Il Sacro Monte di Varallo: un percorso emozionante, tra fede e grande arte


Nato come “alternativa” al pellegrinaggio in Terra Santa, il Sacro Monte di Varallo, fondato sul finire del Quattrocento, è un percorso di 44 cappelle che ricreano la vita di Gesù in modo emozionante e coinvolgente. Vi lavorarono molti grandi artisti.

Il Sacro Monte di Varallo, scriveva il grande storico dell’arte Giovanni Testori, è “uno dei monumenti più inattesi, più grandi ed eccezionali che l’arte del Nord Italia abbia edificato, in chiara, meditata e solenne risposta a quelli che erano i divini teoremi e le divine poetiche degli ‘uomini d’oro’ del Rinascimento italiano”. Secondo Testori, questo luogo straordinario rappresenta la risposta più piena, libera, “affrancata e possente che sia risuonata dal Po in su nei primi decenni del Cinquecento, non solo per il suo senso, che fu totalmente popolare e plebeo nei confronti di un’arte tesa, invece, all’assoluto principesco, aristocratico e cortigiano, ma altresì per l’inedita invenzione (e commistione) dei mezzi con cui venne realizzata”.

Aggrappato a un colle che sovrasta la cittadina di Varallo, nel cuore della Valsesia, il Sacro Monte di Varallo, che appare da lontano come una sorta di cittadella, è il più antico (oltre che il più noto e il più artisticamente interessante) dei nove sacri monti che sorgono sulle alpi piemontesi e lombarde e che oggi compongono il sito, Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco, dei “Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia” (gli altri otto sono quelli di Belmonte, Crea, Domodossola, Ghiffa, Oropa, Orta, Ossuccio e Varese): è un complesso monumentale composto da quarantaquattro cappelle e da una basilica che inizialmente intendevano riprodurre i luoghi più significativi di Gerusalemme per offrire una valida alternativa ai fedeli impossibilitati a recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa, anche se poi, col passare dei secoli, il progetto cambiò forma per diventare una sorta di grande racconto evangelico, al fine di consentire al cristiano di ripercorrere tutta la vita di Cristo attraverso uno scenografico complesso che fonde tutte le arti (architettura, pittura e scultura) e che rappresenta uno dei più interessanti esempi di arte nata per il popolo di tutta la storia dell’arte del Cinquecento.

Per Testori, al quale si devono le più appassionate parole che hanno descritto questo luogo meraviglioso, il Sacro Monte era il “Gran Teatro Montano”: un teatro che si compone di ottocento sculture, in legno o in terracotta, tutte a grandezza naturale e connotate da un vivo realismo descrittivo, che si muovono dentro cappelle affrescate per ricreare i luoghi menzionati nei Vangeli onde rendere ancor più partecipe il fedele, dandogli l’impressione di trovarsi al centro di ogni scena. Una sacra rappresentazione in grado di suscitare un forte coinvolgimento da parte del fedele, peraltro in passato chiamato a percorrere interamente a piedi la salita che dalla città porta al Sacro Monte, rendendo l’ascesa al colle sopra Varallo una sorta di personale calvario che intendeva richiamare i patimenti fisici subiti da Cristo lungo la sua salita per salvare l’umanità dal peccato (oggi una strada carrabile e una funivia facilitano il compito, ma il modo più genuino per andare al Sacro Monte è ancora conquistarselo a piedi). La storica Lucetta Scaraffia ha scritto parole molto efficaci per rendere evidente il significato della salita al monte: "Mia nonna, contadina astigiana nata a metà dell’Ottocento, avevaa fatto un solo viaggio nella sua vita: era andata al Sacro Monte di Varallo con la parrocchia. Al ritorno, alla famiglia riunita che attendeva con ansia le sue impressioni, disse semplicemente: ‘È successo davvero’. A lei, come a molti altri pellegrini nei secoli, l’esperienza del pellegrinaggio al Sacro Monte aveva dato la sensazione concreta che la storia raccontata dai Vangeli era vera, quasi come se l’avesse vista svolgersi sotto i suoi occhi. Nei primi anni del Novecento, il motivo per cui era stato costruito quell’insieme straordinario di cappelle nel corso di due secoli era ancora valido, almeno per il popolo dei devoti”.

Panorama di Varallo
Panorama di Varallo


Panorama del Sacro Monte di Varallo
Panorama del Sacro Monte di Varallo


Ingresso al Sacro Monte
Ingresso al Sacro Monte


Cappelle del Sacro Monte
Cappelle del Sacro Monte


Cappelle del Sacro Monte
Cappelle del Sacro Monte


Cappelle del Sacro Monte
Cappelle del Sacro Monte


La scala santa
La scala santa


Ingresso al Santo Sepolcro
Ingresso al Santo Sepolcro


La piazzetta del Sacro Monte
La piazzetta del Sacro Monte


La piazzetta del Sacro Monte
La piazzetta del Sacro Monte


La piazzetta del Sacro Monte
La piazzetta del Sacro Monte


La storia del Sacro Monte di Varallo

Le origini del Sacro Monte di Varallo rimontano al 1478, quando il frate francescano Bernardino Caimi (Milano, 1425 - 1500) compì un pellegrinaggio in Terra Santa ma si rese presto conto di come, a causa della presenza dei turchi che arrivava a minacciare i pellegrini cristiani che da ogni parte d’Europa si recavano verso i luoghi dove visse Gesù, per molti fosse estremamente difficile sostenere il viaggio. Per altri invece si trattava semplicemente di un’impresa insostenibile, per mancanza di risorse. Di qui, dunque, l’idea di progettare in Italia una Nuova Gerusalemme per permettere, a chi non aveva le possibilità, di fare un pellegrinaggio vicino a casa, ma vivendo un’esperienza simile a quella della Terra Santa. Caimi progettò dunque di ricreare a Varallo i luoghi sacri di Gerusalemme: i lavori del complesso architettonico partirono già a fine Quattrocento (grazie anche al decisivo sostegno economico della famiglia Scarognini, ricchi proprietari terrieri di Varallo, che era molto vicina a Caimi e appoggiò di buon grado il suo progetto: all’epoca in cui il Sacro Monte cominciò a essere elaborato, un membro della famiglia, Milano Scarognini, era podestà della Valsesia), ed entro il 1491 la chiesa e il convento di Santa Maria delle Grazie erano già completati, e lo stesso vale per le due cappelle del Santo Sepolcro e della Deposizione.

Il progetto sopravvisse a Caimi, che scomparve nell’anno 1500, e prese una fisionomia diversa: l’iniziale intento di riprodurre esattamente i luoghi sacri di Gerusalemme mutò infatti in un percorso che intendeva illustrare tutta la vita di Cristo in ordine cronologico. Inoltre, nel 1513 fu chiamato al Sacro Monte uno dei maggiori artisti del tempo, Gaudenzio Ferrari (Valduggia, 1476 circa - Milano, 1546), che lavorò nel sito fino al 1528, dando vita a modelli narrativi basati su alcuni valori chiave molto vicini al sentire popolare (il forte coinvolgimento emotivo e la semplicità di lettura) che avrebbero poi informato tutta la decorazione del Sacro Monte di Varallo anche nei decenni e nei secoli a venire. Parallelamente, nel 1514 i francescani del luogo redigevano la prima guida del monte, intitolata “Questi sono li misteri che sono sopra al monte de Varade”, che rappresenta ancor oggi un documento di grande importanza perché ci dà notizia di come fosse il Sacro Monte di Varallo negli anni immediatamente successivi alla scomparsa di Bernardino Caimi.

Nel secondo Cinquecento fu chiamato a Varallo l’architetto Galeazzo Alessi (Perugia, 1512 - 1572), che tra il 1565 e il 1569 redasse un progetto di trasformazione del complesso: sarebbe stato arricchito di giardini e fontane e le cappelle sarebbero state trasformate in tempietti di gusto classicheggiante. Alessi immaginò un intervento radicale che si scontrò però con le idee dei francescani che gestivano il Sacro Monte, e che temevano che le modifiche avrebbero snaturato il progetto di padre Caimi: solo la mediazione di Carlo Borromeo portò i frati ad accogliere alcune delle modifiche suggerite da Alessi. Il Sacro Monte di Varallo assunse però l’attuale aspetto solo nel Seicento, quando alcuni dei maggiori artisti del tempo furono chiamati in Valsesia: Jan de Wespin detto “il Tabacchetti” (Dinant, 1568 circa - Costigliole d’Asti, 1615), Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone (Morazzone, 1573 - Piacenza, 1626) e soprattutto i fratelli Giovanni d’Enrico (Alagna, 1559 - Borgosesia, 1644) e Antonio d’Enrico, quest’ultimo meglio noto come Tanzio da Varallo (Alagna, 1582 circa - Varallo?, 1633). Si devono a Giovanni, che lavorò al Sacro Monte per ben trentacinque anni (dal 1605 al 1640) più di 330 delle sculture che ancor oggi vi si possono vedere, mentre Tanzio collaborò affrescando le pareti. E sempre Giovanni progettò, assieme a Bartolomeo Ravelli, la nuova basilica, dedicata alla Vergine Assunta: la costruzione, cominciata nel 1614, finì nel 1713. Solo però nel 1896 il progetto del Sacro Monte poté dirsi finalmente terminato: quell’anno, infatti, la basilica venne dotata di una facciata in marmo bianco di Carrara, progettata da Bartolomeo Cerutti. Durante i secoli, il grande afflusso di pellegrini ha reso necessarie molte modifiche alle modalità di accesso: già dal XX secolo non era più possibile, infatti, entrare nelle cappelle. Le scene si osservano da fuori, attraverso vetri o grate, con la conseguenza che al giorno d’oggi l’impatto che il Sacro Monte ha sul visitatore è molto diverso rispetto a quello immaginato da Gaudenzio Ferrari, che fu il primo artista a pensare a una forma di coinvolgimento diretto del fedele. Oggi, il Sacro Monte di Varallo è un bene di proprietà del Comune di Varallo, mentre la gestione degli aspetti di conservazione e valorizzazione è compito dell’Ente di Gestione dei Sacri Monti, istituito nel 2012 dalla Regione Piemonte.

Cappella della Natività. Sculture di Gaudenzio Ferrari.
Cappella della Natività. Sculture di Gaudenzio Ferrari. Foto Finestre sull’Arte


Cappella dell'Adorazione dei Magi. Sculture di Gaudenzio Ferrari. Foto Finestre sull'Arte
Cappella dell’Adorazione dei Magi. Sculture di Gaudenzio Ferrari. Foto Finestre sull’Arte


Cappella della Strage degli Innocenti. Sculture di Giacomo Paracca Bargnola di Valsolda e Michele Prestinari. Foto di Angela Langhi
Cappella della Strage degli Innocenti. Sculture di Giacomo Paracca Bargnola di Valsolda e Michele Prestinari. Foto di Angela Langhi


Cappella della Guarigione del paralitico. Sculture di Giovanni d'Enrico, affreschi di Cristoforo Martinolio. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella della Guarigione del paralitico. Sculture di Giovanni d’Enrico, affreschi di Cristoforo Martinolio. Foto di Finestre sull’Arte


Cappella della cattura di Cristo. Sculture di Giovanni d'Enrico e Giovanni Battista Corbetta, affreschi di Melchiorre d'Enrico. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella della cattura di Cristo. Sculture di Giovanni d’Enrico e Giovanni Battista Corbetta, affreschi di Melchiorre d’Enrico. Foto di Finestre sull’Arte


Cappella di Gesù al tribunale di Pilato. Sculture di Giovanni d'Enrico, affreschi di Tanzio da Varallo. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella di Gesù al tribunale di Pilato. Sculture di Giovanni d’Enrico, affreschi di Tanzio da Varallo. Foto di Finestre sull’Arte


Cappella della Flagellazione. Sculture di Giovanni d'Enrico, affreschi di Cristoforo Martinolio. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella della Flagellazione. Sculture di Giovanni d’Enrico, affreschi di Cristoforo Martinolio. Foto di Finestre sull’Arte


Cappella dell'Incoronazione di Spine. Sculture di Giovanni d'Enrico, affreschi di Gian Giacomo Testa e Melchiorre d'Enrico. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella dell’Incoronazione di Spine. Sculture di Giovanni d’Enrico, affreschi di Gian Giacomo Testa e Melchiorre d’Enrico. Foto di Finestre sull’Arte

Il percorso

Il percorso è diviso in due parti: le prime cappelle sono immerse in un bosco rigoglioso dentro al quale si snoda un sentiero acciottolato con, a fianco, alte siepi di bosso, mentre le rimanenti si trovano attorno alla piazza sulla quale sorge la basilica. Le due aree sono identificate come l’area ascendente e l’area sommitale, quest’ultima organizzata come una città dalle splendide architetture urbane rinascimentali (oggi il Sacro Monte dispone anche, nella piazza della basilica, di un bar, di un negozio, di servizi igienici, di un albergo ristorante). Il percorso comincia dall’antefatto, il Peccato originale (1565-1566): le statue di Adamo ed Eva, realizzate da Wespin e da Michele Prestinari alla fine del Cinquecento, sono ospitate in un tempietto di Alessi decorato all’esterno con affreschi dei fratelli Rovere d’inizio Seicento e all’interno con le pitture di Francesco Burlazzi, del 1885-1886. Si entra quindi nel racconto evangelico, con la cappella dell’Annunciazione (1515), che presenta all’interno statue lignee attribuite a Gaudenzio Ferrari. La successiva cappella della Visitazione (1544) è tra quelle modificate da Alessi (1572) e accoglie sculture in terracotta iniziate da Wespin e terminate da Ravalli. La quarta cappella, quella del Sogno di Giuseppe (1603-1604), vede sculture in terracotta di Giovanni d’Enrico, mentre con la quinta, la cappella dei Magi (1519-1525), cominciano le scene più coinvolgenti e affollate: le sculture qui sono di Gaudenzio Ferrari e dei suoi collaboratori. Le due successive cappelle, quella della Natività e quella dell’Adorazione dei Pastori, sono tra le poche costruite direttamente sotto la guida di Caimi, mentre le sculture sono successive (sono tutte di Ferrari, del 1515 circa). Opera di Gaudenzio Ferrari è anche la cappella della Presentazione di Cristo al Tempio, mentre la cappella successiva, quella del Secondo Sogno di Giuseppe, è anch’essa di Alessi, al pari della decima, la cappella della Fuga in Egitto (con sculture di autore ignoto e affreschi ottocenteschi di Francesco Burlazzi). Decisamente spettacolare è la cappella XI della Strage degli Innocenti (1586-1588), costruita con risorse messe a disposizione da Carlo Emanuele I di Savoia, che visitò il Sacro Monte nel 1584: fu progettata dai D’Enrico, che si ispirarono alle realizzazioni di Alessi, mentre le sculture sono di Giacomo Paracca Bargnola di Valsolda e di Michele Prestinari. Superata la cappella del Battesimo di Gesù (1575), una delle artisticamente meno interessanti del complesso, al pari della cappella della Tentazione di Cristo e quella della Samaritana, si arriva alle due cappelle alessiane del 1572 dedicate a due miracoli di Cristo: la guarigione del paralitico (statue di Giovanni d’Enrico, affreschi di Cristoforo Martinolio) e la resurrezione del figlio della vedova di Naim (statue di Bartolomeo Badarello, affreschi di Domenico Alfano).

La scenografica cappella XVII della Trasfigurazione, una delle più magniloquenti del complesso, è un’altra di quelle edificate secondo il progetto di Alessi e vede sculture di Pietro Francesco Petera e Giovanni Soldo da Camasco, con affreschi dei fratelli Montalto (anni Sessanta e Settanta del Seicento). Altrettanto spettacolare è la cappella della resurrezione di Lazzaro (entro il 1580), con sculture di Bartolomeo Badarello e affreschi di Gian Giacomo Testa che dipinse una teoria di personaggi che osservano l’evento miracoloso. Badarello è anche il responsabile delle statue della cappella dell’entrata in Gerusalemme, anch’essa del 1580 e anch’essa affrescata da Testa, cui in questo caso s’aggiungono Antonio Borsetti e Giovanni Avondo. Seguono due cappelle della fine del Quattrocento: quella dell’Ultima Cena (le nature morte del tavolo sono state attribuite a Giovanni d’Enrico, mentre gli affreschi sono di Antonio Orgiazzi) e quella della preghiera nell’Orto degli Ulivi. Di Giovanni d’Enrico sono anche le statue della successiva cappella di Gesù che sveglia i discepoli, del 1606. Al terzo fratello, Melchiorre d’Enrico (Alagna 1573 circa - Varallo, 1642 circa), si devono invece gli affreschi della cappella della Cattura di Gesù. La cappella che viene dopo, quella di Gesù al tribunale di Anna, è la più recente, risalente al 1737 e contenente statue di Antonio Tantardini e di Giovanni Battista Bernero, e affreschi del 1765 di Sigismondo Betti. Giovanni d’Enrico pose la sua firma sulle quattro cappelle che seguono: quella di Gesù al tribunale di Caifa del 1614-1618, quella del pentimento di san Pietro del 1630-1635 (suo il disegno e sue le statue, mentre gli affreschi sono di Cristoforo Martinolio), quella di Gesù per la prima volta davanti a Pilato dove Giovanni collaborò col fratello Tanzio a cui si devono gli affreschi, e quella di Gesù davanti a Erode (1619), altro esempio di collaborazione tra Giovanni che fornì disegni e statue, e Tanzio che l’affrescò. La cappella XXIX, con Gesù per la seconda volta davanti a Pilato (1610) è stata invece progettata da Giovanni e Girolamo Grandi, e arricchita con le statue di Giovanni d’Enrico e Giacomo Ferro (1629 circa) nonché con gli affreschi di Pier Francesco Gianoli (1678-1679). Segue quindi la Flagellazione, con terrecotte del 1615 circa di Giovanni d’Enrico e affreschi di Cristoforo Martinolio. Sono di Giovanni d’Enrico (ma del 1607) anche le statue della seguente cappella della Coronazione di spine, affrescata da Gian Giacomo Testa e Melchiorre d’Enrico nel 1614.

La drammatica cappella di Gesù che sale la scala del Pretorio (1602-1627) è invece popolata delle statue in legno attribuite a Gaudenzio Ferrari (cui forse si devono il Cristo e uno degli sgherri) e quelle in terracotta di Giovanni d’Enrico (tutte le altre), sullo sfondo degli affreschi di Gianoli. Segue una teoria di spettacolari cappelle, quelle dov’è raccontata al fedele la parte più concitata e “pubblica” della Passione, a cominciare dalla cappella dell’Ecce Homo (1605), con i personaggi principali che si assiepano addirittura su di un balcone (le statue qui sono di Giovanni d’Enrico e gli affreschi del Morazzone). Si arriva poi alla cappella di Pilato che si lava le mani (1610), con statue di Giovanni d’Enrico del 1617 e affreschi di suo fratello Tanzio da Varallo (1628-1630). Del 1610 è anche la cappella di Gesù condannato a morte, con le sculture di Giovanni d’Enrico (1609-1610) e gli affreschi del Morazzone (1614), che tra il 1607 e il 1608 affrescò anche la successiva cappella della salita al Calvario del 1589 (con statue di Wespin e Giovanni d’Enrico del 1599-1600, e affreschi del Morazzone). Con la cappella XXXVII si arriva all’episodio di Gesù inchiodato alla croce, con statue di Giovanni d’Enrico e Giacomo Ferro, mentre la scena della Crocifissione, nella cappella vicina, si deve per intero (sia per le statue sia per gli affreschi) a Gaudenzio Ferrari. La cappella della Deposizione è invece opera di Giovanni d’Enrico e Giacomo Ferro che s’occuparono delle statue e di Melchiorre Gilardini detto il Ceranino che la affrescò. La cappella della Pietà, così come la seguente di Gesù deposto nella sindone, risalgono all’epoca di padre Caimi, anche se furono decorate successivamente (nella cappella della Pietà le sculture sono di Giovanni d’Enrico, mentre la cappella seguente è ottocentesca). C’è poi una cappella, la quarantaduesima (l’altare di san Francesco), dedicata a padre Caimi: si tratta di un edificio costruito sul luogo dove il francescano celebrò la prima messa al Sacro Monte di Varallo. Il percorso finisce con la prima cappella che fece costruire padre Caimi, quella del Santo Sepolcro (è la più antica: risale al 1491) e con la Fontana della Resurrezione, considerata la quarantaquattresima cappella, cui s’aggiunge, all’interno della basilica, l’ultima tappa del percorso, il coro dell’edificio sacro in cui è rappresentata la gloria della Vergine, opera settecentesca.

Cappella dell'Ecce Homo. Sculture di Giovanni d'Enrico, affreschi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella dell’Ecce Homo. Sculture di Giovanni d’Enrico, affreschi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone. Foto di Finestre sull’Arte


Cappella dell'Ecce Homo. Sculture di Giovanni d'Enrico, affreschi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone.
Cappella dell’Ecce Homo. Sculture di Giovanni d’Enrico, affreschi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone.


Cappella di Pilato che si lava le mani. Sculture di Giovanni d'Enrico, affreschi di Tanzio da Varallo. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella di Pilato che si lava le mani. Sculture di Giovanni d’Enrico, affreschi di Tanzio da Varallo.Foto di Finestre sull’Arte


Cappella della salita al Calvario. Sculture di Jan de Wespin e Giovanni d'Enrico, affreschi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella della salita al Calvario. Sculture di Jan de Wespin e Giovanni d’Enrico, affreschi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone. Foto di Finestre sull’Arte


Cappella della salita al Calvario. Sculture di Jan de Wespin e Giovanni d'Enrico, affreschi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone.
Cappella della salita al Calvario. Sculture di Jan de Wespin e Giovanni d’Enrico, affreschi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone.


Cappella della Crocifissione. Sculture e affreschi di Gaudenzio Ferrari. Foto di Mauro Magliani
Cappella della Crocifissione. Sculture e affreschi di Gaudenzio Ferrari. Foto di Mauro Magliani


Cappella della Deposizione dalla Croce. Sculture di Giovanni d'Enrico e Giacomo Ferro, affreschi di Melchiorre Gilardini detto il Ceranino. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella della Deposizione dalla Croce. Sculture di Giovanni d’Enrico e Giacomo Ferro, affreschi di Melchiorre Gilardini detto il Ceranino.Foto di Finestre sull’Arte


Cappella della Pietà. Sculture di Giovanni d'Enrico, affreschi di Gaudenzio Ferrari. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella della Pietà. Sculture di Giovanni d’Enrico, affreschi di Gaudenzio Ferrari. Foto di Finestre sull’Arte


Cappella della Deposizione nel sepolcro. Sculture di Luigi Marchesi, affreschi di Pier Celestino Gilardi. Foto di Finestre sull'Arte
Cappella della Deposizione nel sepolcro. Sculture di Luigi Marchesi, affreschi di Pier Celestino Gilardi. Foto di Finestre sull’Arte

L’arte del Sacro Monte di Varallo

Il Sacro Monte di Varallo, per come oggi lo conosciamo, si deve soprattutto all’estro di Gaudenzio Ferrari, “come invenzione, atto fondativo e totale del rapporto teatrato fra architettura, scultura e pittura”, come scrisse Testori, che riconosceva in Ferrari un artista che, almeno a Varallo, si sentì soprattutto scultore, perché è alla scultura che viene affidato il compito più importante del complesso, quello di fare in modo che il visitatore partecipi al dramma che si dipana dinnanzi ai suoi occhi. La scultura, nell’opera di Ferrari, diventa dunque, scrive ancora il grande studioso, “trepidante verità, umana e carnale concrezione, da parer, ecco, un calco eseguito direttamente sul corpo dell’uomo a furia di sguardi, di carezze, di pensieri e di gesti d’amore”. La caratteristica che forse più sorprende il visitatore del Sacro Monte di Varallo è il realismo delle figure (in alcune di esse vengono addirittura utilizzati barba e capelli veri) che, a grandezza naturale, senza alcun tipo di idealizzazione (tra le folle è facile distinguere personaggi abbigliati coi tipici costumi della Valsesia) e capaci di esprimere sentimenti veri spesso in modo anche grottesco, sono attrici di un dramma reale. Gli artisti di Varallo non lavorano assecondando i gusti e le mode del tempo, ma lavorano per riprodurre un racconto, cercando di farlo nella maniera più veritiera possibile, e il risultato, scriveva Testori parlando ancora di Gaudenzio Ferrari, è “puro miracolo di ardore affettivo e d’affettiva partecipazione”. Ferrari, come ricordato sopra, fu il primo a integrare sculture e affreschi in un dialogo coerente e totalizzante.

È soprattutto la cappella della Crocifissione il prototipo che “più tardi gli artisti che lavorarono al Sacro Monte cercarono di imitare e di emulare”, ha scritto Geoffrey Symcox: il dramma delle scene, la varietà dei tipi sociali rappresentati, il modo in cui le folle sono animate saranno costanti anche nelle opere di artisti come Wespin o i fratelli d’Enrico. Il vescovo di Novara Carlo Bascapè, che seguì i lavori all’inizio del Seicento, chiese ai nuovi artisti di rifarsi espressamente ai modelli di Gaudenzio. Il motivo, secondo lo studioso Alessandro Nova, risiede nel fatto che i sacri monti dei francescani (quello di Varallo, così come quello di San Vivaldo in Toscana, di poco più tardo rispetto all’omologo della Valsesia) sono prodotto delle idee di frati semplici e rivolto a un pubblico non istruito, ragioni per le quali l’estremo realismo delle figure, la ricostruzione di certi episodi, la teatralità delle scene erano tutte strategie per convincere che quello che i fedeli stavano vedendo era vero ed era un valido sostituto del pellegrinaggio nei luoghi sacri della Terra Santa.

Gli interventi di Gaudenzio Ferrari riescono tuttavia a travolgere lo spettatore non soltanto nelle cappelle più drammatiche o più affollate (la Crocifissione, l’Adorazione dei Magi), ma anche in quelle più intime: Testori riteneva che le tre cappelle della Natività, dell’Adorazione dei Pastori e dell’Adorazione dei Magi, che si trovano in apertura di percorso, fossero tra le vette del Sacro Monte di Varallo. “In tale ambiente”, ha scritto lo storico dell’arte, “le persone vengono a trovarsi in naturale e perfetta parità con chi le guarda”, e questo anche perché si tratta di ambienti dove ci sono solo le sculture, e di conseguenza al loro interno il realismo colpisce ancor più forte. Nella cappella della Natività, per esempio, “v’è proprio qualcosa dell’infinita, dolorosa pazienza materna; qualcosa d’un calore che è, più d’ogni altro, calore di grembo; e fatica, che è fatica di portarsi attorno la propria, dolce, amata creatura. Ma si tratta d’una dolcezza che è forza; d’un amore che è coscienza. Una volta tanto il ‘fortissimo’ non sta dalla parte della tragicità, ma da quella dell’amore, non da quella della bestemmia, ma da quella della pietà”.

Vale la pena soffermarsi anche sulle cappelle di Giovanni d’Enrico, Morazzone e Tanzio da Varallo, forti di una grandezza che, sottolineava Testori, sta nella “diretta, esistenziale testimonianza che esse ci offrono, e in quel sentimento d’angoscia che ci comunicano”. Nel Seicento, il gusto del tempo modificò le modalità di partecipazione dei fedeli: se dunque Gaudenzio aveva immaginato delle cappelle in cui il visitatore poteva entrare e mescolarsi coi personaggi, già all’inizio del Seicento il paradigma era cambiato, poiché in epoca di Controriforma l’obiettivo era soprattutto quello di emozionare il visitatore, più che di renderlo partecipe. Le cappelle (ad esempio quella della Strage degli innocenti) vengono così concepite per esser viste da lontano, frontalmente, come se gli astanti stessero davvero assistendo a un dramma. La potenza del linguaggio di Gaudenzio non era però venuta meno. L’apice di questa nuova fase è la cappella dell’Ecce Homo, per la quale Giovanni d’Enrico, seguendo i dettami di Bascapè, immagino un’enorme tragedia coi personaggi che si dispongono attorno alle architetture (alcune vere, come il balcone centrale, altre simulate), e riuscendo nell’intento, grazie anche all’intervento pittorico del Morazzone, di “catturare l’azione nel suo momento di climax”, ha scritto Symcox: “la folla che urla invocando la morte di Cristo, e Barabba che viene rilasciato”. Il Morazzone, in particolare, autore di un capolavoro di straordinaria portata, “creò un linguaggio formale di teatralità che sarebbe stato poi fatto proprio dalla successiva generazione di artisti al laoro al Sacro Monte: Tanzio da Varallo, Cristoforo Martinolio e Pier Francesco Gianoli”. Con Tanzio, al Sacro Monte entra anche il realismo di matrice caravaggesca, ben ancorato però alla tradizione, tipicamente valsesiana, della raffigurazione vivissima delle emozioni delle figure.

Infine, è interessante comprendere perché un capolavoro di tale portata sia nato in Valsesia, ovvero un territorio che all’epoca non era strategico, né al centro di rotte commerciali (oltre Alagna la valle finisce stretta tra montagne invalicabili, e non ci sono pertanto, neppure oggigiorno, vie di comunicazione che collegano la Valsesia al nord). Si trattava di una comunità chiusa, che viveva del proprio lavoro, ma che era stata in grado di produrre folte schiere di artigiani, muratori, stuccatori, scalpellini e anche pittori che emigrarono fondando folte colonie anche nelle città più importanti d’Italia, incluse Roma, Milano e Torino, e spesso tornavano con “rispettabili profitti”, nota Symcox. Alcuni di questi lavoratori tornavano in Valsesia periodicamente, ma anche i valsesiani che risiedevano stabilmente fuori dal territorio contribuirono alla crescita di una valle che poté arricchirsi in parte grazie agli abitanti che commerciavano con la pianura, e in parte grazie ai migranti che facevano rientrare nella valle quanto guadagnavano, col risultato che già nel Seicento, notava lo stesso Bascapè, in Valsesia si viveva molto meglio che in pianura. Ecco perché in Valsesia poté svilupparsi una interessante tradizione pittorica ed ecco perché tra le montagne del Piemonte si assistette alla nascita di un complesso come quello di Varallo che ancor oggi stupisce il visitatore del XXI secolo, allo stesso modo in cui sorprendeva i fedeli di cinquecento anni fa.

Bibliografia essenziale

  • Geoffrey Symcox, Jerusalem in the Alps. The Sacro Monte of Varallo and the Sanctuaries of North-Western Italy, Brepols, 2019
  • Giovanni Agosti (a cura di), Testori a Varallo, Silvana Editoriale, 2019
  • Giovanni Agosti (a cura di), Giovanni Testori. Il gran teatro montano. Saggi su Gaudenzio Ferrari, Feltrinelli, 2015
  • Giovanni Reale, Elisabetta Sgarbi, Il Gran Teatro del Sacro Monte di Varallo, Bompiani, 2009
  • Damiano Pomi, La parola si fa arte: luoghi e significati del Sacro Monte di Varallo, Jaca Book, 2008

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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