverse famiglie di contadini che si installarono nell’edificio e lo adattarono ad abitazione, stalla e fienile. Da incuria e abbandono fu salvato nel 1911 da Luigi Perrone e Luca Feltrami che lo fecero acquistare dallo Stato Italiano che finanziò gli interventi di restauro iniziati nel 1912 e terminati nel 1927 [Galletti&Mulazzani 1983].

1. Il Palazzo Besta di Teglio in Valtellina. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia
1. Il Palazzo Besta di Teglio in Valtellina. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia

L’allegoria del carro-tartaruga

All’interno del Palazzo, nella parete sud del salone d’onore, con affreschi ispirati all’Orlando Furioso, nella parte del cosiddetto “ciclo delle allegorie”, è presente un affresco dal potente significato simbolico. Per il suo posizionamento nel ciclo degli affreschi della sala è accettato che faccia seguito o che sia parte delle allegorie della cupidigia. Diversi autori si sono cimentati nell’interpretarne il messaggio, ma vi è un generale consenso che il riquadro rimanga di difficile penetrabilità. Conclude infatti il Prati [Prati 2009]: “Purtroppo gli studi al momento non portano ad una conclusione definitiva, lasciando il problema ancora aperto”.

In una ambientazione bucolica un carro a foggia di tartaruga con le ruote è sormontato da un uomo paffuto e tarchiato recante nella mano sinistra una sfera armillare. Il carro-tartaruga è preceduto da due popolane malvestite, scalze, in parte scarmigliate e che, con grande sforzo, trascinano il medesimo vincolate ad un giogo. Un putto dalle fattezze strane pungola le due popolane inducendole a continuare nello sforzo (Fig. 2).

2. Allegoria del carro-tartaruga all'interno del salone d'onore del Palazzo Besta di Teglio. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia
2. Allegoria del carro-tartaruga all’interno del salone d’onore del Palazzo Besta di Teglio. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia

Secondo il Cotogni, avallato dalla Mazzoni Rajna [Mazzoni Rajna 1983], la scena andrebbe letta in chiave esoterica poiché sarebbe alla conoscenza di questa disciplina “che si deve questa ideazione”. La tartaruga sarebbe simbolo della terra, l’uomo paffuto un Mago bianco che domina la realtà con la conoscenza. Le due donne un messaggio circa il dualismo nelle scelte dell’uomo: scelte fatte o con l’intelletto (donna velata) o trascinati dalle passioni (donna scarmigliata). Il putto rappresenterebbe l’eros “nella sua ipostasi eroica”.

Per il Birolli [Birolli 1976], diversamente, la scena rappresenterebbe una “parodia di un Trionfo” per via delle figure goffe e grottesche della scena. Maria Luisa Gatti Perer [Gatti Perer 1984] avrebbe visto raffigurato l’ozio come capitano dei vizi e già descritto dall’Ariosto come “corpulento e grasso”. Vi è poi l’opinione di Germano Mulazzani [Galletti&Mulazzani 1983] che, dopo aver definito “impegnativa” la spiegazione avvallata dalla Mazzoni Rajna, conclude di non essere “[…] in grado di prendere posizione su questo tema [per lui] del tutto sconosciuto”.

Per quanto suggestive e autorevoli le letture passate, esse mancano a giudizio dello scrivente di una visione d’insieme che combini fra loro tutti gli elementi della scena, contestualizzando la spiegazione nell’unicità del periodo storico nel quale vennero realizzati gli affreschi del palazzo. La tesi presentata di seguito è che l’affresco sia un’allegoria della Chiesa di Roma e dei suoi vizi in un’epoca, il XVI secolo, al culmine della decadenza morale del papato.

Il carro-tartaruga simboleggia la Chiesa di Roma stessa (Fig. 3). Con la scelta della tartaruga, l’artista ha voluto far riferimento ad un animale secolare, lento, e che dà impressione di immutabilità nel tempo. Al pari la Chiesa di Roma era ed è un’istituzione secolare, tendente a preservare nel tempo la propria natura, rigidamente ancorata ai suoi dogmi e che ha inceduto e dominato la scena nei secoli a passo cadenzato e regolare. L’Enciclopedia dei Simboli [L’Universale 2003, voce “Tartaruga”] dice chiaramente che “la tartaruga è l’immagine di un animale che rappresenta una forza nascosta ed è in grado di proteggersi da ogni attacco esterno”. Quale simbolo migliore per un’istituzione sopravvissuta per quasi due millenni? Continua poi: “…per la sua invulnerabilità era il simbolo dell’ordine immutabile”. E ancora: “Nella Patristica, l’animale “che vive nella melma” divenne il simbolo dell’attaccamento alla terra” [L’Universale 2003, voce “Tartaruga”]. Ed è forse questa immagine di legame tutto terreno e di materialità che può sottendere parte della critica che l’ambiente Riformista cinquecentesco muoveva all’istituzione Romana.

In termini di precedenti artistici si fa notare che nella basilica di Aquileia vi è un mosaico pavimentale risalente al IV secolo, rappresentante uno straordinario esempio di arte musiva paleocristiana (il più vasto di tutto il mondo cristiano occidentale). In tale epoca, similmente al periodo della Riforma, il linguaggio simbolico era una necessità per una comunità che usciva da un periodo di atroci persecuzioni e che aveva dovuto comunicare per simboli, apparentemente innocui agli occhi dei pagani, i contenuti della propria fede. In tale mosaico, e più in particolare nell’aula nord teodoriana e nell’aula sud, è presente la raffigurazione di un gallo che lotta con una tartaruga.

3. Particolare dell’affresco sul carro-tartaruga. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia
3. Particolare dell’affresco sul carro-tartaruga. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia

L’interpretazione antica vede simboleggiata in questa lotta l’eterna contesa tra il Bene ed il Male [Giansanti 2012]. In particolare il gallo, solito cantare al sol nascente, era il simbolo del Cristo (lux mundi, si ricordi la sua presenza sopra la croce specie nelle chiese francesi), mentre la tartaruga veniva considerata un simbolo del male. Il suo nome infatti deriva dal greco “tartarouchos”, da cui il latino “tartaruchum”: “abitante del Tartaro”, abitatore degli Inferi, delle tenebre e quindi essere demoniaco. Le abitudini dell’animale d’altra parte favorirono questa connotazione negativa in quanto l’animale vive in letargo durante i mesi freddi e, quando ha paura, si ritrae nel suo carapace. Nel Vecchio testamento la tartaruga è spesso rappresentata come animale impuro e simbolo del male e dell’oscurità: “Tra i piccoli animali che strisciano sulla terra, considererete impuri questi: la talpa, il topo e ogni specie di lucertola,il toporagno, la rana, la tartaruga, la lumaca, il camaleonte”. [Lev. 11:29]. Nel primo secolo dopo Cristo, lo scrittore Seneca classificava la tartaruga come un animale lento e disgustoso. In alcune tavolette Cristiane dei primi secoli della nostra era , si fa riferimento allo “spirito incredibilmente impuro della tartaruga” e le tartarughe venivano spesso rappresentate nell’arte come “la personificazione del male in combattimento” [Toynbee 1973]. San Geronimo, padre della chiesa vissuto a cavallo fra il IV ed il V secolo, riportava che la tartaruga si muove lentamente poiché è “resa grave dal proprio peso…a significare l’ingombrante peccato degli eretici” [Toynbee 1973]. Forse a questa antica simbologia del rettile potrebbe essersi ispirato l’autore dell’affresco di Palazzo Besta nel sceglierlo per rappresentare il carro della Chiesa di Roma visto dalla prospettiva dei Riformisti.

In ultimo si ricorda che su un soffitto di Palazzo Vecchio a Firenze vi è una raffigurazione di una tartaruga con una vela sul carapace e guidata da alcuni putti. Fra essi un putto la tiene al guinzaglio, un altro la pungola da dietro ed un terzo la spinge. Al di sopra dell’affresco sta la scritta “Festina Lente” (affrettati lentamente). La locuzione, unendo due concetti antitetici, velocità e lentezza, stava a indicare un modo di agire senza indugi, ma con cautela. Qui la simbologia, di altra natura rispetto a quella di Palazzo Besta, fa riferimento alla flotta di Cosimo de Medici nel XVI secolo, ed è impiegata come monito di ponderazione delle imprese perché abbiano successo. La tartaruga compare anche qui come simbolo di un incedere lento e prudente.

Con la scelta della tartaruga l’artista ha quindi voluto far riferimento ad un animale secolare, lento, simbolo del male e che da impressione di immutabilità nel tempo. Al pari la Chiesa di Roma era ed è un’istituzione secolare, tendente a preservare nel tempo la propria natura, rigidamente ancorata ai suoi dogmi e che ha inceduto e dominato la scena nei secoli a passo cadenzato e regolare.

Si fa notare che Il carro come allegoria della Chiesa compare più volte nella letteratura ed in particolare nella Divina Commedia. Alla fine del Purgatorio nei canti XXIX, XXX, XXXII e XXXIII Dante sviluppa un’allegoria grandiosa in cui vede avvicinarsi un carro trascinato da un grifone e accompagnato da una processione di sette donne più Beatrice. Il carro poi si trasforma in un mostro con sette teste e dieci corna. Dice il Sapegno [Treccani 2005]: ”Che il carro sia simbolo della Chiesa, è interpretazione concorde di tutti I commentatori antichi; […]”. Durante tale visione Beatrice esorta Dante con le seguenti parole (Pg. XXXII, 100-105):

Qui sarai tu poco tempo silvano;
E sarai meco sanza fine cive
Di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, In pro del mondo che mal vive,
Al carro tieni gli occhi, e quel che vedi,
Ritornato di la, fa che tu scrive.

Come detto dal Sapegno, per tutti i commentatori antichi, senza eccezioni, il carro descritto da Beatrice rappresenta la Chiesa di Roma. E Dante è esortato dalla sua seconda guida (la sofia) a tenere gli occhi fissi sulle vicende terrene di questa istituzione e denunciarne senza sosta gli abusi. Di seguito Dante osserva e descrive la graduale trasformazione del carro-chiesa narrando i suoi episodi storici principali: le eresie, le persecuzioni dei primi cristiani, la “mala” donazione di Costantino (falso storico scoperto nel Quattrocento da Lorenzo Valla) fino alla cattività Avignonese. Quella Roma onde Cristo è romano implicitamente significa che per Dante Cristo non abita la Roma terrena [Soresina 2002]. Sarà infatti proprio il primo vicario di Cristo, l’apostolo Pietro, nel canto XXVII del paradiso a dire del papa e di Roma (Pd. 22-27):

Quelli ch’usurpa in terra Il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
Nella presenza del Figliuol di Dio,
fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e della puzza; onde ‘l perverso
che cadde di qua su, la giù si placa.

Il nano grasso a cavalcioni sulla tartaruga (Fig. 4) è il papa che qui è rappresentato come un uomo sgraziato nelle forme, disarmonico nelle fattezze, basso di statura, ma sorridente e sicuro della direzione verso la quale procede. Già Cesare Ripa (1555-1622) faceva notare che “la rottura degli equilibri e quindi la sproporzione rappresenta il vizio”. Coloro che hanno voluto vedere in quest’allegoria solo una figurazione dell’Ozio hanno grandemente sottostimato la vera portata del messaggio dell’artista. Per traslato l’allegoria vuole sottolineare che per i riformisti dell’epoca i papi hanno spesso dimostrato di abbandonarsi ai vizi, di essere facile preda di bassezze morali, di non essere all’altezza del compito spirituale che avrebbero dovuto avere per la cristianità, ma al contempo di incedere con sicurezza consci del potere quasi assoluto dell’istituzione alla quale appartenevano. I colori del papa sono altresì simbolici: bianco, rosso e blu (scuro). Rosso e blu sono i medesimi colori tipicamente attribuiti alle vesti del Cristo nell’iconografia (si pensi all’ultima cena di Leonardo). Dove il rosso rappresenta l’amore, mentre il blu la spiritualità. Il bianco sotto la veste blu fa riferimento alla purezza. In quest’allegoria stanno ad indicare che queste tre virtù per il nano-papa sono solo una veste, una caratteristica dei panni e della superficie, poiché sotto sta l’essere sgraziato di cui sopra.

4. Particolare dell’affresco sul nano grasso. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia
4. Particolare dell’affresco sul nano grasso. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia

Il nano-papa tiene nella mano sinistra una sfera armillare, simbolo del Cielo. L’immagine sta ad indicare che quell’uomo ha in pugno la gestione dei rapporti degli uomini con il Cielo (da cui “pontifex”), ma l’ha fatto malamente, nel modo sbagliato e per tale ragione l’armilla è nella mano sinistra e non in quella destra. La simbologia destra VS sinistra come indicazione di “giusto” VS “sbagliato” o “morale” VS “immorale” è altresì presente in tutta l’antichità e specialmente in Dante [Soresina 2009]. Basti pensare che praticamente tutto l’inferno è percorso in senso discendente a “mancina” (con poche, ma significative eccezioni), mentre il monte del purgatorio è sempre percorso da Dante in senso ascensionale “a mano destra”. Si consideri, ad esempio, la descrizione di Ulisse quando comincia il “folle volo” oltre le colonne d’Ercole verso il monte del purgatorio (If. XXVI, 124-126):

E volta nostra poppa nel mattino
De’ remi facemmo ali al folle volo
Sempre acquistando dal lato mancino

Questa terzina è carica di simboli chiari circa il procedere nella Direzione “sbagliata” da parte di Ulisse: la poppa rivolta verso il mattino, ossia la barca che si dirige verso occidente, verso la notte (mentre Dante in purgatorio sarà rivolto verso oriente, cfr. Pg. I-20); l’andare verso sinistra, il lato mancino, ossia il lato sbagliato. Mentre Dante in purgatorio dice di volgersi “a man destra” (cfr. Pg. I-22). Il fatto che Ulisse sia andato nella direzione sbagliata è poi testimoniato dalla fine dell’episodio in cui un turbine nato dalla “nova terra” farà inabissare la barca assieme ai suoi navigatori, “com’altrui piacque”. Anche l’arte figurata del rinascimento è piena di riferimenti al concetto destra VS sinistra: si pensi ad esempio al Giudizio Universale di Michelangelo nel quale I dannati stanno alla sinistra di Cristo, mentre coloro che si salvano stanno alla sua destra. O, in ultimo, a quello a cui si riferiscono le scritture quando si dice “qui sedes ad dexteram patris”. L’apostolo Giovanni stesso, colui che Gesù amava, è sempre rappresentato alla destra del Cristo.

Sempre con riferimento alla corporatura del nano-papa si fa notare che la critica a papi e prelati appesantiti nella carne dalle cose terrene e immersi nei vizi è molto presente in Dante. Il poeta nel Paradiso fa dire a Pietro Damiano (Pd. XXI, 130-135) con riferimento agli ecclesiastici ammantati e a cavallo:

Or voglion quince e quindi chi rincalzi
Li moderni pastori e chi li meni,
Tanto son gravi, e chi di retro li alzi.

Cuopron d’I manti loro I palafreni,
Sì che due bestie van sott’una pelle:
O pazienza che tanto sostieni!

L’espressione “Sì che due bestie van sott’una pelle” non ha certo bisogno di ulteriori commenti.

Le popolane dell’affresco (Fig. 5) di Palazzo Besta rappresentano il “popolo bue” (e non a caso sono al giogo) e umile (scalze) che per 1.500 e più anni ha trascinato il carro della Chiesa con infinite sofferenze e privazioni. Si veda in particolare l’espressione di fatica e dolore scolpita sul loro volto. Il fatto poi che l’autore dell’affresco abbia scelto delle donne al traino del carro può essere visto in due prospettive diverse, ma complementari: da un lato sta forse a sottintendere una critica all’approccio misogino e di disprezzo che la Chiesa ha troppo spesso avuto nei confronti del mondo femminile (si pensi al diverso ruolo della donna rispetto all’istituzione ecclesiastica nel mondo protestante). Dall’altro potrebbe significare che il trascinamento dell’istituzione è stato ottenuto facendo leva in parte sul lato emozionale della gente. Il fatto che ne siano state scelte proprio due starebbe forse a rappresentare una delle modalità di comando della Chiesa (mutuata dall’impero Romano), ossia lo sfruttamento dei dualismi e delle divisioni per sfiancare il popolo e governarlo con più facilità.

5. Particolare dell’affresco sulle popolane che trascinano il carro. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia
5. Particolare dell’affresco sulle popolane che trascinano il carro. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia

Prendendo le mosse dalla già citata Mazzoni Rajna [Mazzoni Rajna 1983] è poi possibile porre l’accento sulla scelta dell’artista di rappresentare una delle due donne come velata, mentre l’altra scarmigliata. Il velo tipicamente rappresenta il simbolo dell’allontanamento dal mondo esteriore [L’universale 2003, voce “Velo”], mentre la scarmigliatura può rappresentare il trasporto da parte delle emozioni e la forte influenza dell’elemento terreno/materiale. È come se le due donne che trascinano il carro-Chiesa lo facciano influenzate da due nature diverse e per certi versi diametrali: o per eccesso di distacco dal mondo materiale (iper-spiritualizzazione), o per eccesso di attaccamento alle emozioni e alle cose terrene. In merito a ciò è interessante riportare l’analisi che fa Rudolf Steiner nella “Missione di Michele” [Steiner 1919] circa queste due attitudini opposte della natura umana: “La vita animica di noi uomini è come un giogo di bilancia , in cerca dell’equilibrio tra l’elemento luciferino (si legga intellettuale ed iper-cerebrale nell’accezione di Steiner) da un lato, e l’emento arimanico (si legga materialistico) dall’altro lato”. Affinché l’uomo non sia perduto e viva con pienezza la propria vita, le due attitudini per Steiner vanno equilibrate e bilanciate solo “compenetrandoci dell’impulso del Cristo”. Finché uno solo dei due aspetti sopra menzionati pervade totalizzando gli individui, allora questi saranno schiavi di forze esterne e facilmente assoggettabili a gioghi come quello che vincola le due popolane dell’affresco di Palazzo Besta.

Leonardo da Vinci lancia un simile messaggio a chi osserva il suo Cristo nell’Ultima Cena, rappresentandolo con una mano rivolta verso il cielo ed una verso la terra (come in cielo così in terra). L’immagine sta ad indicare che non si può raggiungere una vita piena se, al pari del Cristo, non si combinano armoniosamente la nostra parte spirituale con quella terrena. L’eccedere in una come nell’altra non ci faranno “approdare a glorioso porto”. Simile è il messaggio nella Scuola di Atene di Raffaello, dove le due figure centrali, Aristotele e Platone, indicano rispettivamente la terra ed il Cielo.

Il putto rappresenta senza dubbio l’eco di un’immagine di innocenza (Fig. 6). Tuttavia tale innocenza è solo apparente, poiché, analizzandolo da più vicino, quel putto è un uomo brutto, di mezza età, stempiato e che, con fare crudele e sadico, pungola le popolane a tirare il carro. Per I riformisti infatti, la Chiesa di Roma infatti ha convinto/spinto il popolo a trascinare il “carro” dando di se un’immagine di innocenza e santità che non è mai corrisposta alla realtà. Una falsa innocenza così come quell’uomo nudo che è a tutti gli effetti un falso putto. Circa i dettagli del volto del putto, non va comunque scartata la considerazione che la sua bruttezza possa derivare anche dalle scarse doti pittoriche dell’artista, un onesto artista di provincia, ma certamente non di prim’ordine nel rendere i dettagli. Nei termini sopra descritti e nell’alveo dello spirito della riforma protestante cinquecentesca, vanno visti, a parere di chi scrive, i simboli codificati dietro l’allegoria del carro-tartaruga nella sala d’onore del Palazzo Besta di Teglio.

6. Particolare dell’affresco sul putto che pungola le popolane. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia
6. Particolare dell’affresco sul putto che pungola le popolane. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia

Ulteriori considerazioni sull’affresco del “carro-tartaruga” e sulla torre di Babele presente nella Sala della Creazione di Palazzo Besta

Su una cosa sono d’accordo quasi tutti coloro che si sono cimentati ad interpretare il ciclo degli affreschi entro il quale questo è collocato, ossia che esso segua due allegorie della cupidigia. Alcuni vi hanno voluto vedere una rappresentazione dell’Ozio al termine della serie della cupidigia. Tuttavia le cose non stanno così a parere di chi scrive.

La cupidigia è ancora centrale anche in questa rappresentazione della Chiesa di Roma, poiché essa era il vizio principale che veniva mosso a tale istituzione, accusata in ambito riformista di interessarsi maggiormente delle cose terrene dimenticando il loro presunto ruolo di tramiti con il Cielo. La cupidigia non a caso sempre nella Divina Commedia viene rappresentata da Dante con la lupa (“che di tutte brame sembrava carca”) che sbarra la strada al poeta all’inizio dell’inferno. La scelta della lupa (e non del lupo!) è un evidente riferimento a Roma e al Papato che all’epoca si identificavano (il simbolo di Roma è la lupa capitolina che ha allattato Romolo e Remo). Per tutto il Medioevo, ma anche oltre, dire Roma e dire papato voleva dire la stessa cosa.

Sembrerebbero confermare quest’interpretazione anche le due tavole del Palazzo Besta precedenti all’allegoria del “carro-tartaruga”, anche loro come questa poste nella parete sud del salone d’onore (verso Roma per un valtellinese che guardi in questa direzione). Esse si riferiscono a quella parte del ciclo ariostesco dove Malagigi descrive le sculture che ornano la fonte del Mago Merlino [Canto XXVI str. 29-47]. Le sculture raffigurano una bestia “odiosa e brutta, ch’avea l’orecchie d’asino, e la testa di lupo e i denti, e per gran fame asciutta: branche avea di leon, l’altro che resta tutto era volpe”. La bestia, una versione sofisticata della lupa di Dante, rappresenta certamente la cupidigia che nella sua apoteosi è caratterizzata dall’ingordigia (lupa) di chi ne è affetto, usa armi come l’astuzia (volpe) e la forza (leone) e s’accompagna sovente con ignoranza e presunzione (asino, nell’accezione negative del suo simbolo). Una sorta di tetramorfo del vizio che nelle tavole del ciclo di Palazzo Besta fa strage di uomini semplici e potenti ed in particolare nella “romana corte” dove “contaminato avea la bella sede di Pietro e messo scandal ne la fede” (str. 32). Ed è quindi proprio della “romana corte”, in piena continuità con le due tavole a cui tutti i critici attribuiscono il senso della cupidigia, che parla e si inserisce anche il “carro-tartauga” oggetto di questo scritto.

Si fa inoltre notare che le lupe nell’antica Roma erano anche le prostitute e questo aspetto si ricollega ad un’altra invettiva pronunciata da Dante nel canto XIX dell’inferno dove, incontrando I papi simoniaci e rivolgendosi a Nicolò III dice (If. XIX, 106-110):

Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
Quando colei che siede sopra l’acque
Puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
Quella che con le sette teste nacque,
E da le diece corna ebbe argomento.

Il “Vangelista” qui è Giovanni, autore dell’Apocalisse, che vede colei che siede sopra le acque (la chiesa) prostituirsi con i re, come era norma per la Chiesa di Roma dell’epoca per mantenere il potere. La chiesa corrotta era la magna meretrix, e tutti i propugnatori di una riforma dei suoi costumi, come i riformisti, lo sottolineavano a gran voce all’epoca. Catari, Rosacroce, Patarini e simili che vennero sterminati nelle persecuzioni. Come accennato in precedenza, viene poi detto che la Chiesa nacque con sette teste ed ebbe come strumento dieci corna. Ovviamente la Chiesa non viene mai menzionata esplicitamente, ma i simboli sono chiari: le sette teste sono i sette colli di Roma e le dieci corna i comandamenti del Decalogo “ai quali essa s’attenne con fedeltà finché fu governata da pontefici virtuosi” [Sapegno 2005]. Sempre nell’Apocalisse di Giovanni la magna meretrix viene anche chiamata Babilonia e ad essa si riferisce un altro affresco presente nella sala della Creazione del Palazzo Besta. L’affresco, sotto riportato, mostra la torre di Babele in fase di costruzione (Fig. 7). Gli affreschi della sala della Creazione vennero eseguiti per volere di Anna Travers, moglie protestante di Carlo I Besta.

La torre di Babele raffigurata ha, da un lato, una notevole somiglianza con il Colosseo (si vedano gli archi come sono disposti in Fig. 8), e dall’altro sorge nei pressi di un obelisco. Si noti anche che il numero di archi alla base del Colosseo a Roma visto di facciata è fra 15 e 16 in funzione della distanza da cui si prende la foto. Il numero di archi alla base della torre di Babele nell’affresco della Sala della Creazione è 15. Una notevole similarità. Mentre non è stato possibile trovare in letteratura associazioni fra Babilonia e gli obelischi, Roma, come noto, oltre ad avere il Colosseo, presenta anche 12 obelischi trafugati dall’Egitto dall’impero romano. Per tali motivi ci sono buone ragioni per credere che l’artista dell’affresco nella Sala della Creazione volesse alludere alla medesima Babilonia/Roma dell’Apocalisse di Giovanni.

7. Costruzione della Torre di Babele, affresco nella sala della Creazione. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia
7. Costruzione della Torre di Babele, affresco nella sala della Creazione. Su concessione del Ministero della Cultura - Direzione Regionale Musei Nazionali Lombardia
8. Immagine del Colosseo a Roma
8. Immagine del Colosseo a Roma. Foto: Wikimedia / FeaturedPics

Il Palazzo Besta di Teglio presenta quindi diversi affreschi portatori di un messaggio di protesta e aspra critica alla Chiesa di Roma dei tempi. L’esigenza di procedere per simboli e allusioni coperte e non esplicite era ovviamente all’epoca dettata dalla necessità di tutelarsi dalle persecuzioni.

Le interpretazioni dell’allegoria basate su presunte raffigurazioni dell’ozio, su “maghi Bianchi” o simili, sono a parere di chi scrive lontane dal vero messaggio che l’autore ha voluto veicolare. Se da un lato tale circostanza ha impedito di veder con chiarezza ciò che stava dietro le immagini, dall’altro si può dire che ha fortunosamente consentito di preservare l’opera da eventuali volontà di censura e cancellazione che avrebbero potuto avere i “padroni del vapore” nei secoli passati. L’arte figurata, così come la scrittura, per il tramite dell’ambiguità dei simboli ha sempre consentito l’espressione di proteste visibili solo a coloro che avevano “occhi per vedere” [Strauss 1990].

Conclusioni

Nel presente lavoro si è voluto analizzare nel dettaglio il significato simbolico nascosto dietro una delle allegorie presenti nel salone d’onore del Palazzo Besta di Teglio. L’affresco, raffigurante un nano a cavallo di una tartaruga-carro, rappresenta a parere dell’autore una feroce critica alla Chiesa di Roma e al papato dell’epoca. Il parallelismo con le raffigurazioni simboliche della Commedia di Dante ha fatto da guida e supporto nell’interpretazione dell’affresco. Il papato, all’epoca del fiorire della corte di Azzo II e della moglie Agnese Quadrio, era certamente visto in ambienti riformisti come un centro di potere sviato nella cupidigia e dimentico del messaggio originale di Cristo.

Ringraziamenti

Desidero ringraziare la professoressa Maria Carla Fay, guida luminosa durante i miei anni di liceo. A lei devo la “scoperta” del Palazzo Besta con i suoi tesori e preziose consulenze durante la stesura del presente scritto.

Ringrazio anche la direzione del Palazzo Besta per aver acconsentito alla pubblicazione delle immagini riportate nel testo.

Un ringraziamento va infine ad uno dei referees della rivista Finestre Sull’Arte per I preziosi commenti che hanno consentito di migliorare notevolmente il presente lavoro.

Bibliografia

Beniculturali, https://museilombardia.cultura.gov.it/musei/palazzo-besta/, 2024.

Birolli Zeno, “Fermo Stella”, in Pittori bergamaschi del Cinquecento, Bergamo, 1976.

Fay Maria Carla, Materietti Alessandro, “L’irruzione del novum in una piccolo corte nel cuore delle Alpi”, in Orlando Furioso, 1516/2016, V Centenario in Valtellina, opuscolo pubblicato con il patrocinio del Ministero per I beni culturali e per il turismo, Sondrio, 2016.

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