La storia dell’arte è colma di vicende straordinarie, alcune delle quali note ai più, altre invece meno conosciute ma non meno affascinati e degne d’essere raccontate. Sono vicende che riguardano artisti considerati minori, magari perché non sono stati in grado di rinnovare o modernizzare uno stile in maniera decisiva, o perché hanno trascorso la loro esistenza lontani dalla gloria che toccò ai loro colleghi (che poi finirono con l’offuscarne la fama), o ancora perché i mutamenti del gusto ne hanno provocato l’oblio, oppure perché la loro carriera si è svolta fuori dalle grandi capitali dell’arte, in piccoli centri di provincia. Non è quindi detto che piccoli borghi e poco noti non celino tra le loro mura storie incredibili.
Una di queste storie è racchiusa in una teca del Museo del Vetro di Gambassi Terme, una cittadina di cinquemila abitanti nella provincia di Firenze, adagiata sulle colline della Valdelsa, tra boschi secolari e diffuse sorgenti termali. Il 4 aprile del 1603, il borgo dà i natali a Giovanni Gonnelli (Gambassi, 1603 - Roma, 1656), artista destinato a diventare uno dei più singolari scultori del Seicento. Il padre, Dionigi, di professione fa il bicchieraio, ovvero, più semplicemente, lavora il vetro: in questa zona della Toscana i vetrai sono noti, per metonimia, proprio come bicchierai, dacché in passato la produzione era legata soprattutto a scopi pratici e gran parte dei manufatti erano bicchieri o contenitori per olio e vino, prodotti in abbondanza sui colli della Valdelsa. L’arte dei vetrai è radicata a Gambassi fin dai tempi antichi: i documenti attestano la produzione del vetro fin dal XIII secolo, epoca alla quale risale un documento, datato 1276, che ci informa del fatto che a Gambassi e negli immediati dintorni erano attive otto fornaci. Gambassi, in antico, rivaleggiava con Murano, e i vetrai più abili e ricercati riuscivano a condurre una vita molto agiata. È quanto succede a Dionigi Gonnelli, che è uno dei bicchierai più apprezzati di Gambassi. Il piccolo Giovanni può quindi dedicarsi senza alcun problema alla sua passione, quella per la scultura.
Il Museo del Vetro di Gambassi Terme |
Giovanni Gonnelli detto il Cieco di Gambassi, Autoritratto (conservato fino al 1942 in collezione privata a Sesto Fiorentino, poi disperso) |
L’artista evidentemente non sopporta oltre il clima mantovano e decide di far ritorno in patria, dove si trattiene per qualche tempo. La sua fama però non è diminuita, e nel 1637 si trasferisce a Roma, dove ha modo di lavorare per il papa Urbano VIII (al secolo Maffeo Barberini, Firenze, 1568 - Roma, 1644), eseguendo un suo ritratto oggi conservato a Palazzo Barberini. E proprio a Roma, c’è chi non crede che quelle opere così ben condotte siano il prodotto della mano di un cieco. Tanto che, racconta sempre Baldinucci, Giovanni Gonnelli viene messo alla prova. Una “persona di alto affare” chiede quindi allo scultore di lavorare all’interno di una stanza completamente buia, priva del benché minimo bagliore. L’illustre personaggio, non nominato da Baldinucci, deve però ricredersi: il ritratto in terracotta che l’artista esegue al buio è così bello e realistico che “meritò la lode del più bello che fosse dalle sue mani uscito mai fino a quel dì”.
La qualità dei lavori di Giovanni Gonnelli così lodata dai contemporanei è ben attestata dal ritratto di Urbano VIII. Il busto del pontefice è reso con eccezionale naturalismo e aderenza alle reali fattezze del pontefice, i dettagli sono delineati con grandissima cura, l’espressione denota una straordinaria vitalità, il modellato si presta a effetti luministici molto raffinati. Può un’opera tanto realistica essere opera d’uno scultore cieco? È quanto si sono chiesti gli studiosi, divisi tra chi ha preso per buona la datazione al 1637 (ci sono infatti dei pagamenti, registrati quell’anno, che attestano l’esecuzione di un busto per Urbano VIII da parte di Giovanni Gonnelli) ipotizzando che la cecità dello scultore non fosse completa, chi ritiene che l’alta qualità sia dovuta al fatto che l’artista abbia eseguito la copia di un ritratto simile realizzato da Gian Lorenzo Bernini (al quale è in effetti molto somigliante), e chi ha invece preferito anticipare la datazione, dal momento che sappiamo per certo di due ritratti di Urbano VIII eseguiti da Giovanni Gonnelli, uno dei quali conservato presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma: potrebbe esser quest’ultimo il busto cui si riferiscono i pagamenti, mentre quello di Palazzo Barberini potrebbe invece appartenere a un periodo precedente.
Giovanni Gonnelli detto il Cieco di Gambassi, Ritratto di Urbano VIII (1637?; terracotta; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini) |
Quest’ultima ipotesi è quella cui dà credito un’insigne studiosa, Maria Grazia Ciardi Duprè dal Poggetto, alla quale va il merito d’aver pubblicato per prima il busto che oggi il pubblico può ammirare al Museo del Vetro di Gambassi Terme. Si tratta di un’opera comperata nel 1983 dal Comune di Gambassi Terme, che con tutta evidenza non voleva farsi mancare una testimonianza del suo più illustre cittadino, e decise quindi di procedere con l’acquisto della scultura, all’epoca di proprietà di un antiquario di San Gimignano, Paolo Pedani, che dichiarò di averla ricevuta in eredità dalla nonna materna. Una dichiarazione coerente con le vicende della famiglia del soggetto raffigurato, il canonico Francesco Chiarenti: il suo nome è iscritto in latino sulla base del busto (“Franciscus Clarentus canonicus 1640”: 1640 è l’anno di realizzazione). Una sua discendente, Francesca Chiarenti, aveva sposato all’inizio del Settecento un magistrato fiorentino proveniente da una famiglia di San Gimignano, Tommaso Cepparelli: la nonna dell’antiquario era una Cepparelli.
Si tratta di un’opera firmata e datata: Giovanni Gambassi Cieco fece l’anno 1640. E l’appellativo “Cieco” era anche lo stesso con cui l’artista aveva firmato il ritratto di Maffeo Barberini: da quando ha perso la vista, l’artista è infatti noto a tutti come il Cieco di Gambassi. E Giovanni utilizza quasi con orgoglio questo soprannome, quasi a voler dimostrare di non aver niente da temere al confronto con i suoi colleghi cui la vista non fa difetto. Rispetto al busto di Urbano VIII, lo scarto qualitativo è ben evidente: la minor qualità dell’opera è probabilmente dovuta al fatto che l’artista, all’epoca trentasettenne, ha già perso del tutto la vista. Nonostante ciò, non viene meno la grande passione per l’arte, che gli consente di creare ancora ritratti straordinari, che hanno dell’incredibile se si pensa che sono prodotto di un non vedente. Ed è ancora Filippo Baldinucci che ci illustra quale sia il metodo del Cieco di Gambassi. Come primo passaggio, modella con la creta la forma della testa, chiunque sia il soggetto che ha da ritrarre, e fatto questo la mette sopra una tavola, a poca distanza dal suo modello. Il modello deve essere vicino, in modo tale che lo scultore possa toccarlo quanto necessario, ma sempre con estrema delicatezza. Con i primi tocchi, acquisice informazioni sull’altezza e sulla larghezza della faccia, oltre che sulle parti più o meno in rilievo. Quindi, sempre utilizzando solo ed esclusivamente le mani (il tatto di Giovanni si era infatti sviluppato in maniera sbalorditiva), comincia a studiare le labbra, gli zigomi, tutte le parti del volto, con cura e tenendo bene a mente tutto ciò che tocca. Per fissare meglio le proporzioni e per garantire simmetria al risultato finale, l’artista tiene le mani unite, come a formare una specie di maschera da applicare al volto del modello, e da riportare poi sulla forma in creta. E passando sempre dal volto del modello alla creta continua a scavare la materia e a studiare i tratti del soggetto, ad apportare modifiche e a ripassare i tratti, finché non si accorge che il risultato è somigliante. L’ultimo passaggio sono le luci degli occhi: un particolare troppo fine da creare con le mani (al pari di molti altri impossibili da ottenere con le dita). Per fare questo, Giovanni utilizza una cannuccia, con la quale imprime la superficie della creta.
Il risultato di questo metodo è il ritratto, straordinario, oggi conservato al Museo del Vetro di Gambassi Terme. Straordinario da un punto di vista prettamente storico e documentario, perché si tratta di una delle rare opere certe del Cieco di Gambassi. E straordinario perché, osservandolo, quasi non si crede che sia stato realizzato da un cieco. Scrive Maria Grazia Ciardi Duprè dal Poggetto: “un fortissimo senso di vita sprigiona da volumi delimitati da linee mosse ma essenziali: si vedano sia la visione di fronte, che ne testimonia l’ampiezza, sia quella di profilo, che ci permette di valutare la consistenza della terza dimensione - essenziale e aggressiva - dei lineamenti, del pizzetto, dei baffi, del colletto teso e inanimato [...]”. Un ritratto dotato di una “semplificazione assoluta e quasi metafisica”, che rivela una forte “consapevolezza dei nuovi valori stilistici che possono essere determinati dalla cecità”. Le linee sono semplici, mancano gli effetti di luce derivanti dai pieni e vuoti che caratterizzavano il ritratto di Urbano VIII, il ritratto dà molto più l’idea di impressione rispetto a quello eseguito in precedenza: ma si tratta comunque di un qualcosa di unico ed eccezionale.
Giovanni Gonnelli detto il Cieco di Gambassi, Ritratto di Francesco Chiarenti (1640; terracotta, 48,2 x 27,5 x 26,5 cm; Gambassi Terme, Museo del Vetro). Ph. Credit |
Giovanni Gonnelli detto il Cieco di Gambassi, Ritratto di Francesco Chiarenti, vista frontale. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
Livio Mehus, Ritratto di Giovanni Gonnelli detto il Cieco di Gambassi (1655 circa; olio su tela, 200 x 135 cm; Firenze, Collezione Gerini) |
Oggi, quella di Giovanni Gonnelli detto il Cieco di Gambassi è una figura poco nota ai più. Non gli sono mai state dedicate mostre, né esiste una ricognizione monografica completa della sua opera. Il numero di opere riferibili alla sua mano è eseiguo: si tratta soprattutto di busti (tra cui anche due ritratti del granduca Cosimo II de’ Medici), e di alcune opere sacre sparse in chiese della Toscana. Tutte sculture caratterizzate da quelle linee semplici ed essenziali che caratterizzano il busto di Francesco Chiarenti conservato al Museo del Vetro nella città natale dell’artista. Ma nonostante la poca notorietà, chiunque lo conosca non dimentica facilmente la sua storia. Perché è la storia di un pittore che “privo in tutto e per tutto della luce degli occhi, in sola forza della fantasia stessa, congiunta ad una esquisita perfezione avuta da natura nel senso del toccare, fece vedere nell’operar suo in un tempo stesso due meraviglie, l’operar senza luce e ’l condurre colla mano cose degne di molta lode”.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo