Uno degli storici dell’arte più innovativi e originali del Novecento fu, senza ombra di dubbio, Roberto Longhi (Alba, 1890 - Firenze, 1970): talento precocissimo (prima d’aver compiuto trent’anni aveva già scritto saggi fondamentali), erede della tradizione purovisibilista da lui aggiornata e ammodernata, del tutto privo di timori reverenziali nei confronti dei grandi “maestri” della critica d’arte, al punto da sfiorare, e a volte anche da toccare, l’insolenza, soprattutto nei confronti di Bernard Berenson, con il quale provocò una polemica durata decenni e mai del tutto chiarita (basti pensare che, a una quarantina d’anni di distanza dai primi screzi, i due s’incontrarono e Berenson chiese beffardamente a Longhi come ci si sentisse a essere sposati con un genio come Anna Banti). Tuttavia, malgrado Longhi e Berenson fossero divisi da attriti personali e anche dalle convinzioni in materia di storia dell’arte (Longhi aveva il progetto di rivedere e migliorare il metodo di Berenson), è possibile ravvisare nell’approccio di entrambi una base comune. Questa base è la critica formalista, punto di partenza della riflessione di Berenson come di quella di Longhi.
Longhi si era avvicinato alla critica d’arte leggendo le opere di Konrad Fiedler, di Adolf von Hildebrand e soprattutto di Heinrich Wölfflin, e i risultati di queste letture sono particolarmente evidenti nei primi saggi, risalenti agli anni Dieci, scritti quando lo studioso non aveva ancora venticinque anni. Particolarmente interessante è I pittori futuristi, un articolo uscito nel 1913 sulla rivista La Voce: qui Longhi, che con tutta evidenza ha ben presenti le categorie wölffliniane, opera una contrapposizione tra futurismo e cubismo muovendosi, in un certo senso, nel solco delle polarità caratterizzanti individuate dallo studioso svizzero. Leggiamo, a titolo d’esempio, un passaggio circa un’opera di Boccioni: "nella Scomposizione di figure a tavola è alla luce che è dato il potere integro di porre in moto la materia, poiché uno spigolo del bicchiere colpito da un raggio si slancia in una tremenda e indefinita envolée. Dallo studio dei piani superficiali del cubismo, per non raggelare la materia anzi per scatenarla, egli è venuto a concepirla come un sovrapporsi di piani che si sfogliano, che si smallano come intorno a un compatto nucleo centrale: ed è il moto rotatorio impresso a questo nucleo che gli fa scartocciare la forma all’esterno come Saturno libera da sé gli anelli". Longhi, in altre parole, rileva come una delle caratteristiche in grado di conferire il movimento all’opera dei futuristi sia la sovrapposizione dei piani, elemento assente nella pittura cubista: si tratta, in qualche modo, della contrapposizione tra superficie e profondità di cui aveva già parlato Wölfflin.
Umberto Boccioni, Scomposizione di figure a tavola (1912; olio su tela, 70 x 80 cm; Collezione privata) |
Roberto Longhi |
Tuttavia, lo storico dell’arte piemontese non si mosse unicamente entro i canoni del formalismo e della pura visibilità. Longhi aveva infatti guardato anche alla grande tradizione dei connoisseur, da Giovanni Morelli (nei confronti del quale manteneva comunque un atteggiamento molto critico) a Giovanni Battista Cavalcaselle. Forse deriva proprio dalla grande considerazione che Longhi nutriva nei confronti di Cavalcaselle l’attitudine a considerare l’occhio il mezzo supremo della storia dell’arte: per Longhi, non esiste una storia dell’arte che possa prescindere dallo studio delle opere dal vero. Anch’egli, come Cavalcaselle, aveva spesso intrapreso lunghi viaggi per studiare le opere d’arte dal vivo. Uno dei primi fu quello che lo portò in Sicilia alla scoperta delle opere di Caravaggio, che Longhi intendeva studiare per la tesi discussa all’Università di Torino nel 1911 con il suo primo grande maestro, Pietro Toesca: consideriamo che Caravaggio e Piero della Francesca furono i due artisti che più attrassero l’attenzione di Longhi, e si trattava di artisti sostanzialmente poco noti all’epoca. Vale la pena citare un paio di dipinti le cui attribuzioni a Piero della Francesca e a Caravaggio, formulate per la prima volta da Roberto Longhi, sono date ormai per assodate: la Madonna col Bambino di Piero già in collezione Contini Bonacossi a Firenze (e oggi negli Stati Uniti) e il San Girolamo penitente di Caravaggio conservato presso il monastero di Santa Maria di Montserrat in Catalogna. Vale la pena fare qualche breve osservazione su quest’ultima opera, sulla quale Longhi tornò a più riprese nel corso della sua carriera di studioso, perché è interessante per provare a comprendere più a fondo il suo metodo.
Longhi la vide per la prima volta nel 1913, quand’era conservata a Roma presso la collezione Magni (dunque poco prima che venisse acquisita, nel 1917, dal monastero di Montserrat): fu quella l’occasione in cui lo storico dell’arte avanzò per la prima volta il nome di Caravaggio. Longhi aveva riscontrato che il modello che l’artista lombardo aveva utilizzato per il dipinto era lo stesso che aveva posato per il San Girolamo della Galleria Borghese, la cui autografia caravaggesca era indiscussa. Ma oltre a ciò, notava Longhi, esistono tra i due dipinti analogie di diversa natura. Per esempio, il motivo del teschio appoggiato sul tavolo che richiama la testa di san Girolamo e che viene offerto all’osservatore dallo stesso punto di vista e più o meno nelle stesse condizioni di luce: particolari che sottolineano ed evidenziano la condizione del santo e la profondità della sua meditazione. Si può notare come Longhi abbia dapprima studiato le specificità formali dell’opera (i particolari e i connotati che gli avrebbero consentito di identificare nel modello del San Girolamo di Montserrat lo stesso che ha posato per il San Girolamo Borghese) e in seguito le attitudini narrative, il modo in cui l’artista rende evidente la propria poetica (in questo piccolo esempio, il motivo del teschio che richiama il capo del santo). È soprattutto attorno a questi due poli che ruota la tecnica attributiva di Roberto Longhi: forma e attitudini narrative. Il lavoro di Longhi non avrebbe tuttavia senso se non si considerasse un concetto per lui fondamentale, quello delle relazioni.
Caravaggio, San Girolamo penitente (1605 circa; olio su tela, 118 x 81 cm; Monistrol de Montserrat, Monastero di Santa Maria de Montserrat) |
Caravaggio, San Girolamo penitente (1605-1606; olio su tela, 112 x 157 cm; Roma, Galleria Borghese) |
Scriveva Longhi: “L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte. Un’opera sola al mondo non sarebbe neppure intesa come produzione umana, ma guardata con reverenza o con orrore, come magia, come tabù, come opera di Dio o dello stregone; non dell’uomo. È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non involge soltanto il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant’altro occorra”. Il lavoro dello storico dell’arte non può prescindere dalle relazioni che un’opera instaura prima con altre opere d’arte, e poi con l’ambiente circostante. È pur vero che Longhi, da storico dell’arte formatosi nel solco della critica formalista, accordava ai valori formali dell’opera d’arte la precedenza (ma i valori formali devono esser letti anch’essi, del resto, in relazione ad altri valori formali di altre opere), ma ciò non significa che lo studioso sottostimasse il contesto entro cui l’opera è calata. Siamo già, comunque, in una fase matura della critica longhiana (le righe sopra riportate risalgono al 1950), e occorre sottolineare come essa muti nel corso del tempo: Gianfranco Contini, studioso nonché amico di Roberto Longhi, individuò diverse periodizzazioni per sintetizzare la carriera di Roberto Longhi, riassunte in un discorso commemorativo pronunciato all’Accademia dei Lincei. Il contesto culturale rimane comunque un qualcosa che, per Longhi, giunge successivamente. Lo ha ricordato anche Mina Gregori in una recente intervista: essere “longhiani” significa “privilegiare l’occhio”, “anteporre alle biblioteche i musei”, “anteporre alle fotografie la visione diretta delle opere”, perché “il metodo longhiano era assolutamente antitetico alla scuola di Giulio Carlo Argan che, diversamente, professava un approccio contestuale. Se sei un longhiano parti dall’opera e questa ti racconterà anche il suo contesto”. Analisi del contesto che è comunque presente: per Mina Gregori, la visione di Longhi non era “mero formalismo”. L’oggetto da cui partire è, tuttavia, l’opera: “alla costruzione del contesto e alla critica relativa si deve giungere solo in un secondo tempo, poiché l’acquisizione non può che avvenire prioritariamente attraverso l’occhio, e quindi dall’opera; poi seguono la filologia, la storiografia, la critica [...]”. Consultare le fonti e le biblioteche rimane operazione di fondamentale importanza, ma comunque successiva allo studio dell’opera.
Oggi, Longhi è considerato uno dei più grandi storici dell’arte di sempre, e c’è anche chi lo considera il più grande storico dell’arte italiano del Novecento. Il suo originale metodo, la sua prosa dal carattere narrativo (suo scopo era quello di trovare un adeguato equivalente verbale per le forme delle opere), il suo carattere diretto al limite della sfrontatezza, il suo notevole impegno civile a favore del patrimonio storico-artistico (naturale conseguenza del suo modo d’intendere le opere d’arte, di cui s’è detto sopra) lo hanno reso una figura di riferimento per generazioni di studiosi. Tra i suoi allievi diretti si annoverano schiere di storici dell’arte che hanno scritto pagine memorabili: oltre alla succitata Mina Gregori, è possibile fare i nomi di Francesco Arcangeli, Carlo Volpe, Enrico Castelnuovo, Giovanni Testori, Andrea Emiliani, Giovanni Previtali, Luciano Bellosi. Ma la lezione di Longhi fu trasversale, perché importante anche per personalità che operarono in altri campi: studiarono con Longhi, per esempio, anche Arbasino e Pasolini. Nomi che ci fanno comprendere quanto sia stato alto il contributo che Roberto Longhi ha dato alla storia dell’arte e alla cultura tutta.
Bibliografia di riferimento
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).