Il 2021 è stato un anno importante per la Turchia in materia di Beni Culturali, in particolar modo per quella regione dell’Anatolia, conosciuta anche come Taş Tepeler (letteralmente “colline di pietra”), che negli ultimi due secoli è stata oggetto di importanti campagne di scavo, specialmente nell’area di Şanlıurfa. Città anticamente nota come Edessa, Şanlıurfa fu uno dei palcoscenici più attivi della cosiddetta Rivoluzione Neolitica, un periodo di transizione durante la tarda età della pietra (10.000 a.C.-3.500 a.C.) in cui l’uomo passò dall’essere cacciatore-raccoglitore, associato in piccoli gruppi nomadi, a organizzarsi in comunità sedentarie mosso da un sempre maggiore sentimento collettivo. Non stupisce quindi che proprio a Şanlıurfa, nel settembre 2021, sia stato annunciato il progetto Taş Tepeler: un piano di intervento che oltre a tutelare i siti archeologici già emersi, sancisce una stretta cooperazione tra il Ministero della Cultura e del Turismo turco, il Museo Archeologico di Şanlıurfa e alcune prestigiose università turche e internazionali, con l’obbiettivo di avviare nuove campagne di scavo in Anatolia entro il 2024.
Nella regione di Taş Tepeler si contano già 12 siti protostorici apprezzabili. Primo fra tutti il grandioso Göbekli Tepe, che il suo maggior studioso, Klaus Schmidt, all’epoca dei ritrovamenti ritenne essere il più antico tempio nella storia dell’umanità; attualmente il mondo dell’archeologia è concorde nel ritenere il complesso “una delle prime manifestazioni di architettura monumentale fatta dall’uomo”, come si legge nella documentazione Unesco su Göbekli Tepe che dal 2018 è iscritto nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità. C’è poi il suo “tempio gemello” Karahan Tepe, scoperto nel 2019 e quasi contemporaneo al primo per cronologia, la cui apertura al pubblico è prevista nel 2022. Appena pochi mesi fa si è aggiunto il sito di Sayburç, un piccolo scavo localizzato nel perimetro di un’abitazione rurale in un quartiere contadino limitrofo di Şanlıurfa. Oltre a questi ritrovamenti, il Taş Tepeler include i siti di Yenimahalle-Şanlıurfa, Çakmaktepe, Hamzan Tepe, Sefer Tepe, TaŞlı Tepe, Kurt Tepe, Gürcütepe, Harbetsuvan Tepe e Ayanlar Höyük.
Visitare questi luoghi oggi richiede un’organizzazione complessa ma non impossibile. Şanlıurfa è un ottimo punto di partenza, città molto aperta al turismo e desiderosa di far conoscere una regione che trabocca di tesori. Imperdibile la visita al Museo archeologico della città, uno dei più importanti a livello nazionale, con una collezione straordinaria di 74.000 reperti e manufatti dal calcolitico fino al periodo ellenistico, romano, bizantino e islamico. Il percorso museale, forte di un design elegante, funzionale e di altissima qualità, comprende 14 sale espositive principali e vari spazi adibiti a ospitare modelli di edifici preistorici, insediamenti nomadi, manichini di uomini e donne del Neolitico dediti ad attività quotidiane e persino riproduzioni ambientali di siti anatolici, come Göbekli Tepe e il villaggio di Nevali Çori (quest’ultimo non riprodotto bensì trasferito in originale in una sala del museo).
Da alcuni anni la Turchia sud-orientale si sta preparando ad accogliere e gestire i flussi turistici in forte crescita previsti nei prossimi anni e in questo senso già molto è stato fatto: oltre ad infrastrutture efficienti, tecnologicamente avanzate e innovative, studiate per permettere una fruizione al pubblico che sia di qualità e il più possibile priva di rischi, esiste una rete dinamica e vitale di guide locali, traduttori, operatori turistici e culturali che cooperano con le istituzioni (in primis l’Università di Istanbul e il Museo Archeologico di Şanlıurfa) e presidiano i centri d’accoglienza allestiti nei pressi delle aree di scavo. Queste strutture, veri e propri portali d’accesso al passato, sono soprattutto luoghi-simbolo di mediazione tra il visitatore e il territorio, caratterizzati da un design pulito, essenziale e assolutamente compatibile a livello ambientale ed ecologico, nonché strategici nel rispettare il valore storico dell’area e nell’avvicinare gli ospiti alla cultura del popolo turco odierno. Chi si trovasse a transitare in queste quiete stazioni fuori dal tempo potrebbe essere invitato da un premuroso operatore autoctono a sorseggiare una tazza di çay bollente e assaporare una fetta di külünçe di Urfa, in attesa che la visita abbia inizio.
Il tempio di Göbekli Tepe, la cui costruzione fu avviata nel 9.600 a.C., fu riportato alla luce nel 1963 da un gruppo di ricerca turco-statunitense che notò svariati cumuli di frammenti di selce depositati nel terreno, chiarissimo segno di presenza umana nell’età della pietra. Gli scavi ufficiali iniziarono nel 1995 sotto l’autorevole gerenza dell’archeologo Klaus Schmidt dell’Università di Heidelberg, in stretta cooperazione con il Museo Archeologico di Şanlıurfa. Dopo la morte di Schmidt nel 2014, gli subentrò il professor Necmi Karul dell’Università di Istanbul che ad oggi dirige il Göbeklitepe Culture and Karahantepe Research Project ed è membro del Göbeklitepe Scientific Coordination Committee.
Göbekli Tepe è anzitutto monumentale, con un perimetro che sfiora 23 metri di diametro e un’altezza variabile dai 5 ai 6 metri, ed è formato da vari edifici di forma ovale. All’interno di ciascuno di essi, al centro, si innalzano due pilastri rettangolari a forma di “T” che nel tempo sono divenuti il simbolo universale del sito. Il terreno è in leggera pendenza poiché il tempio sorge su una collina: pratica non insolita che si ritrova in molti altri siti della regione, edificati su clivi e monticelli di terra e pietra calcarea che punteggiano il volto del suolo anatolico. Da qui deriva il toponimo Taş Tepeler che, come anticipato, significa in turco “colline di pietra” e indica proprio questo aspetto. Oltre alle colline naturali, in Anatolia esistono anche rilievi artificiali originati dalla stratificazione di materiali accumulati dall’occupazione umana durante lunghi periodi di tempo: sono i cosiddetti Tell, parola adottata in inglese dall’arabo che significa “tumulo” o “piccola collina”.
Sempre nel Taş Tepeler, più a est rispetto a Şanlıurfa sorge la catena montuosa TekTek, nota per la diffusione di lapidi e tumuli costruiti sulle sue alture. Uno di questi è il tempio di Karahan Tepe, eretto con la pietra calcarea dei monti TekTek che ha la proprietà di essere dura in superficie ma morbida all’interno, molto versatile per essere tagliata e lavorata. Si stima che anche Karahan Tepe sia di fondazione Neolitica pre-ceramica, ma secondo alcune recenti teorie sarebbe più antico di Göbekli Tepe di poche centinaia di anni. Inizialmente scoperto nel 1997, passò nel 2018 sotto l’egida dell’Università di Istanbul e dal 2019 gli scavi sono presieduti dal Professore Necmi Karul.
A differenza di Göbekli Tepe, questo secondo tempio si presenta formato da locali comunicanti tramite corridoi, scale, gradini e passaggi nei muri. Elementi che, insieme alle finestre, alle architravi e ad alcuni oggetti di rudimentale “mobilia”, fanno di Karahan Tepe un modello di architettura sperimentale non ancora domestica ma già notevolmente avanzata. Dentro e attorno al perimetro sono stati contati oltre 250 pilastri a “T” molto simili a quelli osservabili a Göbekli Tepe.
Il sito di Karahan Tepe include un ampio salone raggiungibile attraverso un percorso a zigzag che passa attorno a una serie di locali stretti e quadrati. Il salone conduce verso una coppia di fosse contigue che costituiscono gli ambienti più interessanti: dal fondo della prima fossa emergono undici colonne, che secondo le interpretazioni più accreditate rappresenterebbero totem a forma fallica. Dal bordo della fossa aggetta una misteriosa testa umana in pietra, con tratti somatici marcati e vagamente esotici: la bocca grande e carnosa, la mandibola larga, il collo dritto e liscio che evoca il corpo tubolare di un serpente ne accrescono la tridimensionalità. Con lo sguardo fisso verso il passaggio d’ingresso, la testa accoglieva probabilmente chi accedeva dalla sala principale, per attraversare le colonne e giungere infine nell’ultima fossa.
Le colonne falliformi hanno suggerito l’ipotesi che a Karahan Tepe si svolgesse un rituale di iniziazione, di fertilità oppure una cerimonia di passaggio dall’infanzia all’età adulta, così come un ruolo-chiave potrebbero avere avuto liquidi come acqua o sangue che scorrendo in un canale idraulico sgocciolavano dentro la fossa delle colonne. L’ultimo locale sembra lasciato incompiuto: oltre alla presenza di una piccola buca poco profonda e di forma irregolare che copre solo parte del pavimento, vi è la figura di un serpente con la testa di volpe e un corpo sottile e ondulato che corre lungo il bordo dell’area. Un disegno dallo stile piuttosto essenziale che, nel contesto artistico del tempio, potrebbe essere stata la fase embrionale di un lavoro ben più elaborato. Sul livello più alto del pavimento è stata ricavata una serie di piccole cunette, elemento che rimane di difficile decifrazione.
Il fallo eretto è un leitmotiv molto diffuso nel Taş Tepeler e la recente scoperta di Sayburç fornisce un ulteriore tassello alla mappa iconografica della regione. Datato intorno all’8.000 a.C. (età che corrisponde alla fase finale di Göbekli Tepe) Sayburç non ha affinità strutturali con i templi maggiori, data la sua area ristretta e architettonicamente minimale, ma ne ha invece per quanto riguarda i manufatti artistici. Dalla superficie verticale di una panca in pietra, ricavata all’interno del sito, emerge un piccolo e corposo altorilievo di un uomo con il fallo prominente; attorno ad esso troviamo degli animali raffigurati nello stile tipico delle figure di Göbekli Tepe e Karahan Tepe: un toro o un bufalo di profilo punta le grandi corna verso l’incisione di un uomo con il fallo in evidenza, le braccia alzate e in una mano un serpente che ondeggia all’ingiù. Più a destra vi sono due leopardi che accerchiano lateralmente il piccolo uomo di pietra, il quale stringe con entrambe le mani il suo organo sessuale. La scultura indossa una collana molto simile a quella incisa sul petto del celebre Uomo di Urfa, reperto dal valore unico in quanto rappresenta la più antica scultura di un essere umano raffigurato realisticamente e a grandezza naturale. L’Uomo di Urfa, noto anche come Statua di Balıklıgöl, risale circa al 9.000 a.C. ed è attualmente esposto al Museo di Şanlıurfa, di cui ha assurto a simbolo e motivo di orgoglio nazionale.
Anche Göbekli Tepe conserva una notevole collezione di reperti a tema uomo-animale. Quasi tutti i pilastri maggiori del tempio recano altorilievi e bassorilievi di animali, con segni e simboli decorativi. La grande ricchezza di specie (cinghiali, volpi, pantere, piccoli felini, antilopi, rettili e ragni, bovini ed equini, anatre, uccelli migratori) ci permette di approfondire alcuni aspetti della vita dell’uomo neolitico, come lo studio della natura, della fauna locale, della stagionalità del tempo: conoscenze forse sviluppate con l’affinamento di pratiche e strategie legate alla caccia e all’adattamento all’ambiente. Oltre alla gamma zoologica, sul tronco verticale di molti pilastri compaiono lunghe e sottili braccia con mani minute: l’effetto visivo è quello di trovarsi dinnanzi a totem antropomorfi, forse eretti in favore di divinità od oracoli. Un aspetto curioso riguarda una stele trovata in un piccolo locale a nord del tempio, che riporta la figura di una donna mentre partorisce. La stele si trova nel Museo di Şanlıurfa ed è piuttosto insolita: se il genere femminile è già di per sé poco documentato nel Taş Tepeler, l’iconografia del parto in particolare non ha riscontri in nessun altro sito della zona.
Il binomio uomo-animale è un tema diffusissimo nel Neolitico. Nel tempio di Göbekli Tepe gli animali sono ritratti come creature feroci, all’erta o in posizione di attacco; i grandi totem recano perizomi e cinte da cui pendono pellicce di volpe, riconducibili alle ossa di volpe inumate alla base dei pilastri. A Göbekli Tepe aleggia un senso di minaccia, di prevaricazione dell’uomo-predatore sul mondo animale, o più realisticamente emerge un quadro in cui l’uomo cerca di imporsi sull’ambiente circostante per fini di sopravvivenza. Di contro, a Karahan Tepe l’animale è soprannaturale, simbolico o animato da una vitalità non condizionata ma anzi esaltata dall’uomo; nei manufatti di Karahan Tepe l’animale può anche essere una creatura bonaria e innocua, come nella maestosa scultura del Museo di Şanlıurfa che ritrae un uomo con un grosso leopardo sulla schiena dall’aria pigra, il sorriso beffardo e denti tutt’altro che aguzzi, anzi regolari e squadrati come le dentature umane. Anche il serpente continua a ritornare in diversi luoghi e in molteplici forme: nelle stanze di Karahan Tepe, sui pilastri di Göbekli Tepe, negli intagli a Sayburç e in molti manufatti emersi in tutto il Taş Tepeler, da cui l’idea che il rettile incarnasse nei culti Neolitici un animale sacro o un simbolo magico di vita, di morte o di sessualità.
Visitare il complesso dei siti neolitici dell’Anatolia significa addentrarsi in un universo narrativo fatto di immagini, icone, forme e simboli che si manifestano come significanti di un codice universalmente riconosciuto, trasmesso nel tempo e nello spazio. Ci si domanda se l’uomo Neolitico avesse coscienza delle potenzialità della creazione artistica oppure, considerando le funzioni cui i siti erano destinati (spazi pubblici di raccolta spirituale per la comunità, edifici di culto e celebrazione di rituali, osservatori per l’avvistamento di fenomeni naturali ed eventi astronomici), se le incisioni e le sculture ritrovate avessero significati essenzialmente decorativi, oltre che allegorici e magico-propiziatori. A Göbekli Tepe, volgendo lo sguardo dal particolare grafico al disegno del tempio nella sua interezza, il pensiero vola istintivamente all’allineamento astronomico dei megaliti, come Stonehenge che tuttavia comparve almeno sei mila anni più tardi dei Tepe anatolici (3.100 a.C.-1.600 a.C.).
Quel che sappiamo oggi è che il popolo turco riconosce Göbekli Tepe certamente come un luogo di confluenza di pratiche mistiche, ma anche votato alla narrazione di storie, alla preservazione della memoria e di un patrimonio socio-culturale espressi attraverso linguaggi antecedenti alla formulazione della scrittura. E in questo processo di trasmissione dei valori il tempo ha giocato un ruolo-chiave, attivato dall’ingegno di individui che prima di abbandonare i propri templi di culto e memoria, li seppellirono più e più volte a distanza di decenni sotto molti strati di terra, terriccio, pietre e detriti che prelevarono nei dintorni e trasportarono fin sulle colline. Un’impresa stupefacente, a pensarci oggi, compiuta probabilmente da grosse unità di forza lavoro e con strumenti e tecnologie a noi ignoti. Grazie alle datazioni radiocarboniche si è stabilito che Göbekli Tepe e Karahan Tepe furono definitivamente sotterrati e abbandonati nel periodo Neolitico Pre-Ceramico B (8.800-6.500 a.C.).
Se l’uomo fosse a conoscenza o meno del potere conservativo della sepoltura non è dato sapere, ma a dodici mila anni dall’edificazione dei Tepe lo stato conservativo dei manufatti è molto buono, persino eccellente nel caso dei reperti rinvenuti integri e preservati al Museo di Şanlıurfa. Eppure secondo gli archeologi, solo a Göbekli Tepe gli scavi avrebbero rilevato una minuscola parte, approssimativamente pari al 5%, di quello che fu il complesso templare originale e potrebbero esserci molti altri edifici ancora interrati. Al netto delle maggiori scoperte archeologiche compiute in Turchia dagli inizi del Novecento, l’Anatolia rimane effettivamente un’area geografica molto vasta che si stima possa celare nel sottosuolo oggetti e manufatti artistici ancora coperti da millenni di strati geologici. E qui prende forza il progetto Taş Tepeler, il cui obbiettivo sarà duplice: da un lato intervenire in zone della Turchia ancora impraticate, dall’altro ampliare le ricerche nei luoghi già scavati per approfondire la storia e le trasformazioni del territorio anatolico e dei popoli indigeni che vi dimorarono a partire dal X millennio a.C.