Il Rosso di Montelupo, capolavoro di una secolare tradizione della ceramica


Il Rosso di Montelupo è probabilmente il più grande capolavoro della ceramica di Montelupo Fiorentino. Vediamo da vicino questa splendida opera d'arte del 1509.

Quando l’arte è legata al suo territorio si crea una serie di connessioni che spaziano dalla cultura all’economia, dalla storia alla quotidianità di un’intera popolazione; diventa essa stessa testimonianza di un passato che va studiato e approfondito per conoscere le sue radici e ammirarla con occhi diversi nel presente. Ne è un esempio uno dei capolavori, se non il capolavoro, di un museo profondamente legato al suo territorio, il Museo della Ceramica di Montelupo Fiorentino: stiamo parlando del Rosso di Montelupo, opera somma dell’attività maggiormente insediata in questo luogo, ovvero la produzione della ceramica.

Fin dall’epoca preistorica sono testimoniate tracce di ceramica negli insediamenti dell’area del Medio Valdarno Fiorentino: ciò evidenzia come l’intera zona sia sempre stata indissolubilmente legata alla ceramica e inevitabilmente, in secoli successivi, alla sua produzione. In particolare la storia di Montelupo Fiorentino, sulla sponda sinistra dell’Arno, ci permette di comprendere le varie epoche, nonché le varie fasi, della produzione della ceramica e di tutti gli aspetti economici e commerciali che si sono susseguiti nel tempo. Di certo l’economia montelupina è stata appoggiata dalla vicina Firenze poiché, basandosi sulla produzione della ceramica in crescente sviluppo, si era affidata al sistema mercantile fiorentino al fine di far giungere le sue merci all’esterno del suo territorio. Soprattutto a seguito della conquista di Pisa da parte di Firenze, Montelupo aveva trasformato le proprie botteghe in imprese volte all’esportazione extraregionale: l’accesso al mare era in questo modo favorito dalla via fluviale dell’Arno, attraverso cui i prodotti finiti montelupini giungevano al porto pisano e da qui a Livorno. La prepotente determinazione fiorentina aveva schiacciato addirittura l’intensa produzione della maiolica pisana che, alla metà del Quattrocento, era stata costretta a indirizzarsi verso una nuova produzione per non creare impedimenti a Firenze: quella della ceramica ingobbiata.

Bottega di Lorenzo di Piero Sartori, Rosso di Montelupo (1509; ceramica smaltata, 38 x 9,5 x 4 cm; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)
Bottega di Lorenzo di Piero Sartori, Rosso di Montelupo (1509; ceramica smaltata, 38 x 9,5 x 4 cm; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)

Era compito dei navicellai, coloro che svolgevano il mestiere del barcaiolo, molto diffuso sulle rive del fiume Arno, attendere i ceramisti montelupini e le compagnie commerciali, che avevano iniziato a formarsi tra vasai e mercanti, per imbarcare e trasportare le merci a costi alquanto economici fino ai fondaci pisani e livornesi. Da questi ultimi porti le ceramiche di Montelupo venivano nuovamente imbarcate su navi che attraversavano l’intero Tirreno per giungere fino in Sicilia e anche nell’Oriente mediterraneo. La fortuna economica di Montelupo, avvenuta soprattutto a partire dalla prima metà del Quattrocento, è stata dunque dovuta all’apertura degli scali marittimi, allo sfiorire della produzione della maiolica pisana e all’utilizzo del capitale mercantile. Una vera e propria svolta: da semplice “terra murata”, Montelupo Fiorentino era divenuta centro privilegiato di produzione della dominante Firenze.

Documentazioni scritte testimoniano che nella seconda metà del Quattrocento veniva fatto impiego dei capitali fiorentini nelle imprese delle ceramiche montelupine. Per comprendere maggiormente quali siano state le proporzioni dei canali di diffusione della maiolica montelupina alla fine del XV secolo, in un atto notarile del 1490 stipulato tra Francesco Antinori e ventitré maestri vasai di Montelupo si legge che Antinori si sarebbe impegnato ad acquistare per un periodo di tre anni, a prezzi concordati per tre differenti tipologie, l’intera produzione ceramistica di coloro che erano intervenuti al rogito e dei loro congiunti, in cambio i ventitré ceramisti dovevano lavorare per questi tre anni esclusivamente per Francesco Antinori.

L’espansione dei prodotti montelupini è attestata addirittura in siti archeologici di Londra, Southampton e Amsterdam. Tuttavia, il culmine dell’attività ceramistica di Montelupo è stato raggiunto tra il 1480 e il 1510, periodo in cui si assiste alla nascita di un nuovo linguaggio, quello rinascimentale, caratterizzato da un forte realismo pittorico e da un’accentuata policromia. Dalla rigorosa monocromia del colore azzurro, con la quale il blu cobalto diluito permette di intravedere nelle campiture il bianco dello smalto, tipica dello stile decorativo d’influenza islamica, si passa a un cromatismo via via più ricco: si aggiungono un verde-ramina pallido, un manganese con toni violacei e un giallo citrino, ovvero ciò che Gaetano Ballardini, insigne studioso della ceramica, denominò “tavolozza fredda”, e successivamente, in concomitanza con l’affacciarsi del nuovo linguaggio del Rinascimento, si aggiunge un pigmento rosso, fino a quel momento mai visto in Italia, ottenuto presumibilmente grazie alla stessa materia prima con la quale i vasai di İznik (l’antica Nicea, in Turchia) realizzavano le campiture di un tono di rosso a rilievo, laccato e sanguigno, nonché fortemente brillante. Quest’ultima materia prima giungeva in piccole quantità nelle fornaci del Valdarno dalle stesse compagnie fiorentine che ormai commerciavano le maioliche montelupine e veniva utilizzata solo in caso di ripassi, lumeggiature e porzioni di stemmi. Caso a parte per il Rosso di Montelupo, dove si nota una notevole quantità di questo particolare pigmento.

Possiamo definire queste tre fasi di monocromia, tavolozza fredda e policromia come le tre grandi fasi di sviluppo sia cronologico che formale del cosiddetto damaschino, considerato il genere in cui si assiste in pieni termini all’influenza decorativa di matrice islamica nella produzione pittorica e della ceramica. Anche se tuttavia le prime due fasi esplicitano il vero sviluppo del genere, mentre la fase policroma, pur legata ad esso, ne sottolinea ormai l’incalzante superamento.

Inoltre, dalla rappresentazione di figure fitomorfe, zoomorfe e anche umane, dalla raffigurazione di cavalli e falconieri abbigliati sontuosamente, di giovani impegnati nello scambio di dolci effusioni amorose nei giardini di delizia e di simbologie di virtù che mostrano l’affermazione del gotico internazionale, si giunge a un estremo realismo con figure alle quali sono attribuiti valori e funzioni. Le figure, gli stemmi e i simboli campeggiano al centro delle ceramiche e sono divisi dalle parti marginali spesso attraverso una ghirlanda stilizzata. Si sviluppa quindi la tendenza all’esaltazione dei soggetti principali, rappresentati realisticamente, e alla ricerca di un’adeguata cornice grafica come contorno alle figure centrali, con la convinzione che non solo la figura principale, ma anche lo spazio circostante contribuisca a esprimere questo voluto realismo. Foglie di prezzemolo e di vite, il floreale, l’occhio della penna di pavone, la palmetta persiana, i nastri intrecciati, gli ovali e i rombi sono tra i principali motivi di contorno presenti sulle ceramiche. Ed è durante i primi venti anni del Cinquecento che i ceramisti montelupini si mettono egregiamente alla prova, con risultati eccellenti, copiando dal vero i prototipi orientali, raffigurando i grandi fiori di papavero in monocromia blu della Cina e i nodi orientali intrecciati e lumeggiati con l’utilizzo della graffitura, e avvicinandosi alle ceramiche di İznik caratterizzate da quel pigmento di color rosso brillante e sanguigno, come il Rosso di Montelupo.

Bacile damaschino monocromo (1440-1460 circa; maiolica; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)
Bacile damaschino monocromo (1440-1460 circa circa; maiolica; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)


Piatto all'occhio della penna di pavone (1500-1510 circa; maiolica; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)
Piatto all’occhio della penna di pavone (1500-1510 circa; maiolica; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)


Piatto a ovali e rombi (1500-1510 circa; maiolica; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)
Piatto a ovali e rombi (1500-1510 circa; maiolica; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)


Piatto con fascia blu graffito (1510-1520 circa; maiolica; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)
Piatto con fascia blu graffito (1510-1520 circa; maiolica; Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica)

Tutti questi saperi relativi alle varie fasi delle tecniche di lavorazione e alle differenti tipologie di decorazione delle ceramiche di Montelupo derivano da una straordinaria scoperta compiuta nel 1973, anno che ha segnato una vera e propria svolta per quanto riguarda la conoscenza della storia dell’attività fittile montelupina. Durante un semplice intervento di risanamento urbano nella zona del paese detta “del castello”, dove era sorto il primo nucleo abitato di notevoli dimensioni sulla collina di Montelupo, così da formare una sorta di castello cinto di mura, erano stati scoperti alcuni lavatoi pubblici che venivano utilizzati in passato dai residenti di quell’area. Secondo il progetto del comune, questi ultimi dovevano essere demoliti per costruire in quel punto una piccola piazza che avrebbe dato inizio a un’opera di risanamento e di decoro urbano. Uno di questi, tuttavia, di grandi dimensioni, si è rivelato un tesoro: al suo interno era custodita un’enorme quantità di frammenti di maioliche di vari tipi. Di fronte a una tale scoperta era impossibile rimanere indifferenti, ricoprire il tutto e non essere consapevoli della ricchezza di quei frammenti, testimonianze della storia della produzione della ceramica di quel territorio.

Perciò il cosiddetto “pozzo dei lavatoi”, come è stato denominato il prezioso pozzo rinvenuto, è stato oggetto per la durata di circa due anni di una vera esplorazione del suo interno mediante lo svuotamento di esso fino a una profondità di circa due metri. Ciò che per i residenti di un tempo costituiva un grande scarico di fornace, nel 1973 e negli anni immediatamente successivi, rappresentò una straordinaria testimonianza storica da cominciare a raccogliere, analizzare e studiare. Lo studio approfondito di questi ritrovamenti, supportato da una completa conoscenza della ceramica, ha potuto condurre alla comprensione dei flussi commerciali fittili e alla datazione dei depositi archeologici.

Con la scoperta del “pozzo dei lavatoi”, Montelupo Fiorentino si è affacciata all’archeologia medievale che, proprio nello stesso anno, era nata ufficialmente in Italia con la pubblicazione dell’opera in due volumi Storia della maiolica di Firenze e del Contado scritta da Galeazzo Cora: un vasto pubblico di studiosi e anche di lettori si era interessato alla storia della maiolica fiorentina del Trecento e Quattrocento.

Conseguentemente alla saggia decisione di far rimanere i reperti rinvenuti nel territorio di Montelupo e di consolidare quell’attività di ricerca e di restauro che si era creata attorno ai frammenti di maiolica del pozzo dei lavatoi grazie anche alla costituzione del “Gruppo Archeologico di Montelupo”, si era giunti nel 1983 all’inaugurazione del primo Museo della Ceramica e del Territorio, allestito nell’ex palazzo podestarile di Montelupo, suddiviso in sole quattro sale che custodivano una scarsa collezione di frammenti. Grazie all’inarrestabile ricerca era divenuto necessario il trasferimento nel grande edificio dell’ex scuola primaria di Montelupo, nel quale, a partire dal 24 maggio 2008, si snoda il nuovo e odierno Museo della Ceramica. Oggi sono esposte qui oltre mille ceramiche, ma si potrebbe affermare che la continua attività di ricerca dia buoni frutti quasi quotidianamente, arricchendo in questo modo costantemente le collezioni già presenti.

La facciata del Museo della Ceramica di Montelupo
La facciata del Museo della Ceramica di Montelupo


Una sala del Museo della Ceramica di Montelupo
Una sala del Museo della Ceramica di Montelupo


Una sala del Museo della Ceramica di Montelupo
Una sala del Museo della Ceramica di Montelupo


Una sala del Museo della Ceramica di Montelupo
Una sala del Museo della Ceramica di Montelupo

Un museo di fatto costituito per la maggior parte da reperti archeologici provenienti dal recupero dei materiali prelevati dagli scarichi delle fornaci locali presenti nel centro storico di Montelupo. Percorrere le sale espositive del Museo della Ceramica è un viaggio alla scoperta dell’attività più antica e più produttiva del luogo, radicata su questo territorio da secoli e secoli. Mentre si susseguiranno di fronte ai vostri occhi tutte le collezioni qui conservate, disposte in apposite teche suddivise per cronologia e per tema, non potrete fare a meno di rimanere estasiati da così tanta bellezza e maestria, dai vari disegni e dalle figure che con grandissima abilità sono state impresse sulle lucenti maioliche, e riflettere su quanto tempo sia trascorso dalla loro creazione, quasi impossibile da credere per lo stato conservativo in cui si trovano.

Si va dalle prime maioliche arcaiche alla zaffera, dal damaschino alla maiolica blu robbiano, dalle ingobbiate e graffite al lustro metallico. E ancora tutte le differenti decorazioni, dalle più semplici alle più elaborate, che ornano i più vari oggetti come bacili, boccali, orcioli da farmacia, scodelle, ciotole e piatti: foglie valenciane, foglie di prezzemolo, fasce, occhi della penna di pavone, palmette persiane, decori floreali, nastri, stemmi e trofei, ghirlande e grottesche, nodi orientali.

Oltre a queste, è divertente durante la visita riconoscere gli animali, le piante, le figure femminili e maschili rappresentate, soli e lune, amorini, nonché scene paesaggistiche, mitologiche o che rimandano alla quotidianità di quel tempo. Un po’ più complicato riconoscere gli stemmi appartenenti alle diverse famiglie, ma è sufficiente leggere le didascalie sempre presenti relative a ogni oggetto esposto. Un validissimo aiuto alla visita è apportato da grandi pannelli esplicativi che scandiscono ogni settore del museo e che rendono comprensibile a tutti i visitatori l’esplorazione di questo sito museale, siano essi adulti, bambini o stranieri.

Tuttavia, l’opera che più di ogni altra qui esposta provoca reazioni di meraviglia e di stupore ogniqualvolta la si incontra e inevitabilmente ci si sofferma per ammirarla in tutta la sua bellezza è proprio il cosiddetto Rosso di Montelupo, opera-simbolo del Museo, a cui è dedicata quasi un’intera sala. Si tratta di un bacile piano a media tesa, con un diametro di 38 centimetri, realizzato nel 1509 nella bottega di Lorenzo di Piero Sartori, una delle più significative e attive botteghe montelupine, molto produttiva nel periodo rinascimentale, caratterizzata dalla sigla “Lo” sui suoi prodotti.

Il Rosso di Montelupo nella sua sala al Museo della Ceramica
Il Rosso di Montelupo nella sua sala al Museo della Ceramica

La sua denominazione è dovuta a quel pigmento rosso – il colore che salta subito allo sguardo – già citato precedentemente, che rimanda alle preziose e stupende maioliche di İznik, che per effetto del fuoco diviene di un rosso sanguigno e laccato. Gli artigiani locali lo utilizzavano in terza cottura in piccole quantità, ma nel caso del Rosso di Montelupo si nota un ampio uso di tale pigmento, tratto che lo rende molto vivo e piacevole alla vista.

Al centro del bacile, racchiuso da una ghirlanda dorata, è una sorta di cammeo di colore blu all’interno del quale è raffigurata una piccola testa di putto tra due cornucopie, sulla quale appare un cesto di frutta su cui è appoggiato un grande uccello. Ne segue una parte su sfondo rosso decorata a grottesca che raffigura teste di putti, piccoli fiori e fili di perle. La successiva parte con sfondo arancio, chiamata “ricasco”, ovvero la zona dove si uniscono la tesa e il fondo del bacile, è decorata con una fascia di trofei costituita da scudi, corazze, armi, tamburi e teste di leone e da due targhe sulle quali appare la scritta SPQR.

Molto più elaborata è la tesa dell’opera, ornata seguendo due differenti composizioni che si alternano l’una all’altra. Una è formata da una coppia di putti: entrambi tengono con una mano un filo di perle e con l’altra mano una specie di bastone che presenta sulla sommità la testa di un delfino. Tra i due putti, lo spazio è diviso orizzontalmente in due parti: in quella inferiore, di colore rosso, è raffigurato un granchio che con le sue chele tiene una targa, sulla quale appare la scritta SPQR o, in alcuni casi, SPQF, riferendosi quest’ultima al popolo fiorentino; nella sezione superiore, di colore giallo, si erige un vaso stilizzato dal quale parte il filo di perle tenuto dai due putti. L’altra composizione della tesa è costituita da una testa perlinata su sfondo blu che sembra emettere un grido: sotto questa appare una targa sulla quale è apposta la data 1509, anno di realizzazione dell’intero bacile, mentre nella parte superiore campita in giallo sono rappresentati trofei e nastri.

La decorazione al centro del fondo del Rosso di Montelupo
La decorazione al centro del fondo del Rosso di Montelupo


La decorazione al centro del fondo del Rosso di Montelupo
La decorazione al centro del fondo del Rosso di Montelupo


La decorazione della tesa. Si noti la data 1509
La decorazione della tesa. Si noti la data 1509


La decorazione del ricasco
La decorazione del ricasco


Il retro
Il retro

Si potrebbe affermare quindi che il capolavoro compiuto nella fornace di Sartori sia un ineguagliabile connubio di decoro a grottesca, per la cui realizzazione si è ricorsi alle più svariate composizioni e ai più vari elementi, anche celebrativi, e di campiture in differenti colori, come il blu intenso, l’arancione, il giallo e ovviamente il rosso brillante e sanguigno a cui si deve la denominazione dell’opera e la cui composizione rimane ancora misteriosa. Anche se si pensa sia ossido di manganese ricco di arsenico, importato dall’Anatolia.

La decorazione a grottesca su sfondo arancione creerebbe una connessione con la produzione senese di quell’epoca, poiché i senesi erano soliti utilizzare grottesche, figure con delfini e sfondi rossi e gialli, ma non c’è alcun dubbio che il Rosso di Montelupo sia un prodotto della fornace Sartori, una delle famiglie più illustri e rinomate di ceramisti montelupini, non solo per l’inconfondibile sigla “Lo” sul retro, ma anche per il ritrovamento di frammenti con decorazione a grottesca su campiture in giallo e arancione realizzati dallo stesso Sartori e rinvenuti nello scarico della sua fornace. La stessa forma del bacile rappresentava una novità per quel tempo: era una forma nuova, inconsueta, anche se Sartori si era ispirato in parte ai bacili di acquareccia e metallo utilizzati per raccogliere l’acqua che scendeva dalla brocca per lavarsi le mani.

Il celebre bacile faceva parte della collezione dei Rothschild di Parigi, importante famiglia di collezionisti d’arte e antichità e mecenati da generazioni e generazioni; apparteneva precisamente a Gustave de Rothschild, banchiere parigino morto nel 1912. Dagli eredi di Gustave, il bacile era passato successivamente a un altro collezionista parigino, l’antiquario Alain Moatti, dal quale il Comune di Montelupo lo ha acquistato nel 2002 col preciso intento di donarlo al museo. Ora lo si può contemplare nel Museo della Ceramica di Montelupo: da Parigi la preziosa opera è tornata orgogliosamente nella sua terra di provenienza. Ammirare il Rosso di Montelupo è un’esaltazione della vista e un omaggio all’epoca produttivamente e qualitativamente più ricca e intensa della storia della ceramica di Montelupo, nonché a una delle botteghe più in vista del tempo.

Bibliografia di riferimento

  • Antonio Fornaciari, La sostanza delle forme: morfologia e cronotipologia della maiolica di Montelupo Fiorentino, All’Insegna del Giglio, 2016
  • Fausto Berti, Il Museo della Ceramica di Montelupo, Edizioni Polistampa, 2008
  • Fausto Berti, Note sulla maiolica arcaica di Montelupo fiorentino in Archeologia Medievale, IX (1982), pp. 175-191

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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.






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