Le strade lungo il territorio toscano, quelle tracciate dagli Etruschi, non modificano pesantemente la natura, ma l’assecondano, seguendone delicatamente i confini, e si inseriscono con grazia in un paesaggio cullato nel passato che, solo a volte e per qualche manciata di istanti, sembra essere fin troppo lontano. Ed è proprio seguendo i percorsi che si inerpicano tra la valle del Merse e dell’Ombrone senese che si arriverà, non senza difficoltà, al piccolo borgo di Murlo. È un luogo meno conosciuto e meno battuto dalle fiumane di turisti che invadono le calde città toscane, ma sembrerebbe proprio questo suo timido defilarsi da una vita chiassosa ad avergli dato il nome che pare derivare dal latino murlus, che significa “muretto”, proprio per identificare un “piccolo luogo murato”. Altri studi, però, rimangono saldamente aggrappati alla parola latina mus, ovvero topo, poiché in antichità e in questa particolare area della Toscana vi era l’usanza di inserire dei topi rampanti sugli stemmi comunali.
Ad oggi, il piccolissimo borgo si presenta con una forma chiusa in se stessa che si protegge silenziosamente da quel mondo esterno che continua a correre e cambiare velocemente.
È una storia misteriosa quella di Murlo, che si inscrive in quella che è la trama delle civiltà etrusche che dal VII sec a.C. popolavano la zona di Poggio Civitate, a due chilometri a sud est dal paesino, e il limitare del fiume Ombrone .
La classe aristocratica cominciò quindi a capitalizzare le risorse ambientali circostanti, negoziando poi i loro frutti attraverso i fiumi navigabili e diventando ben presto estremamente ricca e prospera, soprattutto nei cosiddetti periodi Arcaico e Orientalizzante. Sebbene si parli di tempi così lontani da sembrare sfocati e i cui contorni si attenuano man mano che si procede a passo svelto e deciso verso il futuro, ecco invece che le tracce etrusche presenti a Murlo risultano ben salde ed estremamente visibili.
È una storia che inciampa tra le trame fittissime della leggenda e delle narrazioni popolari: la zona, infatti, è conosciuta come “Piano del Tesoro” perché tutti, dagli abitanti locali ai ben più girovaghi pastori, erano a conoscenza della presenza di frammenti di ceramiche e bronzi insoliti che, nelle giornate di pioggia, emergevano dal terreno. La leggenda narra che proprio in questo piano si possa trovare una profondissima buca che ospitava la grossa statua di un vitello d’oro che, secondo la vicenda biblica presente nell’Esodo, rappresenta la disobbedienza del popolo d’Israele nei confronti del comando divino e la sua propensione verso l’idolatria.
Così, nel 1966, guidati dai misteri attorno all’affascinante luogo, un gruppo di boscaioli accompagnò in queste zone gli archeologi Ranuccio Bianchi Bandinelli e Kyle Meredith Phillips Jr., che condussero numerose scoperte avviando una collaborazione senza precedenti tra gli studiosi e la comunità di Murlo. Sotto la guida esperta di Phillips del Bryn Mawr College, il lavoro iniziò a rivelare la presenza di imponenti resti architettonici sulla vetta più alta del piano, e ancora più sorprendente fu la scoperta di un vastissimo nucleo di sculture in terracotta che adornavano un edificio, costituendo uno dei migliori esempi nella regione dei sistemi di tetti a copertura. Nacque così, alla fine degli anni Ottanta, con rarefatta compostezza, il Museo Archeologico di Murlo, la cui forza e particolarità è proprio quella di accogliere materiali provenienti da un unico sito, la cui maggioranza sono arredi e utensili per la vita di tutti i giorni.
La visita, scomposta nei tre piani del palazzo, si presenta oggi come un’avvincente risalita nella storia partendo dal periodo più antico, quello Arcaico, fino ad arrivare all’epoca Orientalizzante. Il primo piano ospita, quindi, la ricostruzione del palazzo aristocratico Arcaico e, più avanti, il laboratorio artigianale del periodo Orientalizzante dove si producevano vari oggetti di lusso in oro, avorio e vetro per arricchire la casa del signore e per lo scambio con altre famiglie importanti. Proprio dal laboratorio proviene una sfinge di qualità talmente estrema che, per molto tempo, si pensò che fosse un manufatto proveniente da Oriente: gli etruschi erano però un popolo pacifico e amante del lusso le cui linee essenziali ed eleganti dell’oggettistica riescono, ancora oggi, a sprigionare una patina di fascino e mistero che sembra provenire da luoghi lontani e fin troppo civilizzati.
Gli scavi di Poggio Civitate iniziati durante il 1966 portarono, così, alla scoperta di una realtà archeologica fra le più ricche e complesse dell’Etruria settentrionale la cui abbondanza di materiale in terracotta proveniva principalmente dalle strutture di copertura degli edifici.
Tra gli strati che compongono la fase più antica del complesso architettonico emersero numerosi esemplari di vasi di bucchero, un’imponente collezione di manufatti di importazione greca e una vastissima gamma di vasi d’impasto e ceramica comune da cucina, insieme a grandi contenitori per l’acqua.
Lo studio delle forme e delle funzioni dei vasi, in particolare di quelli domestici, rivestì un ruolo fondamentale nel comprendere il modello alimentare di tale società, fornendo preziose informazioni sulle pratiche produttive e delineando con dovizia la vita di tutti i giorni e la cultura materiale dell’epoca, aprendo flebilmente una finestra sul passato.
I grandi pithoi, infossati nei pavimenti di terra battuta dei magazzini della residenza, conservavano acqua e cereali; le olle, abbondanti e di varie dimensioni, fungevano da recipienti per la cottura, ma anche per la conservazione di grasso e miele, mentre i fornelli a Murlo erano di due tipi: quelli utilizzati per sostenere la pentola sul fuoco, caratterizzati da cilindri aperti in alto e forati sui lati, e quelli piatti, aperti su un lato e chiusi da un coperchio a campana, utilizzati per la cottura di focacce di orzo o grano e verdure dell’orto.
La cultura figurativa che permeava sia gli arredi minori che la decorazione architettonica della residenza Arcaica di Poggio Civitate suscitò l’idea che tutta l’attività artistica fosse da attribuire a vasai e coroplasti operanti in loco, i quali utilizzavano sempre la stessa argilla per loro opere. Gli artisti di Murlo, con la loro fervida creatività, diedero vita a due produzioni ben distinte: una realizzata a stampo, con lastre decorative realizzate con matrici provenienti da modelli meridionali di Acquarossa e settentrionali di Chiusi; mentre l’altra era caratterizzata da opere a tutto tondo, come le grandi statue acroteriali, per le quali venne identificato il “Murlo style” locale, un tipo di artigianato privo di modelli di riferimento, con immagini dei progenitori del “clan” familiare dominante. Purtroppo, alla fine del VII sec a.C., il primo palazzo subì un brutale incendio che, secondo gli studi condotti, colse di sorpresa gli abitanti, che nella foga di scappare e mettersi in salvo lasciarono le mura in tutta fretta senza salvare beni e oggetti preziosi.
Con il crollo del tetto e delle mura, tutto ciò che fu lasciato nel palazzo rimase incapsulato tra le macerie, creando una sorta di deposito sigillato dalla successiva costruzione che facilitò la sua perfetta conservazione. La confusione regnava sovrana mentre il fuoco divorava tutto ciò che incontrava, trasformando il luogo in un inferno di panico e disperazione e, nel caos generato dall’incendio che devastò l’edificio, sia uomini che piccoli animali fuggitivi calpestarono accidentalmente le tegole rimaste ad asciugare sul pavimento, lasciando le proprie orme per sempre impresse nella polvere e nel fango. Tra i materiali recuperati durante lo scavo del complesso Arcaico di Poggio Civitate, una modesta percentuale comprende reperti metallici che consistono principalmente in piccoli oggetti di uso personale e strumenti domestici, mentre mancano totalmente manufatti di prestigio come vasellame o armi, presumibilmente rimossi dagli abitanti del sito al momento dell’abbandono.
Studiando il terribile incendio, gli archeologi scoprirono con estrema facilità le due fasi ben distinte del palazzo, la cui costruzione Orientalizzante differì soprattutto per le decorazioni sul tetto con figure animali e umane. Queste ultime erano rappresentate sedute o stanti con le braccia che scendevano rigidamente lungo il corpo e le mani chiuse in una stretta morsa come a trattenere quello che poteva essere un bastone o un serpente di legno.
Divenuto simbolo della zona di Murlo è colui che viene scherzosamente nominato “il cappellone”: un uomo dalla barba lunga e squadrata che si distingue proprio per il suo cappello a falde larghissime, adornato da una calotta altissima che si eleva a punta. Anche qui, gli studi evidenziarono come questo non fosse altro che un acroterio, ovvero un elemento decorativo raffigurante un Princeps antenato della famiglia di Poggio Civitate, che posero sul punto più alto dell’edificio in modo tale che potesse svolgere una doppia funzione celebrativa e apotropaica, agendo come divinità protettiva nei confronti dell’edificio e dei suoi abitanti.
Murlo e le colline di Poggio Civitate e Poggio Aguzzo raccontano le vicende di popoli antichi, le cui tracce attraverso il tempo vengono riprodotte con estrema cura e rispetto nelle varie sale del museo dove si scorgono, fin da subito, quelli che furono i tetti a tegole. Qualcosa che adesso è considerato banalmente strutturale era, in questo periodo, appannaggio di grandi re o principi e per tale motivo essi presentavano ricchi decori a traforo, ovvero con lastre d’argilla che venivano intagliate, essiccate e successivamente decorate con la pittura in cui venivano raffigurati fiori di loto, animali o scene mitologiche. Vicino alla ricostruzione del Palazzo, l’occhio del viandante potrebbe venire catturato da piccolissimi frammenti di tessere chiamate hospitales che erano delle lastre in avorio nelle quali veniva inciso il nome dell’ospite e dell’ospitato. Tra gli esemplari rinvenuti, uno dei frammenti riporta un’iscrizione parzialmente leggibile, in cui emerge la storia di un sardo etrusco che, passato da Tarquinia, arrivò dal Signore di Murlo che lo protesse ed è anche possibile che il crollo dell’edificio abbia contribuito alla conservazione di parte dell’archivio di una prestigiosa famiglia locale, contenente documenti relativi ai loro rapporti con altre famiglie aristocratiche dell’epoca.
Intorno al 525 a.C. gli abitanti, con tutta probabilità, si trasferirono altrove abbandonando il sito, ma solamente dopo aver deliberatamente distrutto il palazzo della seconda fase. Una distruzione, questa, testimoniata dalla cura con cui furono sepolte le decorazioni architettoniche in apposite fosse e dalla costruzione di un terrapieno attorno all’area edificata che suggerì agli studiosi un’uscita ordinata e consapevole dal sito.
E così, lasciandosi alle spalle le due fasi grandiose dei palazzi aristocratici, ci si dirige verso le ultime sale al piano più alto dell’edificio dove si scoprono numerosissimi corredi della necropoli di Poggio Aguzzo che rappresenta il principale sito sepolcrale noto associato a Poggio Civitate. Situato su un modesto rilievo collinare a nord-ovest dell’insediamento, fu parzialmente esplorato nel 1972 dalla missione universitaria americana che rivelò nove tombe a inumazione in fossa databili nel corso del periodo Orientalizzante medio e recente, quindi nella seconda metà del VII secolo a.C.
Nei corredi funerari recuperati, emerse un’accentuata connotazione guerriera, evidenziata dalla presenza di armi da difesa e da lancio in almeno quattro delle sepolture e seppur con un campione limitato, le variazioni nell’armamento suggerirono differenti ruoli militari correlati all’età e allo status sociale. Interessante è scoprire, tra le varie teche di vetro, lance in ferro con relativi puntali, sauroteres, spade e vasi per bere, tra cui un kyathos in bucchero con raffigurazione di guerriero e una brocca per vino, detta oinochoe, dalla forma insolita, probabilmente prodotta nelle officine ceramiche di Poggio Civitate. Mentre si procede scrupolosamente tra le armi e gli oggetti di uso comune rinvenuti nella necropoli, ogni passo sarà scandito dalla luce proveniente da una grande finestra che si apre nella quieta immensità dei colli toscani e che invita a proseguire con lo sguardo quella storia antica che si sviluppò sull’altura, proprio lì davanti a noi, di Poggio Civitate. Si scopre un paesaggio che muta a seconda delle stagioni, ma che resta sempre dolcissimo e immobile, e in cui il passato e il presente giocano scherzosamente fra loro, sovrapponendosi per l’eternità.