Nella Giornata della Memoria è nostra volontà, ormai da qualche anno a questa parte, raccontare storie di artisti ebrei che hanno vissuto sulla propria pelle l’odio razziale e la tragica esperienza dell’Olocausto, la deportazione nei campi di concentramento e le condizioni disumane che questi hanno dovuto subire da parte dei nazisti guidati da un unico e solo scopo: l’eliminazione totale di una razza da loro considerata non pura e quindi inferiore. Storie che nella maggior parte dei casi si sono concluse nel modo più tragico, storie di persone che hanno visto morire i propri cari e che magari loro si sono salvate, portandosi dietro tutto il dolore inestimabile; storie di continua sofferenza perché nulla si può dimenticare. E nulla deve essere dimenticato, soprattutto da parte di chi la Shoah non l’ha mai vissuta, perché nulla si ripeta mai più. Non solo in occasione di questa giornata ma, al di là della retorica, tutti i giorni dell’anno ci si dovrebbe ricordare che nessuno ha il diritto di calpestare la dignità di un’altra persona e di arrivare addirittura ad ucciderla per qualunque motivo esso sia.
La storia che vi vogliamo raccontare oggi è quella di un artista sopravvissuto all’Olocausto, Samuel Bak (Vilna, 1933), tuttora vivo, a cui è stato intitolato nel novembre del 2017 un museo come parte del Museo ebraico statale di Vilna, capitale della Lituania e sua città natale. Bak ha donato a quest’istituzione molte delle sue opere che ripercorrono la sua attività artistica, e l’istituto lo ha omaggiato dedicandogli ancora in vita parte del museo perché diventi testimonianza della sua vita e della sua arte per generazioni presenti e future. “Sono giunto a un’età in cui gran parte della mia vita è ormai alle mie spalle, e sono stato molto fortunato. La mia arte è apprezzata e mi consente una vita dignitosa, mi ha concesso premi, riconoscimenti e lauree honoris causa, ma ogni volta mi sentivo solo”, aveva dichiarato l’artista stesso alla cerimonia di apertura del museo a lui dedicato. “Oggi però ho la netta sensazione che un’intera folla mi circondi: mio padre, i miei nonni, zie e zii, e un’enorme folla di ebrei senza volto della vecchia Vilna, una moltitudine di persone, un terzo della popolazione della città, le cui vite giunsero a una tragica fine. È per loro che ho donato allo stato lituano un’ampia raccolta della mia produzione. È alla loro memoria che dedico il Bak Museum”.
Nato nel 1933 a Vilna, Samuel Bak ha dimostrato fin da bambino uno straordinario talento artistico, ma come tutti gli ebrei all’epoca dell’occupazione nazista ha dovuto subire i soprusi razziali: Vilna è stata occupata dai tedeschi nel 1940 e perciò Samuel e la sua famiglia sono stati costretti a trasferirsi nel ghetto della città. Lui e suoi genitori sono stati successivamente trasferiti in un campo di lavoro forzato (l’Arbeitslager 562 di Vilna) e alla fine della guerra gli unici sopravvissuti della sua famiglia erano lui e sua madre perché sono riusciti a rifugiarsi in un convento benedettino. Suo padre è stato fucilato nel luglio 1944, pochi giorni prima della liberazione da parte dei sovietici. Con sua madre ha lasciato la nazione e dal 1945 al 1948 hanno vissuto in campi profughi in Germania. Sono emigrati successivamente in Israele, dove Samuel ha studiato arte all’Accademia delle Arti e del Design di Bezalel a Gerusalemme; ha proseguito poi gli studi a Parigi, ha trascorso vari periodi a Roma, in Svizzera e in Israele e si è stabilito definitivamente negli Stati Uniti dove tuttora vive. Vivendo l’esperienza dell’Olocausto da bambino, riuscendo fortunatamente a sopravvivere, e seguendo in seguito la sua passione per la pittura, nelle sue opere si ritrovano i temi legati a quel periodo: durante la sua carriera ha infatti trasferito su tela tutto ciò che era legato alle atrocità della guerra. Sono quindi opere di forte impatto, dove la distruzione e la frammentarietà regnano sia nei soggetti che nelle ambientazioni rappresentate, ma soprattutto sono significative dal punto di vista storico e sociale, perché raffigurano ciò che della guerra aveva visto con gli occhi di bambino. Molte delle sue immagini derivano dalla sua infanzia, come orsacchiotti e barchette giocattolo (un esempio è Interruptions) che diventano simboli dell’innocenza perduta. Sono opere che esprimono la memoria dell’Olocausto e la sofferenza di un sopravvissuto con la quale cerca di convivere per tutta la vita. Samuel Bak è infatti un artista che è stato capace di rappresentare il sentimento della perdita, la distruzione del mondo familiare e del mondo circostante; è un lutto visto dal punto di vista privato, ma che diviene di portata universale. Significativo è il dipinto The Family, in cui l’artista dedica l’opera alla memoria dei membri della sua famiglia uccisi dalla follia nazista.
“So che ciò che dipingo nasce da un bisogno compulsivo di dare un senso al fatto miracoloso della mia sopravvivenza”, aveva commentato. “Cerca di placare un triste senso di smarrimento. Nasce dalla paura che, in un mondo di sconvolgimenti senza precedenti, le cose non siano mai quello che sembrano. Il mio lavoro rivela una realtà osservata attraverso gli occhi di un bambino, che è improvvisamente cresciuto. Qualcuno potrebbe chiamarla elaborazione di un trauma; spero che la mia arte sia più di questo”.
Bak non ha mai dipinto scene di morte di massa, ma ha utilizzato la sua esperienza personale per riferirsi a un pericolo di amnesia collettiva rispetto a tutti gli atti di barbarie che avvengono nel mondo in qualsiasi momento.
Ispirandosi alla Creazione di Adamo di Michelangelo, capolavoro della volta della Cappella Sistina, a distanza di cinque secoli, ha realizzato Creation of Wartime III: vestito di un uniforme a brandelli Adamo è seduto, in uno spazio delimitato da ciò che rimane di due pareti, su un mucchio di detriti, resti di una casa, tra cui piatti, scarpe consumate, coperte sporche e una sedia rotta; l’uomo allunga il braccio per toccare con la punta delle dita (qui il confronto si fa palese) le dita di Dio, o meglio, della sagoma di Dio formata dal buco sulla parete di fondo. La sagoma sta a significare l’assenza di Dio durante l’Olocausto, a cui alludono i camini fumanti dei forni crematori che si vedono in lontananza. La croce sulla destra alla quale è avvolto un telo bianco allude invece alla crocifissione di Cristo. Il dipinto è ricco di riferimenti alla guerra e alla forza distruttiva dell’uomo; l’artista non raffigura dunque qui la creazione dell’umanità, ma l’esistenza dell’uomo già all’indomani della guerra in contrapposizione alla mancanza di Dio. Bak mette in questo modo in discussione l’esistenza stessa di Dio per non aver fermato l’uccisione di tante vittime innocenti.
Uno dei simboli più ricorrenti è quello di un bambino con le mani alzate, che si ispira alla famosa fotografia del bambino ebreo nel ghetto di Varsavia, riguardo alla quale Bak ha scritto: “Non ho potuto fare a meno di riflettere sui milioni di bambini che muoiono nei conflitti, nelle guerre e nei genocidi insensati dell’uomo, passati e presenti. Ho pensato: ’Che indicibile abuso dei nostri giovani innocenti’”. Nella serie Icon of Loss l’artista ha ripreso la posa del bambino del celebre scatto e l’ha reinterpretata in varie versioni, come sagoma in un muro di mattoni, come un bambino in carne e ossa che ci viene incontro dopo la crocifissione o all’interno di una struttura in legno in fiamme. Un bambino che avrebbe potuto essere Samuel Bak stesso, ed ecco che tutte quelle immagini che raccontano la sofferenza di un suo alter ego bambino assumono un senso universale.
Quella sofferenza non ha mai abbandonato Bak uomo e artista, e le sue opere, nonché il museo a lui intitolato, ne sono testimonianza. Si è salvato, ma la Morte lo ha segnato per sempre.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.