“Il colore non è pietra”. Queste semplici parole, attribuite a Pieter Paul Rubens da Jacob Burckhardt, permettono di comprendere la nevralgica centralità rivestita dal “Padre del Barocco” ma, al contempo, potrebbero limitare l’analisi di una personalità che, per la sua sterminata cultura, può essere indagata sotto molteplici aspetti. Tedesco di nascita, di famiglia originaria delle Fiandre ma cittadino del mondo, Rubens trovò nell’ambiente fiammingo (nello specifico ad Anversa, dove per motivi religiosi riparò con la famiglia) il primordiale bacino d’azione in cui compiere i propri studi nelle humanae litterae e apprendere le prime conoscenze pittoriche incentrate, grazie alla formazione dei suoi maestri (Tobias Verhaecht, Adam Van Noort e Otto van Veen), sulla cultura figurativa italiana (exempla raffaelleschi e michelangioleschi, Tiziano, Veronese, Tintoretto). Il legame con l’Italia si consolidò il 9 maggio 1600 quando Rubens intraprese il proprio viaggio “al di là dei monti” che, per ben otto anni, lo portò a familiarizzare con i principali centri del tempo quali Venezia, Roma, Mantova, Padova, Firenze e Genova.
Il soggiorno nel “Belpaese” si interruppe in due frangenti che lo portarono tra il 1603 e il 1604 a svolgere per conto di Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, attività diplomatica presso la corte spagnola di Filippo III e nel 1608 ad abbandonare definitivamente l’Italia a causa delle luttuose notizie giunte da Anversa relative alle condizioni di salute materne. Figura cardine nella permanenza d’oltralpe dell’artista fu proprio Vincenzo I Gonzaga che, oltre a comprenderne le indubbie capacità artistiche e la naturale predisposizione diplomatica (come testimoniato dal citato incarico presso la corte di Spagna) riuscì a sfruttarne anche l’“occhio clinico” per la materia artistica: celebre, infatti, è l’acquisto effettuato nel 1607 dal duca, proprio su indicazione di Rubens, della “scandalosa” Morte della Vergine di Caravaggio. Ed è sempre la figura di Vincenzo I che porterà il maestro fiammingo ad entrare nell’orbita di quella Repubblica che, tra XVI e XVII secolo, citando Fernand Braudel, divenne il “cuore del Sistema Mondo Occidentale”: Genova.
Il primo contatto tra Pieter Paul Rubens e l’ambiente genovese avvenne il 2 giugno 1604 quando, di ritorno dalla Spagna, su ordine di Vincenzo Gonzaga, l’artista fece tappa a Genova per farsi rimborsare da Nicolò Pallavicino, banchiere proprio del duca, le spese sostenute durante la trasferta iberica. Un secondo e più duraturo soggiorno dovette avvenire nel 1606 quando “per alcuni gentil’uomini genovesi formò egli in quadri diversi ritratti dal naturale […] con amore condotti”, di cui emblematici risultano la Brigida Spinola e il Giovanni Carlo Doria. Inoltre, come riportato dai Libri Cerimoniali della Repubblica, il 12 luglio 1607 il maestro è nuovamente a Genova, nello specifico a San Pier d’Arena, al seguito sempre del duca di Mantova che “alloggiato in casa della Signora Giulia Grimalda [venne] per farsi alla Marina alcuni bagni per un ginocchio che ha offeso”. Tale, pertanto, dovette essere il biennio in cui Rubens ebbe modo di osservare con la dovuta attenzione “[…] come quella Repubblica è propria de Gentilhuomini, così le loro fabriche son bellisime e commodissime, à proportione più tosto de famigle benché numerose di Gentilhuomini particolari, che di una Corte d’un Principe assoluto”. Saranno proprio la meraviglia e il fascino suscitati in Rubens dalle raffinate dimore private della nobiltà genovese che porteranno l’artista a dedicarsi alla stesura di “una opera meritoria verso il ben publico di tutte le Provincie Oltramontane” che nel 1622, pubblicata a proprie spese, venne edita per la prima volta sotto il titolo de I Palazzi di Genova.
L’“Operetta”, così definita da Rubens nell’introduzione al “Benigno Lettore”, venne suddivisa in quattro parti: una premessa, nella quale vengono motivate le ragioni che lo spinsero a cimentarsi nella stesura dello scritto, una seguente dedica e le due parti in cui, attraverso la riproposizione di piante e sezioni architettoniche, vengono presi in esame i palazzi nobiliari indagati. Il volume, indipendentemente da un’incerta seconda e ravvicinata edizione stimata intorno al 1626, alla metà degli anni Trenta del secolo illustrava al grande pubblico ben 31 palazzi e 4 chiese del tessuto urbano genovese, per un totale di 139 tavole.
Come delineato nell’introduzione de I Palazzi, alla base della pubblicazione vi era la volontà di realizzare un’“Operetta” il cui scopo principale fosse quello di educare la borghesia di Anversa su come “abolendo la maniera d’Architettura, che si chiama Barbara, ò Gothica; […] la vera simmetria […] conforme le regole de gli antichi, Graeci e Romani” potesse essere applicata non solo ai grandi palazzi pubblici ma anche agli “edificij privati, poi che nella quantità loro subsite il corpo di tutta la città”. Per Rubens, dunque, scopo cardine divenne il dimostrare come l’architettura rinascimentale potesse essere applicata anche alla cultura abitativa nordica la cui aristocrazia, per plurime tangenze, non era particolarmente dissimile da quella genovese. Inoltre è indubbio che il maestro dovette rimanere affascinato da come il linguaggio del noto architetto perugino Galeazzo Alessi (allievo di Antonio da Sangallo il Giovane e “figlio” di quella scuola romana influenzata da personalità del calibro di Baldassare Peruzzi) si prestasse a “soluzioni di grande intelligenza compositiva […] rivolte costantemente al superamento della ristrettezza degli spazi medievali”. Infatti, il rigoroso modello alessiano generò un’abitazione con “forma di un cubo solido con salone in mezzo” i cui piani, incentrati appunto sui grandi saloni di rappresentanza, vennero collegati mediante grandi scaloni monumentali che, paragonabili ad un più raffinato sistema di “terrazzamenti”, consentirono agli architetti di ovviare l’annoso problema della costruzione “in costa”, derivante dalla particolare orografia genovese.
L’attenzione con cui i nobili genovesi si prodigarono nella realizzazione dei propri palazzi risiedeva, inoltre, nella volontà di dar vita ad una dimora che, specchio del proprio potere politico, diplomatico e culturale, potesse divenire la cornice ideale per accogliere nuovi “ospiti/clienti” con i quali stringere proficui accordi economici. Otium e negotium, quindi, trovarono nelle dimore nobiliari genovesi un perfetto equilibrio che Rubens seppe prontamente percepire e riportare, attraverso la riproduzione di piante e prospetti, nel proprio manuale. Grazie agli studi di Mario Labò si è riusciti a comprendere come le incisioni architettoniche, vere protagoniste dell’opera, non vennero esclusivamente “da me raccolt[e] in Genova, con qualque fatica e spesa et alcun buon riscontro di potermi prevalere in parte delle altrui fatiche”, come dichiarato dallo stesso Rubens nell’introduzione, ma vennero anche realizzate dall’incisore Nicolaes Ryckmans, collaboratore proprio dell’artista.
Il secondo breve scritto del volume vede l’“Humilissimo servitore” (così si definisce Rubens) dedicare l’opera all’“Illustris. Signor […] Don Carlo Grimaldo”, nipote di Ambrogio Spinola (vincente condottiero nella presa di Ostenda del 1604 e affezionato amico di Rubens), nonché genero di Barnaba Centurione Scotto, proprietario della villa sampierdarenese detta “del Monastero” in cui nel 1600 venne ospitato Vincenzo I Gonzaga e ancora nipote della già citata Giulia Grimaldi. Rubens, auspicando di aver fatto cosa gradita con la pubblicazione di tale manuale, domanda a Grimaldi di “dare mediante il favor suo qualque reputatione à questa operetta: la quale ancor che minima, […] tratta di cose concernenti à l’honor della sua Patria; et farà fede al mondo della singolar affetion mia verso di quella”. L’“affetion” che Rubens vuole mostrare al mondo in merito alle geniali soluzioni abitative della Repubblica è palesata nelle due parti, vero cuore del volume, in cui vengono presi in esame, attraverso le raffinate incisioni, i palazzi indagati.
La prima parte consta di dodici palazzi che, prevalentemente ubicati tra Strada Nuova (5), un più generico centro cittadino (5) e le zone di villa suburbana – Sampierdarena (2) e Albaro (1) –, descrivono le differenti soluzioni architettoniche proposte. Ciò che colpisce, oltre la puntuale descrizione tecnica delle piante e delle sezioni (motivo per cui sempre più consono risulta essere il termine “manuale”), sono i nomi con cui vengono identificati i palazzi. Questi, infatti, risultano indicati non con il nome dei proprietari bensì attraverso l’utilizzo delle lettere: la motivazione di tale scelta è spiegata direttamente da Rubens stesso che al “Benigno Lettore” indica come “Non abbiamo posti li nomi delli Padroni perché ogni cosa in questo mondo Permutat dominos, et transit in altera iura”. Tale scelta però non risulta omogenea in tutto il volume dal momento che, già nella prima parte, gli ultimi due palazzi descritti presentano i nomi dei proprietari: Palazzo di Don Carlo Doria duca di Tursi e Palazzo di Agostino Pallavicino.
La motivazione, per quanto non esplicitata da Rubens, potrebbe risiedere nel fatto che i due edifici descritti appartenessero a due delle più grandi personalità locali: il primo, oggi sede del Comune di Genova, venne edificato a partire dal 1565 per volontà di Nicolò Grimaldi detto, per la sua ingente ricchezza, il “Monarca”, e non a caso realizzato su due lotti di terreno (motivo per cui, data la vastità del simmetrico prospetto, Rubens ne riporta esclusivamente una parte); il secondo, realizzato da Agostino Pallavicino, banchiere ma soprattutto ambasciatore presso Carlo V e senatore della Repubblica, apparteneva a quella famiglia con cui, forse più di ogni altra, Rubens aveva intrecciato solide e proficue committenze che, tra le altre, lo portarono alla realizzazione (su commissione proprio dei figli Nicolò e Marcello) della già citata Circoncisione oltre che de I miracoli del beato Ignazio di Loyola.
La seconda parte della trattazione prosegue col prendere in esame 20 palazzi privati (identificati attraverso i nomi dei proprietari) ai quali l’artista aggiunge la descrizione di ben 4 chiese. Gli edifici privati descritti da Rubens in questa sezione non riguardano più soltanto le residenze della Vecchia Nobiltà (Pallavicino, Spinola, Doria) ma si riferiscono ad edifici appartenenti ai Nobili Nuovi (Balbi, Saluzzo, Adorno): tale consapevole scelta consentì a Rubens di fornire una testimonianza del modus aedificandi basato sull’evoluzione architettonica dei modelli cinquecenteschi di cui emblematici esempi risultano le dimore affacciate sulla “Strada delli Signori Balbi”. Questa distinzione, inoltre, consente di evidenziare un clima politico nel quale, a seguito delle riforme tardo cinquecentesche – su tutte gli Accordi di Casale del 1576 –, la discrepanza tra Nobili Vecchi e Nobili Nuovi andò lentamente a livellarsi, testimoniando come Rubens sia stato in grado di cogliere i progressivi cambiamenti socio-politici avvenuti tra inizio Seicento e anni Trenta del secolo. La particolarità della seconda parte dei Palazzi, inoltre, risiede nella descrizione architettonica riservata agli edifici religiosi tra i quali, per ovvie ragioni, si segnala per dovizia e attenzione di particolari la Chiesa de li Padri Iesuiti, che, proprio per la presenza della Circoncisione e dei Miracoli di Sant’Ignazio, appare descritta, a differenza della altre, con ben due sezioni: trasversale e longitudinale.
L’opera, data la sua unicità, fu oggetto di successive edizioni (1663, 1708, 1755, 1922) tra cui spicca quella del 1652 (la prima realizzata dopo la morte del maestro) che per volontà dello stampatore Jan Van Meer, vide le due sezioni del volume essere così rinominate: Palazzi antichi di Genova raccolti e designati da Pietro Paolo Rubens e Palazzi moderni di Genova raccolti e disegnati da Pietro Paolo Rubens. Il volume, dunque, si delinea come un vero manuale architettonico frutto di un’illustre personalità che, oltre a pittore, diplomatico e intenditore d’arte, ricoprì anche il ruolo di fine “trattatista” in grado di testimoniare “al mondo” la realizzazione di soluzioni abitative concepite con estrema unicità per le dimore private di una nobiltà che, per importanza politica ed economica, teneva le redini di gran parte dell’Europa.
L'autore di questo articolo: Giorgio Dellacasa
Storico dell'Arte e divulgatore scientifico. Ho 25 anni, sono nato a Genova e qui ho compiuto tutto il mio percorso di studio universitario, conseguendo la Laurea triennale in Conservazione dei Beni Culturali e la Laurea magistrale in Storia dell'Arte e Valorizzazione del patrimonio storico artistico. Attualmente ho conseguito l'accesso alla Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Artistici di Genova.