Siamo a Milano a cavallo tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo. Il ducato di Ludovico Sforza detto il Moro (Vigevano, 1452 – Loches, 1508) segnò il periodo più fiorente dal punto di vista culturale e artistico della città, che vide nei suoi territori l’avvicendarsi di molti artisti, le cui innovazioni e sperimentazioni permisero loro di avere un ruolo significativo nella storia dell’arte e dell’umanità. Si pensi a Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 – Amboise, 1519), che trascorse qui, alla corte di Ludovico il Moro, molti anni della sua esistenza, dal 1482 al 1499. Il genio si era trasferito a Milano portando con sé da Firenze gli studi naturalistici, in particolare botanici, che sviluppatisi avevano influenzato in maniera decisiva l’ambiente culturale e artistico della città. Ciò valse a quest’ultima il titolo di culla del naturalismo: l’arte diveniva più che mai basata sullo studio e sull’osservazione diretta della natura.
Ne è un esempio la volta della Sala delle Asse nel Castello Sforzesco, realizzata nel 1498 da Leonardo: un pergolato costituito da fronde di gelso, definito anche gelsomoro, allusione al duca di Milano. Gli studi naturalistici vennero perpetuati dagli allievi del genio vinciano, tra cui Francesco Melzi (Milano, 1491 circa – Vaprio d’Adda, 1568/70), Bernardino Luini (Dumenza, 1481 circa – Milano, 1532), Ambrogio Figino (Milano, 1553 – 1608), Cesare da Sesto (Sesto Calende, 1477 – Milano, 1523), i quali possedevano alcuni libri contenenti disegni del loro maestro che testimoniavano la grande attenzione e l’accurata ricerca di Leonardo in quel campo.
Tuttavia, in realtà, questo approfondito interesse per la natura, sia flora che fauna, non fu prerogativa assoluta della città di Milano: in quell’epoca si svilupparono infatti in tutta Europa le indagini scientifiche, ma soprattutto le scienze naturali, in costante espansione grazie alle nuove scoperte geografiche, che avevano condotto all’individuazione di numerosi animali e piante fino a quel momento sconosciuti e che perciò avevano suscitato un interesse ancora più vivo da parte degli studiosi e in generale degli intellettuali. Lo studio e la conoscenza passavano attraverso le illustrazioni scientifiche: un nuovo strumento basato sull’esperienza diretta per esplorare la natura e tutto ciò che la comprendeva, incluso l’uomo. Nacque perciò un particolare fenomeno che consisteva nella commissione, da parte di studiosi, di tavole realizzate ad acquerello o a tempera che raffiguravano animali, arbusti, piante, fiori, e delle quali venivano incaricati artisti specializzati in questo genere; si crearono delle vere e proprie collezioni, che divennero ben presto oggetti di desiderio non solo di intellettuali, ma anche di sovrani e nobili, i quali cominciarono a introdurre nelle loro biblioteche pergamene con stupende immagini naturalistiche, nonché testi scientifici straordinariamente illustrati. Si potrebbe parlare di antesignani delle enciclopedie, illustrati dal vero, spesso nei luoghi specializzati per eccellenza, ovvero gli orti botanici, dove gli artisti raffiguravano, alla presenza di scienziati e di uomini appartenenti all’ambito delle scienze mediche e naturali, piante coltivate, uccelli che volteggiavano nelle voliere e animali locali ed esotici rinchiusi in apposite gabbie. I primi orti botanici esistenti furono quelli di Pisa e di Padova, in collaborazione con le loro università; seguirono poi quelli di Firenze, Oxford, Leida e Bologna, quest’ultimo progettato e reso concreto nel 1568 dal medico e naturalista Ulisse Aldrovandi (Bologna, 1522 – 1605): nell’orto botanico di Bologna, egli riuscì a far crescere numerose piante rare.
In Germania fu Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 – 1528) a seguire questo influsso naturalistico, eseguendo opere a tempera raffiguranti piante, fiori e animali che parevano veri da quanto erano dettagliati. Anche la Firenze dei Medici divenne centro di cultura scientifica e d’illustrazioni naturalistiche: lo testimoniano numerose tavole di pesci e uccelli custodite nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. Artista specializzato in questo genere, e che lavorò nella Firenze dell’epoca medicea, fu Jacopo Ligozzi (Verona, 1549 circa – Firenze, 1627): realizzò grandi tavole botaniche, zoologiche e ittiologiche che mostravano non solo il suo vivo interesse per lo studio di queste specie, bensì anche una straordinaria accuratezza nei minimi dettagli, dalle sfumature di ogni foglia o petalo alle varianti cromatiche di squame, penne o mantelli. Un altro fenomeno diffuso nel Cinquecento a Milano, come nell’intera Europa, era la produzione e la ricerca di oggetti strani, insoliti, “meravigliosi”, che riuniti costituivano vere collezioni enciclopediche bizzarre, definite Wunderkammern, letteralmente “Camere delle meraviglie”. Facevano parte di tali collezioni sia oggetti artificiali che naturali, tra cui dipinti, sculture, strumenti utilizzati in ambito scientifico, antichità, oggetti meccanici, reperti, animali, piante, fiori, minerali, che avevano lo scopo di ricreare in uno o più ambienti il mondo reale, il più completo possibile. E più gli oggetti erano insoliti e addirittura mostruosi, più erano desiderati dai loro collezionisti. L’obiettivo era stupire, meravigliare per la rarità degli oggetti posseduti, poiché provenienti da tempi antichi o da realtà lontane, da mondi appena scoperti e conosciuti, o per la raffinatezza con la quale erano stati prodotti. Tuttavia, le Wunderkammern, spesso affiancate da ricche biblioteche, dovevano assolvere al compito di condurre a una conoscenza universale. Per queste due ragioni gli oggetti maggiormente graditi e ammirati erano quelli in cui natura e arte si combinavano in un tutt’uno.
Agostino Carracci (attr.), Ritratto di Ulisse Aldrovandi (1585 circa; olio su tela, 79 x 62 cm; Bergamo, Accademia Carrara) |
Albrecht Dürer, Lepre (1502; acquerello su carta, 251 x 226 mm; Vienna, Graphische Sammlung Albertina) |
Jacopo Ligozzi, Iride inglese (Iris Susiana L.), Giaggiolo orientale (Iris Xyphium L.) (1577-1587 circa; pietra nera naturale, pigmenti policromi di natura organica e inorganica, su carta con imprimitura a bianco di piombo; Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi) |
Jacopo Ligozzi, Tavole naturalistiche – Gli Uccelli - Cavaliere d’Italia (Himantopus himantopus), Corriere grosso (Charadrius hiaticula), Martin pescatore (Alcedo atthis), Rana verde (Rana esculenta) (1577-1587 circa; pietra nera naturale, pigmenti policromi di natura organica e inorganica, su carta con imprimitura a bianco di piombo; Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli uffizi) |
Domenico Remps, Natura morta a inganno (seconda metà del XVII secolo; olio su tavola, 99 x 137 cm; Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure) |
Vista del Museo di Ferrante Imperato a Napoli, in Ferrante Imperato, Dell’historia naturale…, Vitale, Napoli 1599 (Roma, Biblioteca Universitaria Alessandrina, Y.h.38) |
Questo fu il clima culturale e artistico che influì sulla produzione di Giuseppe Arcimboldi (Milano, 1527 – 1593). Sono già esempi di questo influsso un foglio datato 1553, realizzato perciò quando l’artista si trovava ancora a Milano, dove egli aveva riprodotto una lucertola, una salamandra e un camaleonte essiccato, e una tavola a tempera datata 1562 sulla quale aveva raffigurato una renna.
Quando nel 1562 Arcimboldi venne chiamato a Vienna da Ferdinando I, imperatore del Sacro Romano Impero, per divenire poco più tardi ritrattista ufficiale di corte, pittore e allestitore di spettacoli e feste, era quindi ormai partecipe di tale visione artistica basata sugli studi naturalistici e sull’esperienza diretta, che ritrovò in pieno fermento presso la corte asburgica: anche qui infatti uomini di cultura, intellettuali, medici, botanici, nonché artisti erano accomunati dal grande interesse per questo settore.
Ed è proprio nella corte asburgica, sotto Massimiliano II, primogenito di Ferdinando I, che l’artista eseguì le celebri teste composte delle serie delle Stagioni e degli Elementi: sono queste le opere che fanno di Arcimboldi un artista creatore di bizzarrie. Ritratti di volti, generalmente di profilo, che osservati da vicino rivelano la loro vera composizione: arbusti, fiori, animali e oggetti che legati tra loro per genere si combinano per formare un particolare e insolito profilo. Protagonisti di queste opere sono perciò quegli animali, quelle piante, quei fiori che, fin dalla formazione milanese, il pittore aveva studiato e nei quali si era trovato immerso anche a Vienna. È del 1570 uno dei suoi studi naturalistici più noti, ovvero il disegno raffigurante l’antilope cervicapra, animale che appare inoltre in uno dei fogli pervenuti a Ulisse Aldovrandi, medico e naturalista bolognese suo contemporaneo, per mezzo di Francesco Padovani, medico alla corte di Praga. Tra Arcimboldi e Aldovrandi si creò una sorta di collaborazione indiretta: il secondo attuò all’interno del suo studio e della sua abitazione, al fine di portare avanti le sue ricerche naturalistiche, un vero e proprio museo ricco di collezioni costituite da pezzi provenienti dal mondo animale, dal mondo vegetale e dal mondo minerale. Una Wunderkammer che poteva contare circa venticinquemila reperti dei summenzionati tre regni della natura, di cui diciottomila “diverse cose naturali” e settemila “piante essiccate in quindici volumi”. Gli oggetti gli pervenivano grazie a una fitta rete di medici, docenti, nobili, direttori di orti botanici, ma nella maggior parte dei casi i reperti appartenenti al mondo animale non giungevano nella loro interezza, bensì in frammenti o piccole parti, come becchi, piume, corna, denti e via dicendo. La soluzione per possedere interi gli animali, ma anche vegetali e minerali, e soprattutto per permettere ai lettori dei suoi scritti di vedere ciò di cui si stava trattando, era ricorrere alle illustrazioni realizzate da artisti specializzati. Tra cui lo stesso Arcimboldi: alcuni suoi disegni, come detto, giunsero nelle mani di Aldovrandi tramite Francesco Padovani, medico probabilmente allievo di quest’ultimo. Di questi ne sono pervenuti fino ad oggi solo tre che raffigurano un alcefalo, un’antilope cervicapra, un cefalofo rossiccio, un coati di montagna e un gerboa, tutti animali esotici e tutte repliche d’immagini già eseguite dall’artista. Un ulteriore influsso per l’esecuzione delle teste composte gli provenne da Leonardo: tra le opere del genio si ricordano le teste grottesche, ritratti di vecchi e di donne quasi caricaturali raffigurati solitamente di profilo, che Arcimboldo aveva certamente ben presenti.
Giuseppe Arcimboldi, Autoritratto cartaceo (1575; Grafite e inchiostro su carta, 23,1 × 15,7 cm; Praga, Národní Galerie) |
Giuseppe Arcimboldo, Studio di una lucertola, un camaleonte e una salamandra (1553; acquerello su carta; Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Bibl. Cod. min. 42, fol. 128r) |
Giuseppe Arcimboldo, Renna (1562; acquerello su carta, 158 x 222 mm; Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, KupferstichKabinett) |
Giuseppe Arcimboldo, Alcefalo e Antilope cervicapra (1584; acquerello su carta; Ms. Aldrovandi, Tavole di Animali, V, c. 20, Bologna, Biblioteca Universitaria) |
Giuseppe Arcimboldo, Cefalofo e coati di montagna (1584; acquerello su carta; Ms. Aldrovandi, Tavole di Animali, VI, c. 87, Bologna, Biblioteca Universitaria) |
Le serie delle Stagioni e degli Elementi si caratterizzano per essere colte dall’osservatore come figure di profilo, o meglio volti, che se viste da una certa distanza non appaiono molto insolite nella loro composizione, anche se alquanto grottesche: i tratti del viso sono abbastanza pronunciati, quasi caricaturali. A prima vista si notano nasi, menti e bocche che potremmo dire non passino inosservati: si pensi al naso lungo e ricurvo, oltre che al mento che tende verso l’alto, dell’Inverno custodito al Kunsthistorisches Museum di Vienna e appartenente al ciclo delle Stagioni realizzato tra il 1563 e il 1566, o al grosso nasone dell’Autunno conservato al Louvre e realizzato nel 1573. Di certo non si può non soffermarsi sul mento lungo e appuntito dell’Aria, custodita in una collezione privata e facente parte del ciclo degli Elementi compiuto nel 1566.
Tuttavia, queste figure di profilo, se guardate da vicino, sono di una straordinaria particolarità, che ogni volta lascia incollati alle tele, per lungo tempo, gli osservatori: questi ultimi cercheranno di riconoscere ogni singolo elemento di cui è composto il bizzarro ritratto; scaveranno nelle loro conoscenze naturalistiche per riuscire a definire ogni singola pianta, fiore, arbusto, animale e oggetto raffigurato in questi dipinti, rendendosi conto che proprio quel grosso naso dell’Autunno è in realtà una pera o che lo strano mento appuntito dell’Aria in realtà è la coda di un uccello.
Tante specie animali e vegetali danno vita alle composizioni artistiche di Arcimboldo: fiori e piante per la Primavera, dove un manto fiorito di colore giallo, rosso, rosa, bianco rappresenta la ricca chioma sulla sua testa e un tappeto di margherite e altri fiorellini bianchi costituisce il colletto del suo abito; frutta e ortaggi per l’Estate, dove l’orecchio è in realtà una pannocchia di granoturco e dove un carciofo spunta dritto dal suo abito di frumento. Radici e rami per l’Inverno, in cui il volto piuttosto arcigno si accompagna a capelli di rami di edera e a un collo che è un tronco d’albero con una cavità, mentre uva, zucche e altra frutta e ortaggi tipicamente autunnali compongono l’Autunno, che rimanda al tempo della vendemmia; il vestito è una botte in legno. E ancora: una vasta varietà di uccelli forma la figura dell’Aria, nella quale tante testine con becchi costituiscono la capigliatura dell’uomo ritratto e la variopinta ruota di un pavone gli orna il collo e le spalle; nella Terra si riconoscono elefanti, pecore, stambecchi, scimmie, lepri, cavalli e altri mammiferi, tutti perfettamente disposti a incastro tra loro. Pesci e animali acquatici per l’Acqua, impreziosita da un orecchino e una collana di perle; ceppi ardenti e armi per il Fuoco.
Leonardo da Vinci, Sette teste grottesche (1490 circa; Venezia, Gallerie dell’Accademia) |
Giuseppe Arcimboldi, La Primavera (1555-1560 circa; olio su tavola, 68 × 56,5 cm; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen) |
Giuseppe Arcimboldi, L’Estate (1572; olio su tela, 91,4 × 70,5 cm; Denver Art Museum Collection, lascito dal fondo Helen Dill, inv. 1961.56) |
Giuseppe Arcimboldo, L’Autunno (1572; olio su tela, 91,4 × 70,2 cm; Denver Art Museum Collection, lascito di John Hardy Jones, inv. 2009.729) |
Giuseppe Arcimboldi, L’Inverno (1563; olio su legno di tiglio, 66,6 × 50,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. GG 1590) |
Giuseppe Arcimboldi (?), L’Aria (post 1566; olio su tela, 74 × 55,5 cm; Svizzera, collezione privata) |
Giuseppe Arcimboldi (?), Il Fuoco (post 1566; olio su tela, 74 × 55,5 cm; Svizzera, collezione privata) |
Giuseppe Arcimboldi, La Terra (1566?; olio su tavola, 70,2 × 48,7 cm Vienna, Liechtenstein - The Princely Collections, inv. GE2508) |
Giuseppe Arcimboldi, L’Acqua (1566; olio su legno di ontano, 66,5 × 50,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. GG 1586) |
Le teste composte, a cui appartengono le Quattro Stagioni e i Quattro Elementi, erano state definite per la loro stranezza “ghiribizzi”, “scherzi”, “grilli”, ma analizzate nella loro complessità rivelano tutta la cultura di quel tempo, una cultura intrisa di studi naturalistici dal vero di cui Arcimboldi si era reso partecipe nella sua città natale e che aveva successivamente ritrovato nel corso della sua esistenza a Vienna, dominata dagli Asburgo. E inoltre una cultura che celebrava le stranezze e le bizzarrie, conducendo sempre più nobili, intellettuali e uomini di scienza a desiderarne in numero elevato nelle proprie abitazioni, nelle proprie Wunderkammern. Oltre a ciò, bisogna considerare che queste composizioni artistiche erano celebrazioni del mondo asburgico: nell’Inverno sono raffigurati la corona e la lettera M di Massimiliano II cucita sul mantello di paglia, nel Fuoco la doppia aquila e il collare dell’Ordine del Toson d’Oro, ordine fondato da Filippo il Buono, duca di Borgogna e antenato degli Asburgo, nell’Aria l’aquila e il pavone asburgico.
Anche se l’omaggio più grande alla casata asburgica lo fece con un’intera opera, Vertumno, imponente ritratto realizzato nel 1590 circa e oggi conservato nel Castello di Skokloster a Bålsta, in Svezia, che raffigura, questa volta in posizione frontale e non di profilo, l’imperatore del Sacro Romano Impero Rodolfo II, figlio di Massimiliano II. Uva, meloni, pesche, ciliegie, spighe di grano, fiori e altri elementi naturali compongono il dio delle stagioni e delle metamorfosi; la rigogliosa produzione di frutti e fiori tipici di differenti stagioni e provenienti da aree diverse del mondo celebrano gli Asburgo come regno di infinita prosperità e di benessere.
Giuseppe Arcimboldi, Vertumno (1590; olio su tavola, 70 x 58 cm; Bålsta, Castello di Skokloster) |
L’umanista Gregorio Comanini (Mantova, 1550 circa – Gubbio, 1608) compose addirittura un sonetto su quest’ultima opera di Arcimboldi, pubblicato postumo nel 1609 nel suo Canzoniere spirituale, morale e d’onore. Il sonetto recita: “Qual tu sii, che me guardi / strana, e difforme immago, / e ’l riso hai su le labbra, / che lampeggia per gli occhi, / e tutto ’l volto imprime / di novella allegrezza, /al veder novo monstro, / che Vertumno chiamaro, / neè lor carmi, gli antichi / dotti figli d’Apollo; […] Tempo fu, che confuso / era ’n sé stesso il mondo: / però, che ’l ciel col fuoco, / e ’l fuoco, e ’l ciel con l’aria / eran mischiati, e l’onda/ con l’aria e con la terra, / e col fuoco , e col cielo: / e senz’ordine il tutto / stavasi informe, e brutto”. È confermata qui la bellezza delle cose brutte, l’ammirazione per la bruttezza, in linea con la cultura contemporanea all’autore delle teste composte. Arcimboldi è stato un grande artista che ha saputo cogliere i tratti salienti della sua epoca per introdurli nella sua arte, in modo stravagante; le sue bizzarre opere rimarranno per sempre riconoscibili a tutti, nate da un’eccezionale personalità.
Bibliografia di riferimento
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.