Spoliazioni napoleoniche: le ragioni giuridiche e culturali delle asportazioni


Tra il 1796 e il 1815, le armate di Napoleone sottoposero i territori occupati in Italia a ripetute spoliazioni, che condussero in Francia una gran quantità di capolavori. Quali i principali? E quali le ragioni giuridiche e culturali con cui si motivarono le asportazioni?

Quando si associa Napoleone Bonaparte (Ajaccio, 1769 - Sant’Elena, 1821) alla storia dell’arte, il legame più immediato è quello con le spoliazioni napoleoniche, ovvero la lunga sequenza di sottrazioni e requisizioni di opere d’arte che i soldati francesi operarono nei territori conquistati da Napoleone tra il 1796 e il 1815, in diverse aree d’Europa, soprattutto in Italia. È praticamente impossibile stimare quante opere d’arte lasciarono la penisola per raggiungere la Francia, o anche semplicemente il numero di quelle che furono requisite dai territori d’origine e furono sistemate nei musei delle principali città italiane (come la Pinacoteca di Brera o quella di Bologna) selezionati dal regime napoleonico per ospitare i pezzi che lasciavano le loro zone di provenienza: oggi, gran parte di queste opere è rimasta in Francia, altre sono tornate nei luoghi d’origine, altre ancora sono finite presso musei e collezioni in tutto il mondo. Altre, invece, andarono distrutte: emblematico è, per esempio, il caso del Gioiello di Vicenza, l’antico modello in argento della città, offerto come ex-voto alla Madonna di Monte Berico nel 1578, e riprodotto nel 2013 per restituirlo simbolicamente alla città. Secondo lo storico francese Yann Potin, le spoliazioni napoleoniche hanno cambiato per sempre la geografia culturale dell’intera Europa.

A prendere la via della Francia furono dipinti, sculture, disegni, incisioni, libri, manoscritti, medaglie, strumenti scientifici, oro, argento e gioielli, cristalli, tessuti, oggetti di qualsiasi tipo che avessero un interesse economico e culturale. Buona parte delle opere venivano dalle chiese del territorio a seguito delle “soppressioni napoleoniche”, i provvedimenti con i quali gran parte delle istituzioni ecclesiastiche (ordini religiosi, congregazioni, confraternite e simili) venivano cancellate e secolarizzate: i beni venivano dunque requisiti oppure ceduti alle istituzioni civili o al demanio statale. In un primo momento fu Napoleone stesso a pensare di poter selezionare le opere da sequestrare: lo dimostra una lettera che il generale inviò il 1° maggio del 1796 a Guillaume-Charles Faipoult, che ricopriva l’incarico di ministro plenipotenziario francese a Genova, in cui chiedeva a quest’ultimo d’inviargli “tre o quattro artisti noti per scegliere ciò che conviene prendere e portare a Parigi”. In risposta, il Direttorio (ovvero il governo della Francia rivoluzionaria), l’11 maggio, decise di nominare dei “Commissari del Governo per cercare oggetti scientifici e artistici nei paesi conquistati dalle armate della Repubblica”. Il 13 maggio venivano designati quattro commissari, due scienziati e due artisti, anche se tre di loro si rifiutarono di partire. La nuova squadra fu dunque selezionata il 14 maggio, era composta da sei persone, una delle quali sostituita di lì a breve: erano il matematico Gaspard Monge, il chimico Claude-Louis Berthollet, i botanici André Thouin e Jacques-Julien Houtu de La Billardière, l’architetto Jean Guillaume Moitte (che sostituì lo scultore Claude Dejoux) e il pittore Jean-Simon Berthélemy. Molti altri si sarebbero aggiunti in seguito. I commissari, che seguivano l’esercito che si spostava sul territorio italiano, avevano il compito di scegliere le opere da schedare, requisire e spedire in Francia (proprio le chiese furono gli edifici più interessati dai saccheggi). Si trattò di un lavoro lungo, condotto talvolta in maniera meticolosa e talora con modalità grossolane (diverse opere furono pesantemente danneggiate), che privò l’Italia di moltissime opere e che ha contribuito alla fama di Napoleone “ladro d’arte”.

Antonio Canova e bottega, Ritratto di Napoleone Bonaparte (1803-1822?; marmo, altezza 76 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Antonio Canova e bottega, Ritratto di Napoleone Bonaparte (1803-1822?; marmo, altezza 76 cm; San Pietroburgo, Ermitage)

La storia delle requisizioni: quali furono le principali opere che andarono in Francia

Le spoliazioni napoleoniche procedevano di pari passo con la conquista del territorio italiano da parte della Francia: le requisizioni cominciarono dal nord seguendo la direttrice ovest-est. Il Regno di Sardegna fu il primo a subire le spoliazioni, a seguito dell’armistizio di Cherasco, firmato tra le due parti il 28 aprile del 1796: il trattato imponeva al Regno di Sardegna, oltre alla cessione alla Francia di Nizza e della Savoia, all’occupazione di gran parte del territorio, al libero passaggio dell’esercito francese, anche la cessione di cento opere d’arte a titolo d’indennizzo. Tra i maggiori capolavori che presero la via di Parigi vi fu l’Annunciazione di Rogier van der Weyden, oggi divisa tra il Louvre e la Galleria Sabauda. Di lì a poco seguirono Milano e la Lombardia: a farne le spese fu soprattutto la Biblioteca Ambrosiana, dalla quale fu asportato il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, ma anche alcune chiese del territorio subirono sistematici saccheggi. Per esempio, fu portata a Parigi l’Incoronazione di spine di Tiziano, precedente della tela che l’artista dipinse trent’anni più tardi e che oggi è alla Alte Pinakothek di Monaco di Baviera (l’opera requisita dai francesi si trovava nella chiesa di Santa Maria delle Grazie e oggi è al Louvre), e da Mantova fu portata in Francia la celeberrima Madonna della Vittoria, capolavoro di Andrea Mantegna che si trovava nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, anch’essa oggi al Louvre, e sempre a Mantova furono requisiti capolavori del Veronese (come le Tentazioni di sant’Antonio Abate del Duomo, oggi al Musée des Beaux-Arts di Caen) e di Rubens (come la Trasfigurazione della chiesa dei Gesuiti, oggi al Musée des Beaux-Arts di Nancy).

Saccheggi sistematici furono compiuti in Emilia, dove l’esercito napoleonico transitò tra l’estate e l’autunno del 1796: furono spoliate le collezioni estensi e le chiese del territorio, che annoveravano svariate opere di Guido Reni, Annibale Carracci, Ludovico Carracci, Guercino, Lionello Spada, Alessandro Tiarini, Giulio Cesare Procaccini e diversi altri grandi pittori. Le opere probabilmente più famose tra quelle portate in Francia furono l’Estasi di santa Cecilia di Raffaello, conservata nella chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna e spedita in Francia nel 1798, e la Strage degli innocenti di Guido Reni che si trovava nella chiesa di San Domenico a Bologna: entrambe le opere furono poi restituite e oggi si trovano presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. A Piacenza non fu risparmiato il Duomo. Il 19 febbraio del 1797 la Francia firmò con lo Stato della chiesa il Trattato di Tolentino, che tra le clausole prevedeva, anch’esso, la cessione di numerose opere d’arte dei territori pontifici. Roma fu privata di molte opere di pregio, tra quelle antiche (come il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere e il Torso del Belvedere, la Venere capitolina, poi tutte rientrate dopo la Restaurazione) e quelle moderne, a cominciare dai dipinti di Raffaello (la Trasfigurazione tra le altre) e altri grandi artisti (per esempio la Pala dei Decemviri e lo Sposalizio della Vergine del Perugino, la Pala Montefeltro di Piero della Francesca che è oggi a Brera, l’Annunciazione di Federico Barocci): molte opere confiscate nei territori pontifici rientrarono dopo il 1815 grazie all’operato di Antonio Canova, inviato a Parigi da papa Pio VII come commissario incaricato di recuperare le opere sottratte dai francesi durante l’occupazione.

Molto dolorose furono anche le spoliazioni a cui fu sottoposta la Repubblica di Venezia, che dopo il Trattato di Campoformio, firmato il 17 ottobre del 1797, perse peraltro la sua indipendenza, dal momento che la Francia la cedeva all’Austria in cambio del riconoscimento della Repubblica cisalpina. Gli austriaci si insediarono nella città il 18 gennaio del 1798: nel frattempo, i francesi avevano portato via tutto il possibile. Furono tirati giù dalla basilica di San Marco i suoi celeberrimi cavalli in bronzo, il tesoro della basilica venne fuso, il Bucintoro fu smantellato per ricaverne oro da fondere, e poi chiese, palazzi e conventi furono sottoposti a sistematiche spoliazioni che convogliarono verso la Francia un grande tesoro di opere d’arte, a cominciare da un’opera famosissima come le Nozze di Cana del Veronese, oggi sistemate al Louvre nella parete opposta rispetto a quella della Gioconda di Leonardo da Vinci, o come gli spettacolari dipinti che il Tintoretto eseguì per la Scuola Grande di San Marco, poi rientrati in Italia. Proprio a Venezia terminò la prima ondata di spoliazioni, ma altre si sarebbero abbattute sull’Italia negli anni successivi: la Toscana, per esempio, che fu risparmiata tra il 1796 e il 1797, fu anch’essa sistematicamente spoliata, una prima volta nel 1799 e quindi di nuovo tra il 1811 e il 1813 (l’opera toscana “simbolo” delle requisizioni è la Maestà di Cimabue oggi al Louvre, ma altre opere furono trasferite a Parigi: le Stimmate di san Francesco di Giotto che si trovavano a Pisa, la Pala Barbadori di Filippo Lippi, senza calcolare i numerosi oggetti delle collezioni medicee, come la Velata di Raffaello). A Roma i commissari francesi tornarono tra il 1798 e il 1799, la Liguria fu di nuovo saccheggiata nel 1811, a Napoli i francesi arrivarono nel 1802, Parma e alcuni territori già pontifici subirono nuove spoliazioni nel 1811.

Andrea Mantegna, Madonna della Vittoria (1496; tempera su tavola, 280 x 166 cm; Parigi, Louvre)
Andrea Mantegna, Madonna della Vittoria (1496; tempera su tavola, 280 x 166 cm; Parigi, Louvre)


Raffaello, Estasi di santa Cecilia (1518; olio su tavola trasportata su tela, 236 x 149 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Raffaello, Estasi di santa Cecilia (1518; olio su tavola trasportata su tela, 236 x 149 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)


Guido Reni, Strage degli Innocenti (1611; olio su tela, 268 x 170 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Guido Reni, Strage degli Innocenti (1611; olio su tela, 268 x 170 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)

Le ragioni giuridiche delle spoliazioni napoleoniche

Le spoliazioni che i soldati di Napoleone eseguirono nei vari territori occupati erano legittimate giuridicamente dalle clausole che la Francia imponeva ai paesi sconfitti durante la guerra. Per esempio, l’armistizio di Bologna, che fu redatto in francese e firmato il 23 giugno del 1796, all’articolo 8 stabiliva che “Il papa consegnerà alla Repubblica francese cento dipinti, busti, vasi o statue a scelta dei commissari che saranno inviati a Roma, e tra questi oggetti saranno compresi il busto in bronzo di Giunio Bruto e quello in marmo di Marco Bruto, entrambi situati nel Campidoglio, e cinquecento manoscritti scelti dai detti commissari” (la traduzione dal francese è nostra). Ancora, ecco le condizioni stabilite dal trattato di Tolentino per le opere d’arte, all’articolo 13, che confermava quanto stabilito a Bologna: “L’articolo 8 del trattato di armistizio firmato a Bologna, riguardante i manoscritti e gli oggetti d’arte, sarà eseguito nella sua interezza, e al più presto possibile”.

La richiesta di indennizzi di guerra in opere d’arte era una novità del tutto inedita, introdotta con l’armistizio di Cherasco, come lo stesso Napoleone ebbe modo di sottolineare, in un pensiero riportato in un saggio dello studioso Sergio Guarino e pubblicato nel catalogo della mostra Il Museo Universale. Da Napoleone a Canova (tenutasi alle Scuderie del Quirinale di Roma dal 16 dicembre 2016 al 12 marzo 2017 e dedicata proprio al tema delle spoliazioni napoleoniche e della nascita del museo moderno): “desideravo esigere, nel trattato che abbiamo appena concluso”, avrebbe confidato il generale a uno dei ministri plenipotenziari del Regno di Sardegna poco dopo la firma del trattato di Cherasco, “un bel quadro di Gerrit Dou che è di proprietà del re di Sardegna, e che è ritenuto il capolavoro della scuola fiamminga; però non ho saputo collocare questo dipinto in un armistizio, ho temuto che sembrasse una novità bizzarra”. Una novità bizzarra che però divenne poi una prassi consuetudinaria, e la clausola che prevedeva risarcimenti in opere d’arte fu abitualmente inserita nei trattati con i paesi occupati, in modo che lo spostamento in Francia delle opere d’arte avesse una legittimazione giuridica. Per i paesi che avevano subito i saccheggi non fu semplice, dopo la Restaurazione, tornare in possesso delle opere, e gli Stati che cercarono di far rientrare le opere (spesso riuscendoci, anche se nessuno fu in grado di riportare tutto nei luoghi d’origine) dovettero ingaggiare complicate battaglie legali, ma alcuni riuscirono comunque a dimostrare la nullità delle clausole imposte da Napoleone oltre alle violazioni che gli stessi francesi avevano commesso durante l’occupazione (molte opere infatti furono asportate in violazione degli stessi trattati firmati coi paesi occupati).

Raffaello, Trasfigurazione (1518-1520; tempera grassa su tavola, 410 x 279 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca Vaticana)
Raffaello, Trasfigurazione (1518-1520; tempera grassa su tavola, 410 x 279 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca Vaticana)


Perugino, Sposalizio della Vergine (1501-1504; olio su tavola, 234 x 186 cm; Caen, Musée des Beaux-Arts)
Perugino, Sposalizio della Vergine (1501-1504; olio su tavola, 234 x 186 cm; Caen, Musée des Beaux-Arts)


Piero della Francesca, Pala Montefeltro (1472-1474; tempera su tavola, 251 x 172 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Piero della Francesca, Pala Montefeltro (1472-1474; tempera su tavola, 251 x 172 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)


Paolo Veronese, Nozze di Cana (1563; olio su tela, 666 x 990 cm; Parigi, Louvre)
Paolo Veronese, Nozze di Cana (1563; olio su tela, 666 x 990 cm; Parigi, Louvre)

Le ragioni culturali delle spoliazioni napoleoniche

“Se la scelta di Bonaparte di legittimare il trasferimento in Francia delle opere d’arte con espliciti articoli dei trattati diplomatici può apparire come un’intuizione quasi improvvisa”, ha scritto il summenzionato Guarino, “più lungo e complesso era stato il percorso che aveva portato la Francia rivoluzionaria a giustificare un tale sequestro di massa”. E la giustificazione principale, al di là dell’escamotage giuridico, era quella culturale: già alcuni anni prima, il 15 dicembre del 1791, il rivoluzionario Arnauld-Guy de Kersaint, in un discorso sui monumenti pubblici pronunciato a Parigi, sosteneva che la Francia doveva diventare il faro mondiale dell’arte: “che Parigi diventi un’Atene moderna, e che la capitale degli abusi, popolata da una razza di uomini rigenerati dalla libertà, diventi grazie a noi la capitale delle arti”. E in questo senso anche le opere d’arte dei paesi occupati venivano in certo senso “liberate” dall’oppressione dell’ignoranza. Per comprendere il punto di vista dei francesi occorre dunque comprendere quale fosse, a quell’epoca, l’idea più diffusa sul patrimonio artistico. Il secolo aveva maturato l’idea che le antichità e le arti fossero, ha scritto lo studioso Valter Curzi, “uno strumento indispensabile per l’educazione e l’affinamento dello spirito, componente non secondaria, inoltre, nella promozione dell’immagine di governi illuminati. Sottratte alla logica di semplici beni di lusso o di oggetti legati al culto, le opere d’arte e, più in generale, la produzione artistica divengono lo specchio del grado di civiltà di una nazione e nell’Europa dei Lumi funzionali all’aspirazione dei paesi culturalmente più avanzati di farsi interpreti e divulgatori di valori universali”. Di qui anche la diffusione d’un nuovo tipo d’istituzione, il museo, il cui compito, secondo il modo di pensare di quel tempo, era quello di catalogare e ordinare i modelli del passato, “creando un repertorio di forme e d’immagini indispensabili nella creazione artistica e nalla formulazione dell’estetica contemporanea”, scrive ancora Curzi.

La radicalizzazione di queste idee portò dunque i francesi a sentirsi legittimati a riscattare le opere dei popoli vinti, e particolarmente esemplificativi in tal senso sono due discorsi, entrambi risalenti al 1794. Il primo fu pronunciato dal pittore Jean-Baptiste Wicar (Lille, 1762 - Roma, 1834) il 6 marzo del 1794. Si trattava della presentazione di un rapporto sullo stato conservativo dei calchi conservati nelle Sala delle antichità del Louvre (Rapport sur les figures antiques qui sont au Muséum), in cui si poteva leggere questo passaggio: “Venerabile Antichità! Ispiraci il vero carattere, il solo degno di rappresentare la libertà e l’uguaglianza, e guarda già ciò che accade a causa del disprezzo che noi abbiamo per le produzioni dei barbari, complici della servitù e della tirannia e il cui annientamento seguirà presto quello del trono”. Il secondo discorso, ancora più esplicito, è quello che il pittore Jacques-Luc Barbier (Nîmes, 1769 - Passy, 1860), luogotenente nell’armata del Nord durante la campagna delle Fiandre, tenne davanti alla Convenzione Nazionale il 20 settembre del 1794, dopo che la regione aveva subito le prime razzie di opere d’arte: “I frutti del genio sono patrimonio della libertà”, disse Barbier, giustificando su basi ideologiche i furti francesi in terra fiamminga. “Per troppo tempo questi capolavori sono stati insudiciati dalla vista della servitù: è nel seno dei popoli liberi che deve restare la traccia degli uomini celebri; i pianti della schiavitù sono indegni della loro gloria, e gli onori dei re turbano la pace delle loro tombe. Le opere immortali di Rubens, Van Dyck e degli altri fondatori della scuola fiamminga, non sono più in una terra straniera, sono oggi depositate nella patria delle arti e del genio, nella patria della libertà e della santa uguaglianza, nella Repubblica francese. È qui, al Museo Nazionale, che lo straniero verrà a istruirsi”.

I carichi di opere conquistate nei paesi stranieri confluivano dunque su Parigi dove poteva compiersi, sulla base di questa visione ideologica, il progetto di un museo universale (il Musée National, poi diventato Musée Napoléon), con sede al Louvre, che riunisse i capolavori del genio di tutte le terre e si ponesse l’obiettivo di educare il popolo: l’opera d’arte, dunque, veniva per la prima volta investita di un nuovo significato, e l’esperienza napoleonica, per quanto abbia causato drammatiche perdite in tutte le terre nelle quali l’armata napoleonica si spinse, fu anche alla base della democratizzazione della cultura per la quale “l’esperienza napoleonica segnò un passaggio di fondamentale importanza e l’eredità più preziosa rimase proprio nella concezione e nell’organizzazione culturale del museo e del suo ruolo sociale” (così Curzi).

Cimabue, Maestà (1280 circa; tempera su tavola e fondo oro, 424 x 276 cm; Parigi, Louvre)
Cimabue, Maestà (1280 circa; tempera su tavola e fondo oro, 424 x 276 cm; Parigi, Louvre)


Giotto, Stimmate di san Francesco (1295-1300; tempera e oro su tavola, 313 x 163 cm; Parigi, Louvre)
Giotto, Stimmate di san Francesco (1295-1300; tempera e oro su tavola, 313 x 163 cm; Parigi, Louvre)


Raffaello, La Velata (1515-1516; olio su tela trasposta da tavola, 82 x 60,5 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina)
Raffaello, La Velata (1515-1516; olio su tela trasposta da tavola, 82 x 60,5 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina)

L’opposizione al progetto della Francia

Il progetto della Francia rivoluzionaria, fatto proprio in seguito da Napoleone, ebbe però anche alcune voci contrarie. Per esempio, il diplomatico François Cacault (Nantes, 1743 – Clisson, 1805), a seguito della firma del Trattato di Tolentino non si peritò di esprimere i suoi dubbi sull’opportunità dei saccheggi in una corrispondenza col ministro degli esteri Charles-François Delacroix: “sarà difficile”, argomentava Cacault, “togliere al popolo di Roma i suoi monumenti, ai quali è molto attaccato, e i commissari inviati per sceglierli, se andranno da soli, rischieranno certamente di essere assassinati. I più bei pezzi di Roma sono così conosciuti che non hanno affatto bisogno di commissari che li scelgano”.

Tra le voci contrarie, a spiccare più alta delle altre fu quella di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy (Parigi, 1755 - 1849), il più fiero avversatore francese delle spoliazioni, che con le sue Lettres sur le préjudice qu’occasionneroient aux arts et à la science, le déplacement des monumens de l’art de l’Italie, le démembrement de ses Ecoles, et la spoliation de ses collections, galeries, musées, & c. (note anche come Lettres à Miranda dal nome del loro destinatario, il generale venezuelano Francisco de Miranda) espresse tutto il suo disappunto sui saccheggi operati a danno dei popoli vinti: ancora oggi, le Lettres à Miranda costituiscono uno dei testi più importanti in fatto di tutela dei beni culturali, in quanto ha contribuito alla formazione dei concetti moderni di bene culturale, contesto, patrimonio artistico.

Erano diversi i punti che Quatremère de Quincy contestava alla politica culturale rivoluzionaria. Intanto, non era possibile, secondo il politico e filosofo francese, arrogarsi un diritto o un privilegio esclusivo sui mezzi d’istruzione, perché questo modo di “educare” a sua volta violava la libertà: rimuovere le opere dalle aree d’origine significava pregiudicare la possibilità che le popolazioni dei territori avessero dei modelli cui guardare, dei punti di riferimento coi quali istruirsi. Di conseguenza, in maniera paradossale, la nazione che aspirava a istruire il popolo, si rendeva in realtà complice dell’ignoranza: “Se voi convenite sulla sola possibilità del pregiudizio che porterebbe all’istruzione generale dell’Europa il dislocamento dei modelli e delle lezioni che la natura per sua volontà onnipotente, ha posto in Italia, e soprattutto a Roma”, scriveva Quatremère de Quincy, “voi converrete anche sul fatto che la nazione che se ne rendesse colpevole verso l’Europa, che contribuirebbe a rendere ignorante, sarebbe anche la prima ad essere punita dall’ignoranza stessa dell’Europa, che ricadrebbe su di lei”. Quatremère de Quincy è altresì uno dei primi pensatori a insistere sull’importanza del contesto di appartenenza delle opere: non è possibile, né pensabile, né utile smembrare i contesti a cui appartengono le opere d’arte, che sono insostituibili. Portare via arbitrariamente un’opera significa menomare il contesto e pregiudicare la possibilità di comprensione. Inoltre, anche l’idea di portare le opere di tutte le scuole del mondo in un unico museo era vista da Quatremère de Quincy come un proposito velleitario: “è una follia”, scriveva, “immaginare che si possano produrre, attraverso esempi di tutte le scuole di pittura riuniti in un magazzino, gli stessi effetti che quelle scuole producono nei loro paesi”. Il filosofo auspicava, piuttosto, la creazione di musei diffusi sul territorio che affiancassero i contesti: il vero “museo”, a suo avviso, non era soltanto l’edificio in cui venivano raccolte le opere, ma anche l’insieme dei luoghi, dei siti, delle strade, delle relazioni tra gli oggetti che s’instaurano sul territorio.

Nella Francia rivoluzionaria destinata a diventare l’Impero di Napoleone si scontravano dunque due idee, quella del museo universale ufficialmente perseguita, e quella del museo diffuso propugnata da Quatremère: all’epoca, il modello vincitore fu tuttavia il primo, e non solo perché le spoliazioni continuarono imperterrite fino alla fine dell’impero, ma anche perché l’idea incarnata dal Louvre fu presto presa a esempio in altri paesi europei. “Il grande Museo di Napoleone”, ha scritto lo storico dell’arte Paul Wescher, “non finì tuttavia con la dispersione materiale dei suoi capolavori. Il suo esempio stimolante gli sopravvisse a lungo, contribuendo in modo decisivo alla formazione di tutti i musei europei. Il Louvre, museo nazionale di Francia, aveva dimostrato per la prima volta che le opere d’arte del passato, anche se raccolte dai principi, appartenevano in realtà ai loro popoli, e fu questo principio (con l’eccezione della collezione reale britannica) a ispirare i grandi musei pubblici dell’Ottocento”. E, forse paradossalmente, i saccheggi dei francesi ebbero anche l’effetto di risvegliare l’attaccamento dei popoli vinti al loro patrimonio: “Il ritorno delle opere d’arte trafugate ebbe poi, di per se stesso, un effetto notevole e inatteso”, scrive Wescher: “confondendosi col clima di entusiasmo patriottico suscitato dalla vittoria e dalla liberazione, esso contribuì a creare la coscienza di un patrimonio artistico nazionale, coscienza che nel Settecento non esisteva”.

Bibliografia di riferimento

  • Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce, Il Museo Universale. Da Napoleone a Canova, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, dal 16 dicembre 2016 al 12 marzo 2017), Skira, 2016
  • Nora Gietz, Tracing Paintings in Napoleonic Italy: Archival Records and the Spatial and Contextual Displacement of Artworks in Artl@s Bulletin, 4, no. 2 (2015), art. 6
  • Cathleen Hoeniger, The Art Requisitions by the French under Napoléon and the Detachment of Frescoes in Rome, with an Emphasis on Raphael in CeROArt. Conservation, exposition, Restauration d’Objets d’Art, HS (11 aprile 2012)
  • Yann Potin, Kunstbeute und Archivraub. Einige Überlegungen zur Napoleonischen Konfiszierung von Kulturgütern in Europa in Bénédicte Savoy, Yann Potin (a cuta di), Napoleon und Europa. Traum und Trauma (catalogo della mostra, Bonn, Kunst-und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland, dal 17 dicembre 2010 al 25 aprile 2011), Prestel, 2010, pp. 91-99
  • Sabir Lubliner-Mattatia, Monge et les objets d’art d’Italie in Bulletin de la Sabix. Société des amis de la Bibliothèque et de l’Histoire de l’École polytechnique, 41 (2007), pp. 92-110
  • Veronica Gabrielli, Patrimoni contesi. Gli Stati italiani e il recupero delle opere d’arte trafugate in Francia. Storia e fonti, Polistampa, 2009
  • Paul Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Einaudi, 1988

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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