di
Federico Giannini, Ilaria Baratta
, scritto il 15/04/2018
Categorie: Opere e artisti / Argomenti: Arte contemporanea
Simone Pellegrini propone un'arte senza tempo fatta di visioni ancestrali popolate da intrecci di corpi umani, esseri fitomorfi, organismi primordiali, strani codici. Un profilo della sua arte.
Molti di quanti hanno scritto su Simone Pellegrini (Ancona, 1972) non hanno potuto far a meno di citare Aby Warburg. Come il grande storico dell’arte tedesco aveva creato il suo atlante Mnemosyne per costruire le sue mappe della memoria figurativa, allo stesso modo l’artista marchigiano dà vita a mappe di simboli che paiono perpetuare nella contemporaneità ridde di simboli ancestrali che compongono bizzarre visioni popolate da strane creature fitomorfe, organismi monocellulari, uomini e donne che fondono i loro corpi in amplessi fecondi, oggetti che si trasformano e assumono una nuova natura. E senza che ci siano riferimenti precisi a epoche o luoghi. Le mappe di Simone Pellegrini potrebbero provenire da un’antichità non meglio definita: il viaggio parte addirittura dalle pitture rupestri della preistoria (si pensi a quelle di Altamira) e s’inoltra poi nella storia dell’arte medievale, dagl’intrecci dei rilievi delle antiche cattedrali romaniche fino agli estrosi alfabeti di Giovannino de’ Grassi, ma si spinge oltre, a esplorare civiltà remote, attraversando l’oriente di Siyah Qalem e arrivando fino all’estremo occidente della scultura maya.
Anche il procedimento con cui nascono le opere di Pellegrini ha origini antiche: le sue mappe utilizzano una tecnica vicina a quella della monotipia, la cui invenzione si vuol far risalire al grande Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, uno dei più importanti artisti del Seicento genovese. L’artista crea delle singole immagini frammentate, i suoi speciali monotipi, e dopo averle oleate e successivamente asciugate le imprime sulla carta, distruggendo poi le matrici, gli originali. Quasi la trasposizione tecnica dell’evidente tendenza a superare l’individualità per tentare di tracciare una storia della cultura e una storia del mondo. Per lo stesso motivo, ovvero per trascendere l’individuo, i corpi non appaiono quasi mai nella loro interezza: sono scomposti e smembrati, quasi reduci da rituali dionisiaci dove l’individuo veniva sacrificato in nome del dio. E il tutto appare ammantato d’un linguaggio che Simone Pellegrini stesso definisce barocco: “perché s’ossimora di continuo, si nega alla piega”, ha sottolineato in un suo scritto.
Tensioni simili sono presenti da sempre nell’opera di Simone Pellegrini. Valga l’esempio di un’opera del 2005, L’ordo degli incomparabili, dove la composizione, tracciata su di una carta ingiallita, bruciata e slabbrata (il supporto tipico delle opere dell’artista, quasi una pergamena non risparmiata dall’azione del tempo) ci trasporta dentro una fitta foresta nella quale osserviamo una donna dai cui genitali scorre un fluido, una linfa, che s’ingrossa mentre procede per il bosco, attira alcuni uomini che si sdraiano a berne, e si perde poi nell’ingresso oscuro d’una spelonca che pone termine al suo viaggio. Quasi una metafora del ciclo della vita, che potrebbe però esser tranquillamente letta anche in senso inverso, col fluido emanato da una qualche divinità che abita l’antro e che scorre fino a fecondare la donna. Questa poetica degli ambigui è tipica della produzione di Simone Pellegrini. Così come tipici sono alcuni simboli ricorrenti: cellule fluttuanti, intrecci di gambe, simboli fallici, genitali femminili, semi e membrane. In Conversazione azimutale, per esempio, due personaggi dai tratti sfuggenti (uno dei due financo privo della parte superiore del corpo: ancora, personaggi privi di connotazione individuale) discorrono ai margini d’un bosco con gli alberi disposti in circolo. Alberi che quasi ricordano le duecentesche miniature di Ildegarda di Bingen, dove le piante che spuntavano da un cerchio simboleggiavano lo scorrere del tempo e delle stagioni, ma l’ambiguità di fondo della figurazione di Pellegrini ci fa apparire questi strani pini quasi come fluidi che convergono verso l’anello centrale... o viceversa. In mezzo a questi elementi, spicca un enorme fallo verso cui tendono uomini e donne e che celebra la sacralità dell’unione. “Tutto lo scenario”, ha sottolineato Simone Pellegrini in merito ai simboli ricorrenti delle sue opere, “è disposto ad accogliere l’evento [...]. Nella rappresentazione si determinano gli elementi che vogliono indurre il rappresentante stesso alla rivelazione - rammemorazione di quel che, lungi dall’espropriarlo, lo ricolloca. Qui l’apotropaico. Qui la rappresentazione anticipatrice, la rappresentazione come delimitazione del luogo epifanico in cui la disposizione degli elementi diviene formula pretestuosa per l’apparizione dell’attore. Circoscrivere lo spazio di precipitazione temporale, in cui l’emergenza segnica si dia da subito come testo apòcrifo. Guardare poi, come si guarda ciò che non ci appartiene. Con desiderio”.
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Simone Pellegrini, L’ordo degli incomparabili (2005; tecnica mista su carta, 200 x 310 cm) |
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Simone Pellegrini, L’ordo degli incomparabili, dettaglio |
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Simone Pellegrini, L’ordo degli incomparabili, dettaglio |
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Simone Pellegrini, L’ordo degli incomparabili, dettaglio |
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Simone Pellegrini, L’ordo degli incomparabili, dettaglio |
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Simone Pellegrini, Conversazione azimutale (2010; tecnica mista su carta, 55 x 108 cm) |
Questa convulsa teoria di simboli si ritrova anche nelle opere più recenti, come Andante causato, dove vediamo mandorle che paiono tratte dalla miniatura medievale (ma che, invece della divinità, contengono porzioni di corpo umano, braccia che s’intrecciano, cosce femminili spalancate in fremente attesa, queste ultime simili a quelle che popolano le opere di Carol Rama), organismi primordiali che fluttuano tra fiamme, vegetazioni e germinazioni assortite, elementi che replicano se stessi, piccole torme di donne e uomini che si moltiplicano. L’opera, del 2017, fa mostra di sé all’ultima personale di Simone Pellegrini, Ostrakon, allestita dal 24 marzo al 5 maggio 2018 negli spazî della galleria Cardelli e Fontana di Sarzana, con la quale l’artista collabora da diversi anni e che ha ospitato diverse sue esposizioni. Ostrakon era il frammento di coccio sul quale, nella Grecia antica, venivano scritti i nomi dei cittadini che dovevano essere esiliati. Allo stesso modo, i frammenti che compongono le scene di Simone Pellegrini trasmettono dei messaggi, dei contenuti. Pietrò Gagliano specifica che “come al cospetto di ogni codice, nasce anche qui l’interrogativo su quali siano le sfere a cui permette di accedere, quali i mondi che mette in connessione e in che modo questo codice, reso penetrabile, decodificato, possa essere utilizzato”. Una possibile risposta, tra le tante, si può pertanto individuare “nel costrutto della forma, vale a dire in quello che possiamo definire come il continuo scioglimento dell’idea dell’artista nella figurazione: un orizzonte che contiene l’icona, nel suo originario significato di immagine, e la colloca nella rete di legami culturali ed emotivi presenti all’autore e da lui intenzionalmente introdotti nell’opera (o a volte, come si vedrà, emersi quasi autonomamente, in forza di una vitalità propria e nascostamente ramificata di cui le immagini sono provviste)”. Ostrakon, dunque, anche come “esilio” dell’idea sul supporto materiale.
In mostra sono esposti anche i libri sui quali Simone Pellegrini traccia i suoi disegni. Quella del disegno sulle pagine dei libri è una pratica che l’artista da sempre frequenta, e gli permette di fissare su carta le prime idee per le sue composizioni di più grande respiro. I libri (Simone Pellegrini dimostra una particolare predilezione per la mistica, la religione, la poesia, la filosofia) generano idee, e le idee vengono subito fissate sulle loro stesse pagine, anche senza che ci sia un rimando diretto a quanto emerso dalla lettura: l’arte di Simone Pellegrini, sottolineava Viviana Scarinci, non ha debiti di riconoscenza nei confronti del libro, dacché l’artista “difende la purezza della sua visione” anche da quelle stesse pagine che spesso costituiscono le scaturigini del suo universo figurativo. Tuttavia non si potrebbe comprendere del tutto l’arte di Simone Pellegrini senza conoscere questi disegni che ci appaiono quasi istintivi, ma che in realtà sono frutto di meditate elaborazioni: perché l’immaginazione dell’artista è spesso stimolata dalle parole. Che altro non sono, se non segni loro stesse (un linguaggio, in tutto e per tutto simile a quello che l’artista cerca di creare per mezzo delle figure). Si tratta, peraltro, di prodotti profondamente diversi rispetto alle opere destinate a essere appese alle pareti. Perché in quei libri l’artista entra a contatto diretto col supporto. Questo non avviene nelle opere più grandi, dacché queste ultime accolgono impressioni che hanno origini da matrici di cui poi Simone Pellegrini, come anticipato, andrà a disfarsi. Ed è interessante notare come la matrice, l’oggetto su cui Simone Pellegrini interviene direttamente, sia allo stesso tempo la parte dell’opera destinata alla distruzione, al sacrificio.
Il sacrificio è parte integrante dell’opera in quanto, come l’artista spesso rimarca, la sua ricerca verte sull’uomo, sulle sue involuzioni e sulle sue evoluzioni, che necessariamente comportano sconvolgimenti, lotte, distruzioni e rinascite. Quello che vediamo nelle mappe di Simone Pellegrini è un universo che s’incontra e si scontra, e dove il corpo umano, come nella trattatistica medievale, giunge quasi a identificarsi col cosmo stesso, ma l’approccio dell’artista marchigiano è contemporaneo: “le espressioni dell’arte contemporanea”, spiega ancora Pietro Gaglianò, “hanno mutuato in innumerevoli declinazioni” la reciprocità tra il celeste e il terreno “spogliandola ogni volta di trascendenza e riportandola all’esperienza della vita”. La sua è una ricerca che sonda i primordî dell’uomo ammantandosi di simboli che paiono afferire alla sfera del sacro, ma mantenendo una prospettiva ch’è sempre “coerentemente antropocentrica” e che “non cerca un pubblico”, non intende comunicare con “una comunità precisa che ne condivida il linguaggio”, perché, continua Gaglianò, intende dilatare il proprio tempo storico.
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Simone Pellegrini, Andante causato (2017; tecnica mista su carta, 108 x 210 cm) |
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Simone Pellegrini, Andante causato, dettaglio |
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Simone Pellegrini, Andante causato, dettaglio |
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Simone Pellegrini, Andante causato, dettaglio |
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La mostra Ostrakon di Simone Pellegrini. Ph. Credit Galleria Cardelli e Fontana, Sarzana |
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La mostra Ostrakon di Simone Pellegrini. Ph. Credit Galleria Cardelli e Fontana, Sarzana |
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Disegni sui libri di Simone Pellegrini |
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Disegni sui libri di Simone Pellegrini |
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Simone Pellegrini, Condizioni di fondo (2017; tecnica mista su carta, 127 x 230 cm) |
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Simone Pellegrini, Condizioni di fondo, dettaglio |
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Simone Pellegrini, Vario diafano (2017; tecnica mista su carta, 95 x 165 cm) |
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Simone Pellegrini, Vario diafano, dettaglio |
L’opera di Simone Pellegrini, in sostanza, si colloca al di fuori del tempo. E anche in questo senso è da leggere il fondamentale primitivismo delle sue composizioni: un primitivismo che, tuttavia, nella sua dimensione di ricerca sull’uomo e non di ricerca sull’arte, lo accomuna più a un Piero di Cosimo che a un avanguardista d’inizio Novecento. Per tali ragioni la sua indagine non cerca neppure il bello, e s’avvale di pochi strumenti. La sua arte criptica sembra essa stessa fondata su procedimenti che ci appaiono ritualistici. Pochi segni, ripetitivi, che ripropongono sempre la stessa, scarna, gamma cromatica (il rosso, il nero, il seppia: del resto i più antichi colori utilizzati dall’uomo per produrre arte) e che assumono un valore universale. Disegni che sono “come sinopie combuste, tracce d’un epos altrimenti aggraziato, tra sapore di fresco popolare e filigrane di mito sorgivo” (così Flaminio Gualdoni). Disegni densi e vigorosi, che anche nel tratto suggeriscono quella carnalità che permea ogni composizione di Simone Pellegrini.
Un’arte sostanzialmente visionaria, ricolma di miti lontani, tracce di civiltà perdute, cromie preistoriche, grovigli di membra fertili ch’esprimono una sessualità piena, costruzioni che serbano memoria d’antiche cosmologie. Opere nelle quali viene meno ogn’intento narrativo. Opere tutt’altro che immediate, e che richiedono una fruizione lenta, riflessiva e ponderata, in sintonia con la loro genesi. Opere dove tutto è costante metamorfosi.
Simone Pellegrini è nato ad Ancona nel 1972, attualmente vive e lavora a Bologna. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Urbino nel 2000, ma espone le sue opere dal 1996. Dal 2003 collabora con la Galleria Cardelli e Fontana di Sarzana e, dal 2006, con la Galerie Hachmeister di Münster in Germania. Ha esposto in diverse mostre in contesti internazionali (tra questi, tre edizioni della Biennale di Venezia, nel 2015, nel 2013 e nel 2011, oltre a fiere di rilevanza mondiale e importanti mostre collettive) e ha tenuto personali in Italia e all’estero. Sue opere si trovano al MAMBo di Bologna, nella collezione permanente di Bologna Fiere, presso la Collezione Volker Feierabend di Francoforte sul Meno, nei Musei Civici di Monza, nelle raccolte di Palazzo Forti a Verona e in molte altre collezioni. È inoltre insegnante di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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