I tesori di Sant'Agnese in Agone, un sontuoso tempio del barocco a Roma


La chiesa di Sant’Agnese in Agone è uno dei templi più sontuosi del barocco romano. Costruita dal 1651 sul luogo del martirio di sant’Agnese, è un trionfo di marmi e capolavori dei grandi scultori del tempo.

La valorizzazione della Cripta di Sant’Agnese in Agone, con il nuovo sistema di illuminazione artistica e architettonica donato dal Gruppo Webuild, è l’occasione per andare alla riscoperta dell’intero complesso della sontuosa chiesa romana, protagonista della scenografia di Piazza Navona. Domani sera in piazza, dalle ore 19:30, ci sarà un concerto nella chiesa che risuonerà su tutta la piazza, accompagnato da uno spettacolo di luce, per celebrare il completamento dell’intervento di valorizzazione della cripta e la prossima apertura al pubblico.

Una vecchia leggenda, ormai radicata nell’immaginario collettivo, condiziona da lungo tempo il primo impatto con l’esuberante architettura di Sant’Agnese in Agone, antichissima chiesa romana costruita sul luogo dove la giovane Agnese subì il martirio. Tutto nasce dalla presenza di un’ingombrante dirimpettaia, la Fontana dei Quattro Fiumi di Gianlorenzo Bernini, protagonista assoluta della scena urbana di piazza Navona, e dal fascino della rivalità, vera o presunta, tra due giganti della Roma barocca, Bernini e Borromini. Già sul finire del Settecento, nella traduzione italiana del Nuovo Dizionario Istorico di Louis Mayeul Chaudon (stampata a Napoli nel 1791), veniva inserita una nota di inedito colore nella descrizione della piazza: “La Fontana di mezzo di Piazza Navona con quattro statue gigantesche rappresentanti quattro fiumi, una delle quali sta in un atteggiamento, che forma una specie di critica alla fabrica della chiesa di S. Agnese posta dirimpetto, opera del Borromini suo grande emulo [di Bernini], ma non uguale”.

Che ci sia stata raccontata da bambini, che la si abbia letta sulla Guida Rossa del Touring Club, fedele compagna di tanti viaggi, o che la si sia ascoltata da qualche abile cicerone, la vecchia storia del Nilo che si copre il volto per non vederne la facciata, o del Rio de la Plata che ne teme il collasso, hanno condizionato la percezione comune del maestoso edificio. Basta verificare le date per smontare il racconto (la fontana era già compiuta quando furono presentati i primissimi progetti per Sant’Agnese), e nessuno nutre più dubbi sulle qualità, estetiche e costruttive, della chiesa, riconosciuta ormai come una delle massime espressioni architettoniche della sua epoca, ma è pur vero che, quel senso di vertigine attribuito suo malgrado al Rio de La Plata (scolpito da Francesco Baratta nel 1651), può essere percepito (in senso del tutto positivo), anche dal visitatore moderno che si avvicina per la prima volta, o nuovamente, a Sant’Agnese.

Piazza Navona e Sant'Agnese in Agone
Piazza Navona e Sant’Agnese in Agone
Piazza Navona e Sant'Agnese in Agone
Piazza Navona e Sant’Agnese in Agone
Facciata di Sant'Agnese in Agone. Foto: Wikimedia/NikonZ7II
Facciata di Sant’Agnese in Agone. Foto: Wikimedia/NikonZ7II
La facciata di Sant'Agnese in Agone
La facciata di Sant’Agnese in Agone

La concavità della facciata attrae con forza magnetica e le doppie colonne ai lati dell’entrata, che sembrano prolungarsi nei pilastri del tamburo, accompagnano in un moto ascensionale che, attraverso i costoloni della calotta, culmina gloriosamente nel verticalismo della lanterna. L’elegantissima cupola incombe sulla piazza, tanto da sembrare parte della stessa facciata, ma le alte torri che la incorniciano concludono l’insieme in senso armonico, con perfetto equilibrio di proporzioni. Per ottenere questo effetto Borromini invase lo spazio dei palazzi adiacenti: il finestrone che si trova sotto il campanile sinistro, per esempio, che appare perfettamente integrato nella facciata, non corrisponde alla chiesa ma ad un ambiente del sontuoso palazzo Pamphili. Ai più attenti non sarà sfuggito il dettaglio di una scena del film La Grande Bellezza, quando Toni Servillo, nei panni del seducente Jep Gambardella, pronuncia una nota battuta affacciato proprio da quella scenografica apertura. Ed è a un membro della famiglia Pamphili, Giovanni Battista, meglio noto come papa Innocenzo X, che si deve l’edificazione della chiesa attuale, sorta su un precedente edificio oggetto di antichissimo culto; il risultato, unito al rifacimento del contiguo palazzo e alla fontana dei fiumi, sulla quale svettano le armi di casa Pamphili, avrebbe segnato per sempre il rinnovamento in chiave monumentale della piazza, sorta sul tracciato ellittico dell’antico stadio di Domiziano.

La vicenda costruttiva non fu delle più semplici: il progetto iniziale si deve all’architetto pontificio Girolamo Rainaldi, che si accinse ad affrontare l’impresa assieme al figlio Carlo. La prima pietra fu posta nel 1652 ma, a fronte delle critiche ricevute, i due furono presto rimpiazzati (1653) dal più estroso Francesco Borromini; questi lavorò al progetto per quattro anni, prima di essere a sua volta liquidato a favore di Carlo Rainaldi, che portò l’opera a compimento (1572) affiancato da Giovanni Maria Baratta e Antonio del Grande.

Il coinvolgimento di Baratta dovette essere particolarmente incisivo, non solo per il disegno delle torri, che gli si attribuisce, ma per avere egli iniziato a far lavorare le decorazioni e gli ornamenti di intaglio in marmo dal fratello Isidoro, nella natia Carrara, ponendo le basi per le fortune settecentesche della bottega di famiglia. Giovanni Maria riuscì anche a coinvolgere il più giovane fratello Andrea nel cantiere, procurandogli la commissione per una Santa Eugenia destinata all’attico dell’edificio, prima (e purtroppo unica realizzata) di una serie di analoghe sculture da porsi a coronamento della facciata.

Interno di Sant'Agnese in Agone
Interno di Sant’Agnese in Agone
La cupola dal basso. Foto: Wikimedia/LivioAndronico
La cupola dal basso. Foto: Wikimedia/LivioAndronico
La cupola
La cupola
Dettaglio con la Vergine che presenta sant'Agnese
Dettaglio con la Vergine che presenta sant’Agnese
La Prudenza
La Prudenza
La Giustizia
La Giustizia
La Fortezza
La Fortezza
La Temperanza
La Temperanza

L’interno conferma quel senso di movimento verticale chiaramente percepito dall’esterno: il cornicione aggettante, sopra le colonne, segna la demarcazione tra il registro inferiore, dal carattere fortemente scultoreo, e quello superiore, dominato dalla decorazione pittorica. Il corpo della chiesa è giocato sul contrasto tra il biancore dei marmi, il rosso della pietra persichina, e le preziose colonne in verde antico dell’altare maggiore, vestigia dell’arco di Marco Aurelio, provenienti da piazza Colonna.

Salendo con lo sguardo, si viene rapiti dal trionfo di stucchi dorati e dai colori delle virtù cardinali (1666-1672) affrescate dal Baciccio sui pennacchi, fin quando la luce che invade la chiesa dai finestroni dell’alto tamburo, non invita a raggiungere il grande affresco della cupola (iniziato nel 1670 da Ciro Ferri, allievo prediletto di Pietro da Cortona, e chiaramente ispirato a quello cortonesco di Santa Maria in Vallicella) dove, come all’apice di un crescendo, Sant’Agnese è finalmente introdotta alle glorie del Paradiso.

Nondimeno, nell’economia della chiesa, è la scultura a giocare un ruolo da protagonista assoluta, e pochi luoghi posso offrire un panorama così rappresentativo della statuaria tardobarocca. Anche in questo caso la vicenda è movimentata, con opere spesso eseguite da più artisti: ad Alessandro Algardi (Bologna, 1595 – Roma, 1654) subentrò Domenico Guidi, a Melchiorre Caffà (Vittoriosa, 1636 – Roma, 1667) Ercole Ferrata, e allo stesso Ferrata Leonardo Retti e Giovanni Francesco Rossi. Incorniciati come quadri, e posti sugli altari, cinque grandi rilievi, con le loro masse plastiche, dominano così lo spazio ottagonale della chiesa; il Martirio di Sant’Eustachio (Caffà-Ferrata-Rossi) la Morte di Sant’Alessio (Rossi), il Martirio di Sant’Emerenziana (Ferrata-Retti), la Morte di Santa Cecilia (Antonio Raggi) e il Ritorno della Sacra Famiglia dall’Egitto (Guidi), creano un insieme di enorme fascino, nel quale le differenze di linguaggio tra i vari autori sono mitigate dalla comune ispirazione algardiana. Le figure scolpite invadono il nostro spazio, oltrepassando i limiti imposti dalle cornici per coinvolgerci nel dramma sacro. Il rilievo, con la sua profondità, supera l’illusione della pittura e soddisfa quell’aspirazione, così teatrale e barocca, che mirava ad abbattere i confini tra la messa in scena e la vita reale, tra l’arte e lo spettatore, testimoniando la diffusione di una tipologia reimmaginata e reinventata dall’Algardi con l’Incontro di Leone I e Attila (ultimato nel 1753) in San Pietro, e che si sarebbe presto diffusa a macchia d’olio.

La Sacra Famiglia di Domenico Guidi. Foto: Krzysztof Golik
La Sacra Famiglia di Domenico Guidi. Foto: Krzysztof Golik
La Sant'Agnese di Ercole Ferrata
La Sant’Agnese di Ercole Ferrata
Il San Sebastiano di Paolo Campi. Foto: Wojciech Dittwald
Il San Sebastiano di Paolo Campi. Foto: Wojciech Dittwald

Una felice invenzione di Francesco Borromini, che modificò la pianta a croce greca progettata da Rainaldi, prolungandone le braccia, permette che due cappelle laterali completino la visione d’insieme goduta dal blocco centrale della chiesa. In questo caso, però, si interrompe la sequenza di pale d’altare in marmo e ci si trova di fronte a due scenografiche sculture a tutto tondo: la Sant’Agnese (1660) è un capolavoro di Ercole Ferrata, dove la scelta drammatica dell’azione scenica (il momento in cui la santa sopravvive al rogo grazie all’intervento divino) è funzionale alla mirabolante resa materica dei panneggi e delle lingue di fuoco, con suggestioni derivate da Bernini e Duquesnoy. Il più tardo San Sebastiano (1717-1719) di Paolo Campi, allievo di Le Gros è meno immediato, nel suo garbato inarcarsi, ma dimostra quanto radicata fosse la penetrazione di artisti (e committenti) apuani nel cantiere di Sant’Agnese. Ai già citati fratelli Baratta, a Guidi e allo stesso Campi, va infatti aggiunta la figura del cardinale Alderano Cybo, che risiedette nel palazzo Pamphili e fu coinvolto in prima persona nell’affidamento del rilievo per l’altare maggiore al conterraneo Guidi.

Uno dei luoghi più visitati del complesso è, senza dubbio, la cappella di San Filippo Neri, meta devozionale capace di attirare un continuo flusso di pellegrini: meno interessante sotto il profilo storico-artistico, la cappella è nota per ospitare, da inizio Novecento, la reliquia del cranio di Sant’Agnese, proveniente dalla basilica di Sant’Agnese fuori le mura, e conservata dal IX secolo nel Sancta Sanctorum in Laterano, all’interno di una preziosa teca d’argento oggi ai Musei Vaticani.

La visita, a questo punto, potrebbe sembrare compiuta, ma la storia, a Roma, si svolge sempre su più livelli e basta a volte aprire una porta, o scendere una scala, per entrare in una dimensione nuova e inaspettata. Dal corridoio che conduce alla cappella di San Filippo Neri si può accedere a una cripta cimiteriale dove riposano i membri della famiglia Pamphili (e Doria-Pamphili), tra i quali papa Innocenzo X, ma il vero tesoro si raggiunge dalla cappella di Sant’Agnese dove, a fianco alla statua di Ercole Ferrata, una ripida scala conduce alla cripta sottostante, con una discesa di pochi metri che permette di attraversare venti secoli di storia.

Anche noto come Sacellum Infimum, questo luogo di grande fascino consta di tre ambienti, ricavati dalle aule e dai fornici dello stadio di Domiziano, la grande struttura, inaugurata nell’86 d. C. che ancora segna il perimetro di piazza Navona. Talvolta chiamato, impropriamente, Circo Agonalis, l’impianto non era pensato per le corse di bighe e cavalli ma per competizioni atletiche e artistiche, e sembra fosse in grado di ospitare ottantamila spettatori.

La grotta è oggetto di antichissimo culto, ed è stata restaurata più volte. Risalgono alla fase seicentesca l’affresco con l’angelo che salva Agnese ed il pregevole altare in marmo impreziosito da un rilievo con la santa condotta al martirio: la figura della giovane è minuta, sopraffatta dall’imponente fisicità dei soldati romani, con le loro preziose bardature; la sua fragile nudità è coperta a mala pena dai capelli che, narra la tradizione, si allungarono per miracolo nel tragico frangente. Un’incisione di primo Ottocento, su disegno del pittore romano Andrea Pozzi, lo dice opera di Alessandro Algardi ma, un documento del XVII secolo, lo attribuisce all’altrimenti ignoto Giovanni Buratti, datandolo al 1661: molti sono dunque gli interrogativi, sia sull’eventuale paternità algardiana dell’invenzione, che sull’identità dello sconosciuto Buratti.

La Cripta di Sant'Agnese. Foto: Nicola Grossi/Danae Project
La Cripta di Sant’Agnese. Foto: Nicola Grossi/Danae Project
La Cripta di Sant'Agnese. Foto: Nicola Grossi/Danae Project
La Cripta di Sant’Agnese. Foto: Nicola Grossi/Danae Project
La Cripta di Sant'Agnese. Foto: Nicola Grossi/Danae Project
La Cripta di Sant’Agnese. Foto: Nicola Grossi/Danae Project

Gli ambienti sono decorati da affreschi neo medievali, eseguiti nel 1882 da un giovane Eugenio Cisterna, poi affermatosi come autore di grandi cicli decorativi di pittura sacra, e fondatore di una celebre manifattura di vetrate artistiche ancora in attività. L’intervento di fine Ottocento, curato da Giovanni Battista de Rossi (figura di grande rilevanza per gli studi di epigrafia e archeologia cristiane) è rimasto l’ultimo per più di un secolo: da allora la cripta è stata soggetta ad inondazioni del Tevere, infiltrazioni di pioggia e risalite di acqua, rimanendo inaccessibile a lungo.

Un recentissimo restauro, concluso nel 2023, ha sanificato e consolidato gli ambienti, resi nuovamente accessibili e fruibili, anche grazie al moderno sistema di illuminazione donato dal gruppo Webuild. L’iniziativa, che rientra nell’Agenda Cultura del gruppo, è stato pensato per garantire la conservazione del corpus di affreschi offrendo, al contempo, un’atmosfera intima e suggestiva, dove anche gli elementi tecnologici sono stati affidati alle restauratrici per raggiungere un elevato livello di mimetizzazione. è così possibile immergersi ancora in questo luogo carico di arte e storia, facendosi guidare dalle iscrizioni latine che rievocano la storia di Agnese, e raggiungere il luogo del suo martirio, dove fu eretto un altare sin dai primi secoli cristiani.

Il momento più toccante dell’intera esperienza si raggiunge entrando nell’angusta sala, decorata da resti di antichi affreschi, dove la tradizione vuole fosse trattenuta la santa martire: è qui che il dramma sacro si fa più umano e assume tratti universali. L’immagine di una giovanissima Agnese, poco più che bambina, costretta a prostituirsi in una squallida stanzina dello stadio di Domiziano, per aver rifiutato un matrimonio combinato, è di una forza straordinaria, e di grande attualità il grido di dolore contro ogni sopraffazione e violenza che sembra scaturire da queste antichissime mura.


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