Una ricerca che mette assieme scultura, architettura e pittura tra fragilità e leggerezza. È quella di Valdi Spagnulo: nato a Ceglie Messapica (Brindisi) nel 1961, ha trascorso la sua prima infanzia a Grottaglie, località nota per la produzione della ceramica artigianale e artistica, frequentando l’ambiente creativo ed intellettuale dell’area pugliese e non solo sin da giovanissimo, grazie a suo padre, l’artista Osvaldo Spagnulo. Nel 1973 con la famiglia si trasferisce a Milano, aprendosi all’ambito europeo con viaggi in Francia, Germania, Svizzera, e iniziando studi artistici dapprima al Liceo Artistico di Brera, poi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove si laurea nel 1984. Parallelamente, l’inizio degli anni Ottanta segna il suo esordio come pittore e l’avvio di una fitta attività espositiva, fra cui si segnalano le lunghe collaborazioni dapprima con la Galleria delle Ore di Giovanni Fumagalli, poi con Spaziotemporaneo di Patrizia Serra, oltre a numerose altre personali e partecipazioni a collettive presso altri spazi espositivi. Nel 2001 riceve il primo Premio per la Pittura dell’Accademia di San Luca a Roma. Vive e lavora principalmente a Milano e svolge l’attività di docente per la cattedra di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Valdi, l’arte viene dal sangue, il che talvolta può portare ad odiarla profondamente o al suo esatto contrario può aprire un amore viscerale. Ti volevo chiedere di raccontare la tua infanzia e il modo in cui si è manifestato il tuo interesse per l’arte, gli episodi, le persone, gli incontri e gli oggetti che hanno propiziato questo incontro...
Caro Gabriele, il mio contatto con il mondo delle arti visive risale realmente al periodo della mia infanzia. Purtroppo o per fortuna, a tutt’oggi pur avendo superato la soglia dei sessant’anni, non so se ritenermi fortunato o dannato nell’esser nato figlio d’arte. Mio padre è stato Osvaldo Spagnulo (conosciuto ai più come “il pittore del fuoco”), la sua forte quanto ingestibile personalità e la sua complessa quanto originale produzione pittorica ha certo creato gioie e dolori nella mia complessa esistenza. Un’esistenza che, sin dalla tenera età di cinque anni, mi ha visto direttamente partecipe attaccato ai lembi del suo sgargiante abbigliamento in studio mentre dipingeva, mentre progettava mostre, mentre spediva le opere nelle casse ai premi, alle Quadriennali… Insomma partecipe… mentre crescevo… e l’odore dei pigmenti ad olio, degli smalti, delle polveri, della benzina, della trementina e solventi vari… delle misture che creava per le combustioni… tutte quelle tossicità che anno segnato la sua arte hanno sin da subito fatto parte della mia vita. Il contraltare alla fase elaborativa che come puoi immaginare ha avuto un fascino determinante del voler fare, è stato il mondo della cultura, critici, artisti (pittori, scultori, fotografi, poeti, scrittori, musicisti…), galleristi, direttori di musei, modelle, ceramisti… insomma tutto quell’entourage che può far parte di questo mondo. Sì perché è di un vero e proprio maledetto mondo quello di cui stiamo parlando. Di qualcosa che dannatamente, drammaticamente, energicamente ti entra dentro dalle peculiarità alle avversità delle vite di chi ti si affianca… perché, è con tutta questa variopinta complessità che ti troverai a vivere a sopravvivere. Almeno così è stato per me. Ricordo ad esempio con piacere un incontro agli inizi degli anni Settanta a Taranto, avevo dieci anni circa, in un bellissimo appartamento che affacciava sul lungo mare a casa dell’artista Michele Perfetti (Poesia Visiva), che scrisse in quel periodo un testo per il catalogo di una mostra di papà… a distanza di quasi 45 anni ho incontrato il figlio di Perfetti a Ferrara, un’emozione immensa. Oppure le mostre al Circolo Italsider di Taranto ove da piccolo conobbi alcuni di quelli che sarebbero diventati i maestri di oggi (Pino Spagnulo, Pietro Coletta, Nicola Carrino…). Poi il mare con i suoi luoghi segreti lungo le scogliere, ove si andava per nuotare ma, anche per invecchiare nella profondità delle acque, oltre che con le combustioni le ceramiche che papà realizzava come produzione parallela ai dipinti. Per non parlare delle varie visite alle botteghe di Grottaglie (cittadina ove abitavamo), dei ceramisti grandi artigiani della produzione tradizionale popolare e quella degli sperimentatori… tutti grandi amici ed estimatori di Osvaldo. Sì, una figura ingombrate mio padre ma, al contempo mi ha permesso di vivere da piccolo un ambiente, un Humus sociale variopinto. Poi nel 1973 il grande salto… da Grottaglie a Milano, da una realtà calda ma allora molto provinciale, alla Milano del triangolo industriale… avevo appena 12 anni e mi ritrovai da un luogo di circa 25.000 anime in una metropoli che allora, hinterland compreso, contava quasi due milioni di abitanti ed era il motore italiano con il rapporto del resto d’Europa e del mondo. Quella che da lì a poco diverrà alle cronache la Milano della grande stagione politica della contestazione post-68, della delinquenza organizzata, delle BR… tutti fattori che ebbero sulla mia crescita una forte componente di rivalsa culturale, politica, legata anche alle arti visive… Frequentazione dei vari ambienti cult a Brera, bar Jamaica, il Jazz 2 e molti altri sino a notte fonda nonostante la giovane età adolescenziale ma. Osvaldo era lì con me a vegliare su quella frenetica spensieratezza che celava il tormento del voler fare il suo stesso mestiere. In tutto questo alla difformità di una vita apparentemente irregolare un grande ruolo lo ha avuto mia madre Margherita la quale, con la sua regola ad arte della vita, teneva da donna le fila logiche di cotanta sregolatezza. Ecco, questa è stata la mia iniziazione al mondo dell’arte o per meglio dire delle arti visive per lo più, che hanno avuto amori profondi per la poesia e per la musica, ricordo con emozione e particolare piacere la fuga da casa per partecipare nel 1974 al Raduno Pop di Re Nudo al Parco Lambro di Milano ove il modo della libertà di pensiero e d’azione con PFM, Area, Battiato, Sorrenti, Stormy Six, eccetera... e le mostre di Carlo Ramous in piazza del Duomo con opere ambientali, quelle alla Galleria del Milione, Dorfles e Munari, Dario Fo e la palazzina Liberty… insomma coinvolto, straniato e affascinato dal fermento di idee e dalla libertà del fare… fare Arte.
Quale è stato il tuo iter di studi e che rapporto avevi con la scuola?
Caro Gabriele ti dico subito che il mio rapporto con la scuola di ogni ordine e grado è stato sin da subito a dir poco conflittuale. Non mi piaceva la scuola, non avevo voglia di andarci e ho avuto insegnanti e docenti che nella maggior parte dei casi non mi stimolavano ed incuriosivano così come invece le incursioni dal mondo esterno erano capaci di fare. Chiariamoci, ho avuto anche io dei docenti che sono stati punto di riferimento e riflessione, ma li ho forse meglio capiti e riconosciuti in questo ruolo a posteriori. Nel campo delle arti visive ho avuto il primo approccio alle scuole medie fatte a Grottaglie ove nelle materie di Educazione Artistica ed Educazione Tecnica si lavorava spesso con la ceramica data la natura e le origini di questa cittadina pugliese. Poi gli studi presso il Liceo Artistico I di Brera a Milano nel quale la presenza di alcuni artisti di rilievo seppur in progress allora (Mauro Staccioli, Mimmo Paladino…) ha avuto un certo ruolo nell’avvicinarmi sempre più a questo mondo. In ultimo e non per ultima la scelta di non frequentare l’Accademia di Belle Arti a Brera ma, dopo una certa esortazione da parte dei miei genitori, a continuare gli studi e non interromperli per propormi nel mondo del lavoro, mi ha condotto con mia somma soddisfazione a frequentare la Facoltà di Architettura presso il Politecnico di Milano per laurearmi così nel 1984 a pieni voti (grazie anche ai miei compagni di viaggio Mario e Vincenzo, egregi Architetti e fraterni amici), i quali hanno saputo sempre farmi credere che avrei potuto farcela e alla grande. Una professione che ho esercitato sporadicamente per poi porre la mia attenzione all’insegnamento per dare maggior sfogo e interazione alla libera professione prima di pittore e successivamente di scultore.
I tuoi trascorsi in ambito architettonico hanno lasciato traccia nel tuo lavoro?
Gabriele questo tuo quesito è praticamente tutto il perno della mia ricerca nell’ambito delle arti visive e lo sarà sempre anche quando deciderò di operare con altri media espressivi che potranno interagire con quelli che ho sino ad ora adoperato. Praticamente tolta una breve parentesi durante il percorso di studi e poco dopo la laurea io per scelta non ho voluto esercitare l’attività di architetto così come mi si prospettava in ambito progettuale/professionale… insomma, non mi andava di fare il portaborse o il ragioniere dell’architettura. Come ho detto le arti visive mi coinvolgevano maggiormente ma, al contempo, gli studi in ambito architettonico hanno certamente contribuito ad alcune scelte linguistico-formale-compositive delle mie opere sia come pittore prima che come scultore dopo. Innanzitutto mi ha sempre interessato l’organizzazione spaziale e al contempo un certo senso di instabilità, precarietà dell’opera di alcuni grandi maestri delle avanguardie, Malevič, Mondrian, Delaunay, Klee, Kandinsckij e di quelli delle generazioni più contemporanee Fontana, Burri, Castellani, Bonalumi, Staccioli, Carrino, Nevelson per non parlare degli architetti Tatlin, Le Corbusier, Piano, Gehry, Calatrava, Hadid… Riferimenti di studio e conoscenza per una ricerca, la mia, della quale non starò qui a descrivere… ci sono vari scritti sul mio operare che esplicano esaurientemente la poetica del mio lavoro. Un accento, se devo proprio farlo, è la ricerca visivo/espressiva della instabilità di una continua ossessiva fragilità dell’opera, di una certa precarietà d’equilibrio, di una prepotente e ossessiva assenza di volume per una permeabilità visiva della forma… Lo spazio come ho più volte affermato è contenuto in essa. Quindi amo partire dalla componente architettonica per metterla in discussione, in divenire con la precarietà instabile che, sfida impossibili equilibri di stabilità visiva e statica…La precarietà dell’esistere dell’uomo. Progetto sempre le mie opere con il piglio d’architetto, quasi mai sulla carta… nella mia mente si e le realizzo con il principio del work in progress con il principio che l’errore e il caso mi daranno la giusta forza per lasciarle lì…in equilibrio nello spazio e nel tempo.
Valdi, secondo te il caso esiste?
Caro Gabriele in una intervista che mi hai fatto circa tre anni or sono per Parole d’Artista in riferimento alla eventualità degli accadimenti nel processo creativo conclusi dicendoti: “Perfino il caso diventa una fonte di suggerimenti imprevedibili”… Sì, quindi “l’arte” accade”! Sì, il caso esiste!... E per quanto mi riguarda nel mio procedere creativo-operativo io non lo demonizzo anzi. Spesso gli lascio libero sfogo. Questa è stata per me la lezione che sin da tenera età ho colto nel lavoro di mio padre Osvaldo, ma soprattutto l’ho ritrovata nella lezione di una serie di artisti che con il loro lavoro e il loro procedere ci hanno insegnato che anche la progettualità si serve del caso… Penso ad esempio al lavoro di Vedova, Pollok, Cy Twombly, Fontana, Burri, e di quest’ultimo a tal proposito ricordo una bella intervista delle Teche RAI credo a firma di Franco Simongini, La mia arte non si può spiegare, parla il maestro Burri. Ecco questo solo per citarne uno per poi passare agli scultori che hanno lavorato sulla precarietà della forma assemblando oggetti e reperti… Colla, Melotti, i Dada e i Surrealisti con i Ready-Made oppure i Merzbau di Schwitters… insomma se dovessimo non tenere conto del caso molta dell’arte contemporanea e non solo non avrebbe avuto origine… e quando parlo d’arte mi riferisco alle molteplici forme e vesti attraverso essa si manifesta e non solo delle arti visive. Pensiamo al ruolo che ha potuto avere il caso nella forma d’arte sinestetica… beh, a mio parere molto! Per concludere comunque trovo opportuno citare Bruno Munari, Gillo Dorfles, Filiberto Menna, Jole De Sanna che alcune linee guida hanno dato a tal proposito con il loro contributo critico. Tutti questi fattori mi hanno orientato verso un lavoro come già detto work in progress e libero da progetti che creino regole tassative… le regole servono ed è giusto conoscerle ma, anche disattenderle ha il suo perché… il caso è uno di questi.
Secondo te l’artista, attraverso la pratica quotidiana del suo lavoro, riesce ad organizzare e a rendere manifeste, visibili e tangibili trame di energie/forze?
Caro Gabriele, come ben sai io non amo la definizione di “artista”, ben troppo abusata e spesso a sproposito. Comunque sì! A mio parere chi si occupa di pratiche espressive delle arti visive e non, così come un atleta, quotidianamente deve esercitare un “allenamento”... una sorta di pratica costante, periodica del fare, del pensare. Così le differenti forme dalla rappresentazione all’espressione manifestano le proprie trame. Penso a Pasolini, Carmelo Bene, Gassman... a Vedova, Pollock, Rothko, Picasso... ai Queen, i Deep Purple, gli Area... e via di questo passo. Dai più energici ai più “riflessivi” e pacati all’apparenza... Morandi, Casorati, Ferroni... ognuno di loro con la propria opera ci ha trasmesso un pensiero, un linguaggio...la propria “trama” con forze e energie che possono incontrare o scontrarsi con la nostra sensibilità... “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Burri, Fontana, Tapies, Stratos, Page... i sinestetici... Studio Azzurro, Cage. Insomma a mio modesto parere la pratica quotidiana appartiene al senso di creatività dell’essere umano il quale sa traslare o trasfigurare con la propria sensibilità le sue tensioni, emozioni, energie, forze... Forse, e dico forse, alcuni sono più “dotati” oppure con costanza e perseveranza ci credono di più e fanno il “salto nel vuoto” che è tutta l’altra storia del pianeta arte.
Ha una qualche importanza in quello che fai l’idea di leggerezza?
Il testo La presenza attiva dell’assenza del 1999 di Luciano Caramel a curatela di un ciclo di mie mostre personali, la sua primigenia intuizione, condivisa da Gillo Dorfles ed Enrico Crispolti al mio traslare dalla pittura alla scultura, le successive incursioni di Giorgio Zanchetti in Articolazioni spaziali di Valdi Spagnulo (2004) e ultimo ma non ultimo Claudio Cerritelli in Sguardi sospesi (2014) credo siano le letture basilari per meglio comprendere lo stato mentale/intuitivo/precario attorno alla mia idea di leggerezza. Tutta la mia opera nel momento che dal quadro è passata a parete e a terra (come articola nel suo testo del 2008 Alberto Veca) ha basato quale principio strutturale la leggerezza che, portata sino al parossismo diviene anche precarietà d’equilibrio, o per lo meno apparente precarietà. Dal momento che ho deciso di lasciarmi condurre nel territorio della terza dimensione, uno dei principi fondamentali rispetto a tutto quello che le avanguardie e il contemporaneo ci hanno insegnato è divenuto dare valore e corpo al vuoto. Vuoto non come vacuità ma, quale presenza attiva… ciò che non si vede c’è, esiste, partecipa attivamente a quell’azione… come meglio esprimere questa presenza se non con la leggerezza… con elementi, materiali, strutture che si articolano e inseriscono nello spazio fatto quasi d’aria. Ecco che la materia si fa leggiadra la sua forza l’esprime non con la massa e il pieno ma, con la torsione, scorre via all’occhio per presentarsi alla luce e rendersi visibile con discrezione, con linee sottili, colori tenui, calori del fuoco che patinano la materia dell’acciaio, esso a volte si rispecchia oppure sordo si delinea sottile nello spazio ove l’aria può farlo vibrare, suonare, quasi spezzare o flettere… ecco tutto questo è per me la leggerezza nel mio operare… è la fase poetica del mio lavoro che mi interessa non la gravità delle forme. L’opera dev’essere filtrante, poiché la scultura non rappresenta lo spazio, ma lo contiene. La leggerezza è quindi lo stato di forza nonostante l’apparente delicatezza.
Prima hai accennato alla pittura come punto di partenza, puoi raccontarmi che tipo di lavori facevi nella tua “preistoria” bidimensionale?
Effettivamente la pittura potrebbe sembrare per la mia attuale esperienza artistica “preistoria” come tu la definisci, ma in realtà non è propriamente così… te lo rivelerò magari in uno step successivo, se la tua arguzia mi porrà il corretto interrogativo. Ora nel rispondere a quanto mi chiedi ti dico che io inizio la mia esperienza nelle arti visive come pittore sperimentando le varie, tradizionali tecniche nelle quali però non trovo rispondenza alla mia vena espressiva. Ammiro moltissimo i pittori che adoperano l’olio, la figura, la forma il traslare all’informale, la materia il collage e via dicendo. Poi da non dimenticare la “presenza” non poco ingombrante di mio padre Osvaldo abile disegnatore, pittore, sperimentatore e non da meno tutto l’entourage dei suoi amici pittori che vedevo capaci, abili e con profonda ammirazione. Non sono mai stato un capace “riproduttore”, uno abile alla verosomiglianza alla “rappresentazione”. Poi studiando ho capito che si poteva fare anche questo mestiere con altre abilità: quelle espressive. Ecco allora ho deciso di esprimere attraverso opere figurative o simil tali con collage… immagini tragiche di volti dipinte a collage di tovaglioli di carta o fogli di scottex imbevuti in acquerello, chine, ecoline incollate su vari supporti trattati con colle viniliche e ridisegnate a pennino/calamaio… una operazione quasi grafica. Gli incontri a Milano con l’informale, la conoscenza di Burri, Giaquinto, l’area della galleria Delle Ore di Giovanni Fumagalli e via dicendo hanno permesso alla mia pittura di traslare oltre la figura e di lasciarsi affascinare dalla materia. La superficie diviene teatro di azioni molteplici, articolate a volte soffocate da vari elementi. Poi l’incontro con Patrizia Serra di Spaziotemporaneo e l’ambiente complesso di una serie di artisti presenti, ha costituito la svolta nel “ripulire” la superficie e concentrarsi in gamme quasi monocromatiche o bicromatiche realizzate con vari materiali…con “una pittura fatta non più per pennicilla” come scrive Rossana Bossaglia nel suo testo Il colore dell’ombra che presenta la mia personale al Museo dei Bozzetti di Pietrasanta (1995). Insomma la pittura è stata ed è il trampolino per quanto io abbia fatto e cerco di fare ancora nell’arte visiva. Essa mi ha insegnato la sincerità e al contempo la finzione del comunicare, basti pensare alla rappresentazione dello spazio, quello geometrico del Rinascimento fiorentino a quello spaziale a piani vibranti di colore di Rothko (solo per citarne uno che amo). Lo spazio che è e rimane l’ossessione perenne della pittura e non solo (pensiamo a Fontana). Ecco la pittura che poi così bidimensionale non è.
Infatti nel tuo lavoro attuale persistono tracce cromatico/materiche. Spesso i tuoi lavori, pur librandosi nello spazio, nascono dalla parete. È forse qui che si trova il punto di contatto di cui accennavi all’inizio della risposta precedente?
Caro Gabriele, la tua intuizione attenta e puntuale centra in parte il problema pittura/scultura che attanaglia sin dalle origini la mia produzione. Cerco di spiegarmi meglio: dopo l’iniziale parentesi tutta pittorico-grafico-figurativa degli esordi fine anni Settanta-inizio anni Ottanta ove la superficie, il supporto, la stesura, il colore, il collage eccetera erano artefici dell’opera, già verso la fine (1987-1988-1989) comincio ad interessarmi a delle soluzioni più materiche con lievi aggetti dalla superficie del supporto che non era solo la tela ma, legno, alluminio, sempre però con una presenza forte e aggressiva della pittura (oramai astratta di sapore gestuale-informale) che manteneva sempre un impianto di ricerca architettonico-spaziale con l’inserto di materie come il rame, il piombo, il ferro, l’acciaio inox, il tutto però sempre a parete nel riquadro della cosiddetta bidimensionalità. Gli anni Novanta sono lo sviluppo tutto materico della pittura la sperimentazione con altre tecniche le sabbie, il catrame, le carte, il legno, il fuoco, i metalli: qui la prima importante svolta. Il telaio diventa duplice: il dittico che in precedenza era pittorico con i bianchi e i neri (ti ho già spiegato in passato il mio rapporto con il nero) diviene vuoto, il telaio è un rettangolo in piatto di ferro con pochi elementi inseriti e la parete che crea lo spazio, il contralatare il compagno in nero (pieno) e il dittico opera unica si crea. È pittura? È scultura? La cosa non m’interessa! Non mi limita e soprattutto mi ha svincolato dai canoni “ripulendo” man mano quanto di fagocitante ed eccessivo c’era nei lavori precedenti. Il 1999 con la mostra a Milano alla Galleria Spaziotemporaneo di Patrizia Serra curata da Luciano Caramel l’ulteriore svolta… a insaputa di tutti tranne che del sottoscritto presento opere realizzate in pochi mesi (persino Patrizia e meno ancora Luciano) si aspettavano quelle opere. Telai in piatto, in ferro, di misure medio grandi, tutti contorti sulle forme del mio corpo con pochi inserti di fili di ferro, legni con carta trattata a fuoco e polvere di grafite, plexiglas graffiato e sporcato con polvere di ferro e grafite… il tutto “aggrappato” a parete con distorsioni e aggetti irregolari dai 10 ai 30 cm, e soprattutto l’ombra che reitera i segni nello spazio a parete con la luce naturale o artificiale. Ecco che compare il Valdi scultore? Non lo so. Certo è che il una mostra precedente (quella dei Dittici 1996) già Dorfles, Caramel, Crispolti avevano intuito quel che nemmeno io avevo visto sarebbe stato il mio proseguo. Da lì in avanti gli elaborati han subito sempre più una sintesi formale, un “asciugarsi” di elementi che si rafforzano attraverso le torsioni dei telai la proiezione a parete delle proprie ombre e la trasparenza dei plexiglas trattati, di recupero, con segni, colori e tracce proprie e create…È la presenza della pittura nella scultura! Quella presenza che diverrà perpetua in forma ed uso di elementi diversi sino alle opere più contemporanee. Già Alberto Veca (2008) nella presentazione della mia personale alla Galleria Cavenaghi Arte di Milano Asimmetrie – pieghe – torsioni nel suo testo A terra e a parete delineava questa mia natura costante tra pittura e scultura e la necessità quasi storica su una scelta della scultura di linea a scendere dalla parete a terra o in alcuni casi utilizzare il supporto parete… una mia scultura Architettura su di noi il cielo (2000) ne è una dimostrazione opera tra l’altro fruibile poiché attraversabile fisicamente. In conclusione affermo questa mia natura dittica pitto-scultorea, non voglio limiti di genere, infatti sono anche uno scultore anomalo, disegno pochissimo e non progetto quasi mai le mie opere… esse si realizzano work in progress, i miei Progetti per scultura (le cosiddette carte), spesso e volentieri seguono il realizzarsi dell’opera oppure rimangono solo tali senza che ne scaturisca l’opera scultorea. La fase materico-cromatica dell’opera, quella che la “lega” ideologicamente alla pittura, spesso è affidata al plexiglas colorato e trattato oppure alla brunitura e smerigliatura del materiale ferroso che con le rifrazioni della luce ne riproduce innumerevoli sensazioni cromatiche all’occhio. A citazione quasi provocatoria: vinco nel 2001 il 1° Premio per la Pittura dell’Accademia Nazionale di San Luca ìcon l’opera Ritratto silente 2° del 1998… una scultura a parete arricchita solo da lembo in legno rifoderato di carta trattata a fuoco e polvere di grafite, il resto era un telaio in ferro vuoto tutto stortato con fili di ferro aggrappato a parete. Questo è quanto.
Sulla modalità operativa ti volevo chiedere di entrare nel merito, la prima cosa che mi viene da chiederti è: ti capita mai di distruggere, o meglio di rilavorare, un pezzo che pensavi finito e che in realtà si rivela pronto a diventare qualcosa d’altro?
Sinceramente proprio no! Raramente, forse in gioventù quando l’ansia da prestazione nel realizzare “l’opera perfetta”, “assoluta” mi portava a rielaborazioni che personalmente ho trovato inutili quanto deleterie. Lo insegno anche ai miei studenti, nel selezionare le opere fatte si scelgono quelle che più ci accomunano al nostro sentire di quel preciso periodo. Ciò che riteniamo “sbagliato” va lasciato vivere per magari rivalutarlo a posteriori come fase di ulteriori sviluppi, oppure per averne la visione continua (sott’occhio) e cercare di non reiterare quegli errori che, sentiamo come “imperdonabili”. Come ho già qui affermato, il mio lavoro nasce dalla diretta scelta nel work in progress… poca progettualità quindi “l’errore” è spesso natura portante dell’opera stessa, quindi al caso opportuno “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. L’opera per me diviene elemento mutevole. Certo qualche frammento o pezzo che si mostra poco gradevole o opportuno può diventare “maceria” che in futuro come objets trouvés potrebbe avere nuova vita o darne a qualcosa d’altro… oppure no!
Il tuo è dunque un lavoro improntato all’istintualità, in questo modo di lavorare sono i vari elementi che compongono il lavoro a chiamarsi fra loro?
Gabriele, spesso in passato ho ammirato gli artisti che progettano le proprie opere… in questo la mia formazione di architetto certo avrebbe potuto aiutarmi o fuorviarmi… fortunatamente nessuna delle due condizioni. I miei lavori sono quasi sempre nel tempo scaturiti da un pretesto, da un metallo che mi abbaglia, da un plexiglas che reitera luci ed ombre nello spazio oppure, come in alcuni più recenti, grazie al mio amico scultore Giuliano Ferla che nella sua carpenteria mi ha fatto dono di lastre e scaglie di vetri di murano antichi, la scultura da terra, quella a parete e persino i lavori su carta sono nati da un pezzo di vetro colorato trasparente o in pasta opaca attorno al quale ho ricreato le forme di un oggetto che sentivo ad esso congeniale. Ecco che come dici tu nella tua domanda, i vari elementi si cercano si susseguono e conducono lo sguardo nello spazio e nel tempo… spero! Non è proprio solo l’istinto a guidare questo procedimento ma, il suo ruolo ha un certo peso.
L'autore di questo articolo: Gabriele Landi
Gabriele Landi (Schaerbeek, Belgio, 1971), è un artista che lavora da tempo su una raffinata ricerca che indaga le forme dell'astrazione geometrica, sempre però con richiami alla realtà che lo circonda. Si occupa inoltre di didattica dell'arte moderna e contemporanea. Ha creato un format, Parola d'Artista, attraverso il quale approfondisce, con interviste e focus, il lavoro di suoi colleghi artisti e di critici. Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Milano, vive e lavora in provincia di La Spezia.