C’è un importante brano di cultura cimabuesca racchiuso tra le pareti del Museo di Sant’Agostino a Genova. Un affresco staccato. L’iscrizione alla base riporta il nome di “Magister Manfredinus”: è un singolare San Michele dipinto nel 1292 da Manfredino d’Alberto, pittore documentato tra il 1274 e il 1293 (o il 1305 secondo studî più recenti), originario di Pistoia e per tal ragione noto anche come Manfredino da Pistoia. È uno degli unici due brani superstiti della decorazione ad affresco che Manfredino eseguì nella chiesa romanica di San Michele di Fassolo a Genova, andata in rovina già nel Settecento e definitivamente demolita il secolo successivo per far spazio alla stazione di Piazza Principe (per fortuna però si salvò il salvabile degli affreschi di Manfredino: era il 1849). L’altro brano che sopravvive è una Cena in casa di Simone, ma il ciclo era più vasto e comprendeva almeno un’altra scena evangelica, nonché una Battaglia degli angeli ribelli.
Sappiamo poco di questo artista, ma molti studiosi che hanno affrontato la sua produzione si son dimostrati concordi nel ritenerlo un pittore ch’ebbe modo di frequentare il cantiere della basilica superiore di San Francesco ad Assisi e di studiare con attenzione le opere di Cimabue. Pietro Toesca pensava addirittura che Manfredino avesse collaborato con Cimabue in Umbria. Altri invece pensano che Manfredino abbia visto le opere di Cimabue a Firenze. Ad ogni modo, la sua formazione cimabuesca è certa, come stabiliva già nel 1972 Pier Paolo Donati, che quell’anno firmava un pionieristico saggio su Manfredino d’Alberto. E il San Michele, opera firmata, costituisce la base per qualunque ricerca su questo originale pittore che all’inizio degli anni Novanta aveva lasciato la natia Pistoia per trasferirsi a Genova, proprio per attendere agli affreschi di San Michele, che potevano dirsi compiuti nel maggio del 1292. A spingerlo lontano da Pistoia, probabilmente la carenza di commesse. L’artista sarebbe poi rimasto in città: vi è attestato anche nel 1293, e dai documenti possiamo immaginare che fosse intenzionato a rimanervi, dacché quell’anno si premurò d’affidare il figlio Obertino a un maestro corazzaio, Ton da Firenze, come apprendista.
L’immagine che Manfredino restituiva sulle pareti di San Michele è una delle più eleganti che si trovino in Italia nell’ultimo scorcio del Duecento. L’arcangelo, alto, slanciato, dal portamento fiero e nobile, è colto nell’atto di trafiggere il demonio con la sua lancia: la figura dell’antagonista non è sopravvissuta allo strappo ottocentesco, vediamo solo l’ala nella parte bassa della composizione. Con l’altra mano, san Michele regge la bilancia con la quale pesa i meriti delle anime (ne vediamo una sul piatto, mentre prega verso il santo) e tiene in equilibrio le sorti dell’universo. Indossa una tunica rosa con fregi dorati, dove trovano posto gemme preziose: lungo la bordatura si notano alveoli che in antico ospitavano inserti a rilievo, probabilmente di pastiglia o altro materiale, che doveva rendere più realistici questi dettagli della veste. I panneggi sono sottolineati dalle crisografie tipiche dell’arte toscana del Duecento: questi raffinatissimi lampi dorati seguono l’andamento delle pieghe soprattutto dove la veste fascia le gambe dell’arcangelo, rendendo concreta la sua evidenza corporea. Un lembo della veste svolazza sulla sinistra: assieme alle ali spiegate, studiate sulle vere ali d’un uccello, il dettaglio contribuisce a fornire al riguardante l’illusione del movimento.
Il San Michele di Manfredino è uno dei vertici della pittura medievale genovese: testimonia l’arrivo in Liguria delle novità che s’erano elaborate in Toscana, ed è un’attestazione della precisa volontà dei committenti genovesi di aggiornare l’arte locale. Ma dimostra anche come la cultura cimabuesca abbia attecchito a Pistoia, proprio grazie al tramite di Manfredino, che consentì al rinnovamento di giungere in città: il legame col maestro fiorentino, che in città si sostanzia in opere come la decorazione dell’abside di San Bartolomeo in Pantano, restituisce a Manfredino il “ruolo di artista autoctono più importante durante la seconda metà del Duecento”, ha scritto Angelo Tartuferi nel catalogo della fondamentale mostra Medioevo a Pistoia, la prima dedicata alle vicende artistiche della città, che fu per secoli imprescindibile crocevia d’artisti, tra l’XI e il XIV secolo. E sempre secondo Tartuferi, la bella veduta di città che appare nella Cena in casa di Simone (che sorprende per il suo naturalismo: basti guardare la figura della Maddalena che si getta con trasporto ai piedi di Cristo, altra figura che risente in maniera palese dei riflessi dell’arte di Cimabue, o quel brano, si potrebbe dire con grande azzardo, di natura morta avanti lettera rappresentato dal vasellame e dalle pietanze sul tavolo) “costituisce l’elemento più importante per tenere aperta la questione dell’eventuale presenza di Manfredino nella squadra di aiuti di Cimabue nel cantiere della basilica superiore di San Francesco ad Assisi”. Quella veduta ha tutte le caratteristiche per apparire come un vivido ricordo di ciò che Manfredino può aver visto ad Assisi. Ma è in generale tutta l’impostazione dei due brani di Manfredino che ricorda i lavori assisiati: “non occorrono molti argomenti né troppi confronti”, scriveva Donati, “per stabilire che i dipinti genovesi sono prossimi agli affreschi del transetto di Assisi e che a quelli si rifanno puntualmente, dalle architetture sul fondo, che delle città dipinte nelle vele dimenticano solo gli embrici dei tetti, ai volti costruiti opponendo agli antichi schemi una volontà di ritrovare nei nuovi segni un significato sincero”. Del Cimabue d’Assisi, Manfredino riprende fianco i colori, anche se nel San Michele del Museo di Sant’Agostino il giudizio è viziato dal degrado che l’affresco ha subito: così, esattamente come negli affreschi di Assisi, anche qui la pelle dell’arcangelo ci appare verdastra, per gli effetti dell’ossidazione.
Manfredino d’Alberto è stato dunque ponte tra la Toscana e la Liguria, e il suo apporto è stato decisivo per il rinnovamento delle arti a Genova e dintorni. Prova ne è anche, ha giustamente rilevato Clario Di Fabio, autore d’uno dei più approfonditi studî sulle opere genovesi di Manfredino, la formazione “di quel protagonista che fu il cosiddetto Maestro di Santa Maria di Castello”, autore di notevoli opere nella prima metà del Trecento, le cui radici affondano nell’esperienze del pittore pistoiese. Ulteriore simbolo d’un’epoca in cui gli artisti viaggiavano di frequente, si scambiavano idee, diffondevano modelli.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).