Un buco di mezzo metro nella boiserie, l’intonaco che affiora sotto il legno, gli stipiti anneriti dai segni delle fiamme che salgono e avvampano, inghiottono, devastano. I restauratori hanno voluto lasciare ben visibile, nell’ambiente che precede il gabinetto di toeletta di Vittorio Emanuele II, uno dei segni lasciati dall’incendio che il 5 aprile del 2008 divorò la torre sud-est del Castello di Moncalieri. Il fumo che s’alza oltre i soffitti e ch’esce dalle finestre, le fiamme che s’insinuano dentro le stanze, che s’ingozzano e bruciano, una alla volta, le sale della torre, il fuoco che soffoca pezzi di storia d’Italia. Perduta la Camera da letto del re. Perduto il gabinetto di toeletta della regina. Perduto il soffitto della Camera da letto della regina. Perduta la Sala del Proclama. E cioè la sala dove, il 20 novembre del 1849, un Vittorio Emanuele II non ancora trentenne pronunciò il manifesto, scritto assieme a Massimo d’Azeglio, col quale annunciava lo scioglimento delle camere del Regno di Sardegna ed esortava gli elettori a considerare gl’interessi dello Stato. Il che, implicitamente, voleva dire votare una maggioranza incline a ratificare il trattato di Pace con l’Austria dopo la prima guerra d’indipendenza. Là dove s’era scritta una pagina di storia rimaneva solo la cenere.
“Dieci milioni di euro di danni”: così titolavano i giornali, gracchiavano le radio, ripetevano i servizî dei notiziarî televisivi. Come se una somma di denaro potesse restituire quel ch’era andato perduto per sempre tra fuoco e acqua. La verità è che i danni sono stati irreparabili, e tre ambienti del Castello di Moncalieri non esistono più. Quelle tre stanze sarebbero tornate visitabili dopo nove anni: nove anni di lavoro per restaurare quel che si poteva e riallestire le sale perse per far vedere a tutti cos’è accaduto, qui, una mattina di primavera dal cielo terso. Tre stanze impossibili da ricostruire, perché troppo poche le documentazioni d’archivio e quelle fotografiche. Ciò nondimeno, gli architetti che hanno curato gli allestimenti, Maria Carla Visconti e Beppe Merlano, hanno avuto un’idea acuta e struggente: consolidare gli elementi carbonizzati, e poi lasciare le rovine a vista, lasciare che i visitatori possano vedere gl’intonaci scorticati, gl’incannicciati messi a nudo, i lacerti d’affreschi antichi sopravvissuti sotto i papier peint ottocenteschi mangiati dalle fiamme, rievocando però le decorazioni perdute con un prodotto dell’azienda francese Barrisol, ovvero dei teli trasparenti retroilluminati in grado di suggerire l’ombra di quello che il rogo ha cancellato per sempre. Il Castello di Moncalieri è l’unico dove i fantasmi si possono vedere davvero.
Erano tra le stanze più affascinanti del Castello. Tra le più lussuose, tra le più colorate. Specialmente il gabinetto di toeletta della regina: uno stanzino interamente ricoperto di specchi, in grado di riflettere i bagliori ch’entravano da una porta vetrata, bagnando di luce tutto l’ambiente. Forse l’insieme poteva apparire eccessivo, chiassoso. Ma è una sensazione che comunque si prova ancora adesso, aggirandosi per tutte le stanze degli appartamenti reali, dove vivevano Vittorio Emanuele II e sua moglie Maria Adelaide, oggi aperte alle visite, diventate patrimonio di tutti. Si arriva all’appartamento dal grande scalone monumentale, che porta verso la sala da pranzo, ambiente tutto sommato ancora tranquillo. Si attraversano alcuni ambienti di servizio, e poi le stanze perse nell’incendio, e s’arriva alla camera da letto della regina.
Tappezzerie scarlatte, un fregio d’ebano dorato frutto del lavoro dell’artigiano Gabriele Capello, una porta che s’apre a rivelare una minuscola cappelletta privata con crocifisso d’avorio sotto a un baldacchino simile a quello che sormonta il letto della regina, e poi, a cozzare con l’uniformità carica dell’ambiente, lo spettacolare vaso in porcellana di Meissen di Johann Joachim Kandler, trionfo di colori, di fiori eseguiti a palla di neve, steli, foglie e rampicanti, persino alcuni uccelletti che cinguettano contenti, a cominciare dal canarino che sovrasta tutta la composizione.
Il Salotto Blu, l’antica sala di trattenimento della regina, è ancora più pomposo e frastornante. Domenico Ferri, il regista della decorazione dell’appartamento, voleva rievocare a suo modo un gusto rococò che la Francia di Napoleone III aveva riesumato, riportato in auge. Di sobrio c’è molto poco. Prevale un senso di sommo orrore per il vuoto. I damaschi blu sono racchiusi entro fantasiose chiambrane d’ebano, ognuna con piccoli ovali di porcellana dipinta (uno, andato perduto, è stato sostituito con la stessa immagine, ma sfocata). Linee tortuose per il fregio in papier mâché che corre lungo le pareti. Una rete di cornici dorate ingabbia il tondo del soffitto, che imita un’apertura su di un cielo azzurro. I sovrapporta, con putti che giocano in mezzo a prati fioriti, si distinguono quasi a fatica in mezzo a tutto questo affollamento (e in antico c’era anche più roba: alcuni mobili, opere settecentesche eseguite da Pietro Piffetti per Carlo Emanuele III e trasportate qui all’epoca di Vittorio Emanuele II, oggi sono al Quirinale). C’è anche un’altezzosa parure da camino, con orologio e due candelabri, tutto coperto da luccicanti dorature, opera dell’orologiaio parigino Paul Garnier. Più riposante l’attigua Sala del Convegno, ma se si prova ad alzare lo sguardo si viene subito catturati dal vortice del soffitto: l’illusione d’una cupola che s’eleva al di sopra delle cornici dorate, sopra ai monocromi con le allegorie delle più grandi città del Regno di Sardegna. Torino, Genova, Chambéry, Cagliari.
Fu soprattutto in questi ambienti che si concentrò il progetto di Domenico Ferri. Trasformare la porzione d’un’ala del Castello di Moncalieri in una fantasia eclettica che guardava alla Francia del secondo impero. I Savoia avevano intercettato con curiosa precocità la moda che si stava imponendo dall’altra parte delle Alpi: Napoleone III s’era insediato nel 1852, e Ferri cominciava a progettare il suo revival rococò nel 1852. Le sale di Ferri sono anche quelle che si son mantenute più intatte nell’ultimo secolo, dopo che i Savoia hanno abbandonato il Castello di Moncalieri.
Per lungo tempo, anche dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, i Savoia hanno abitato qui dentro. Alcuni forse avrebbero preferito di no: il Castello di Moncalieri fu luogo di cattura del primo re di Sardegna, Vittorio Amedeo II, rinchiuso a Rivoli seguito del suo tentativo di colpo di Stato contro suo figlio, Carlo Emanuele III. Il castello era stato residenza preferita di Vittorio Amedeo, ma fu anche sua ultima dimora prima della prigionia. Per altri invece fu un luogo sempre piacevole. Vittorio Emanuele II si sarebbe spesso trattenuto qui anche dopo la conquista di Roma, anche dopo che la monarchia aveva eletto il Quirinale come prima residenza. Altri ancora trascorsero tra queste pareti una vita dimessa, appartata, modesta, lontana da quella che ci s’aspetterebbe da chi fa parte d’una casa reale. Le cronache di fine Ottocento ci dicono che Maria Clotilde, figlia primogenita di Vittorio Emanuele II, ritenesse troppo grande l’appartamento che le era stato assegnato, dall’altra parte del Castello. Pare avesse litigato con suo fratello, re Umberto I, perché avrebbe preferito qualcosa di più umile.
Si respira un’aria diversa, in questa infilata di sale. Non c’è la minima traccia del gusto eccentrico dei genitori di Clotilde. Non sembra neanche l’appartamento d’una principessa. Tutt’altro. Cinque stanze al primo piano del Castello, sobrie, severe, disadorne: paiono le stanze d’una casa della media borghesia del tempo. A ravvivarle soltanto alcuni paesaggi di pittori piemontesi del tempo: si vedono opere di Filiberto Petiti, Mario Viani d’Ovrano, Pietro Sassi. Sono indice dell’attenzione che i Savoia riservavano all’arte contemporanea. Non sappiamo però dove fossero in origine, dato che l’appartamento di Maria Clotilde e quello al pianterreno, l’appartamento di sua figlia Maria Letizia Bonaparte, sono stati modificati negli anni. Di sicuro, nella camera di Maria Clotilde non doveva esserci il gesso che si vede oggi: è il modello della scultura che la raffigura in atto di pregare, inginocchiata, e che venne installato qui dopo che si pensò di trasformare quella ch’era stata la sua camera da letto in una sorta di piccolo mausoleo, progetto poi mai andato in porto. Un piccolo monumento cui attese Pietro Canonica nel 1912, dopo la scomparsa della principessa. Il marmo è conservato a poca distanza da qui, nel centro storico di Moncalieri, dentro alla chiesa di Santa Maria della Scala. Clotilde è passata alla storia come la “santa di Moncalieri”.
Era una donna dal temperamento pio, devoto, donna profondamente religiosa. Sposata col cugino di Napoleone III, uomo dal carattere totalmente diverso dal suo, uomo che lei non avrebbe voluto. Clotilde ebbe il coraggio di manifestare la sua opposizione al progetto di matrimonio anche a Cavour, e aveva solo quindici anni: alla fine accettò non tanto per calcolo politico o per compiacere la casa reale, ma perché pensava che fosse quello il destino al quale Dio l’aveva chiamata. Non fu un matrimonio granché riuscito: dopo la caduta del secondo impero, nonostante la sua volontà di restare a Parigi (pensava che quello fosse il suo posto, e che rimanere in Francia fosse suo dovere), venne convinta a lasciare la capitale. Qualche anno in Svizzera, e poi il trasferimento a Moncalieri, senza il marito, dal quale s’era separata. E una volta arrivata qui, la decisione ultima: ritirarsi a vita privata per il resto dei suoi giorni. In una sua lettera aveva messo nero su bianco la sua volontà d’immolare tutta la sua vita all’amore di Cristo (il verbo “immolare” è di Clotilde: suo dunque anche questo senso di sacrificio). Per lei, la residenza di famiglia diventò un “castello claustrale”, come titolò un giornalista del tempo. I Savoia sperano da tempo che qualcuno la faccia santa. In Vaticano la causa di beatificazione è ancora aperta.
Così diversa da lei, invece, la figlia Maria Letizia, che viveva all’appartamento del pianterreno. Amava sua madre, che riteneva la sua migliore amica. Ma, al contrario di lei, le piaceva fare vita mondana. Per andare al piano di sopra da sua madre, senza dover fare ogni volta le scale, Clotilde aveva fatto progettare un elegante ascensore in legno, vetro e ottone, con cabina decorata, realizzato dalla ditta Sagler, e ch’è in funzione ancora oggi, e col motore originale. Non sappiamo l’anno esatto, ma risale ai primi del Novecento. Lo si vede dopo aver percorso tutte le stanze del suo appartamento: Maria Letizia andò ad abitare dentro sale ch’erano già state vissute nel Settecento (e i soffitti sono in parte quelli dell’epoca: la principessa non volle toccarli). La giovane Bonaparte, allegra, ribelle, amante della bella vita, s’era fatta allestire uno spazio elegante, fine, dai toni delicati: l’unico ambiente rimasto sostanzialmente integro è però la sua camera da letto, acquistata nel 1910 dal mobiliere Giacomo Borra. A fianco della camera c’era anche un gabinetto cinese settecentesco, di cui non è rimasto quasi niente: una porta laccata, e la volta dipinta. Che però non ha niente a che fare con la Cina. Il resto è invece frutto di rimaneggiamenti su quel ch’era sopravvissuto dal Settecento (le sovrapporte, per esempio), oppure di riallestimenti, fatti alle volte con mobilio pertinente, altre volte con cose che forse non immaginiamo dentro l’appartamento d’una principessa. Come i ritratti equestri dei Savoia nella stanza dell’ascensore, per esempio (che, infatti, vengono da Racconigi). Fanno il paio coi ritratti di re e imperatori che, nell’appartamento di Vittorio Emanuele II, decorano l’ambiente che introduce alla sala da pranzo.
Dopo Maria Letizia, sugli appartamenti del re, della regina e delle principesse è calato il silenzio. Ai Savoia non serviva più quella residenza ch’era stata fortezza medievale, edificata da Tommaso I da Savoia nel XII secolo, ch’era stata villa di piacere nel Quattrocento, ch’era stata prigione d’un re, ch’era stata caserma durante l’occupazione napoleonica, ch’era tornata sontuosa dimora quando i Savoia vi tornarono con Vittorio Emanuele I. Finita la prima guerra mondiale, Vittorio Emanuele III aveva voluto disfarsi di alcune delle residenze che il casato aveva ereditato: dopo l’Unità d’Italia, era diventato tutto loro. I palazzi di tutti i principi, di tutti i re che avevano amministrato pezzi d’Italia nei secoli erano diventati patrimonio dei Savoia: troppa roba. Così, dopo la guerra, il re rinunciò ad alcune delle sue ville reali e ad alcuni dei suoi castelli, a beneficio dei reduci. “Il dono dei re ai buoni soldati”, titolò la rivista Emporium. C’erano luoghi come la Villa Reale di Monza, la tenuta di Coltano in Toscana, la Villa Medicea di Poggio a Caiano, la Reggia di Caserta. E c’era il Castello di Moncalieri, l’unica delle residenze sabaude inclusa nelle cessioni. Nonostante fosse stato luogo a cui molti dei membri della famiglia erano stati affezionati.
Servì però attendere la morte di Maria Letizia, nel 1926, per tutti i passaggi. L’anno dopo vi s’installò una scuola per allievi ufficiali dell’esercito. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, nel 1945, il complesso diventò proprietà dei Carabinieri: ancora oggi il Castello di Moncalieri è una loro caserma. E adesso vive questa doppia condizione di presidio militare e museo, gestito dal Ministero della Cultura, ch’è diventato proprietario degli appartamenti. L’apertura al pubblico nel 1991. L’incendio del 2008, il fuoco che offende la torre, il Castello, la storia. La lunga chiusura per aggiustare i danni, per rimettere assieme i pezzi. La riapertura. Le voci delle guide, i passi dei visitatori che, ogni fine settimana, risuonano là dove un tempo s’udiva la voce, si sentivano i passi del primo re d’Italia, di sua moglie, poi di sua figlia, poi di sua nipote. La nuova vita, pubblica e quieta, dell’antica dimora dei re.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).