Quasi al culmine dell’abitato denso di case di pietra chiara, che si arrampica fino al sommo della collina (là dove sorge, ancora, il teatro dell’antica Akrai) alla man sinistra salendo il Corso Vittorio Emanuele, s’incontra un volo di scale che conduce d’un balzo al piccolo piazzale antistante la mole barocca della chiesa dell’Immacolata di Palazzolo Acreide. Le linee curve della facciata borrominiana e gli echi guariniani dei finestroni, tipici del linguaggio barocco della Val di Noto, ben custodiscono il segreto rinascimentale della chiesa, che solo chi ha la fortuna (ahimè rara) di trovare aperta la porta può svelare, cercando con lo sguardo in una profonda nicchia della sua unica navata. Qui è stata traslata, nel tentativo di colmare le profonde solitudini scavate nei contesti delle opere d’arte dal terribile terremoto del 1693, una delle immagini mariane più fortemente caratterizzanti per il Quattrocento italiano. Il segno tangibile delle grandi rotte culturali del Rinascimento europeo, che, facendosi giuoco dei presunti criteri gerarchici degli storici e degli storici dell’arte, toccano questo (oggi marginale) paese in provincia di Siracusa, incidendovi con incommensurabile morbidezza e assoluto virtuosismo la firma di uno tra i più grandi artisti del marmo del XV secolo: Francesco Laurana.
Nato a Vrana, nell’odierna Croazia, in un anno imprecisato della prima metà del Quattrocento, Francesco Laurana rappresenta una delle personalità più significative nel panorama scultoreo dell’Italia rinascimentale, e in particolare dell’area del napoletano e della Sicilia. Documentato a Napoli nel 1458, già con il rango di magister, il Laurana trascorse un certo periodo di attività in Provenza (regione, tra l’altro, dove probabilmente terminerà la sua vita tra il 1510 e il 1512), per poi ritrovarsi in Sicilia nel 1468, dopo essere passato nuovamente per Napoli. L’attività nell’area di Sciacca e Partanna, pur suffragata da numerose evidenze documentarie, è però ancora in parte oscura e molte delle opere in un primo momento attribuite allo scalpello dell’artista dalmata sono state più correttamente ricondotte ad un ambito di bottega. Potrebbe essere però stato motivo della chiamata del Laurana in quella zona la volontà di commissionare a lui (già scultore al servizio del Re di Napoli) l’esecuzione del ritratto funebre di Eleonora d’Aragona, morta nel 1405 e sepolta nel monastero di Santa Maria del Bosco di Calamatauro. Che non sia proprio Eleonora la donna eternata nel busto marmoreo oggi conservato nella Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis a Palermo e sovente anche identificata con Isabella o Beatrice d’Aragona?
Sta di fatto che la tipologia del busto-ritratto marmoreo, spesso simulacro post-mortem, sarà una produzione costante nella carriera del Laurana, il cui apice è forse rappresentato dal famoso e qualitativamente straordinario busto di Battista Sforza, oggi conservato al Museo del Bargello di Firenze e databile agli anni immediatamente posteriori a questo primo soggiorno siciliano, attorno al 1474. L’opera di maggior importanza della sua permanenza insulare è però la progettazione e la realizzazione scultorea della Cappella Mastrantonio nella chiesa di San Francesco a Palermo, condotta assieme allo scultore Pietro de Bonitate. Sono anni, questi, in cui lo stile del Laurana e il suo linguaggio scultoreo si imbevono delle modalità esecutive di Domenico Gagini, con cui già il Laurana aveva collaborato a Napoli. Attivissimo in terra siciliana seppur di origini lombarde e con radici forti e durevoli in terra ligure, a Genova, il Gagini costruisce la sua esperienza scultorea a partire anche dall’esperienza fiorentina nella bottega di Filippo Brunelleschi, un alunnato i cui molti eloquenti riflessi si manifesteranno nei felici esiti della permanenza nella Superba.
Il vocabolario scultoreo del Laurana, così ricco di raffinatezze di cesello ancora tardo gotiche, ma pienamente conscio delle nuove istanze rappresentative rinascimentali nelle trattazioni dei volumi, delle superfici e nella pacata e dolce espressività patetica dei volti delle sue opere, si arricchisce senz’altro nel dialogo con le realizzazioni dei più importanti pittori attivi nel panorama della penisola italica e, in particolare, in Sicilia. Se da un lato, infatti, è evidente la costanza tecnica nella lavorazione del marmo con le modalità operative del Gagini e del Bonitate, dall’altro è impossibile non cogliere la notevole familiarità tra il linguaggio scultoreo e la presenza nello spazio delle opere dell’artista dalmata e le contemporanee o di poco precedenti opere di Antonello da Messina (Messina 1429/1430-1479), che aveva lasciato e stava ancora lasciando (in quegli ultimi, estremi, anni di carriera pittorica) significative tracce sul territorio insulare che gli aveva dati i natali.
A poca distanza cronologica e geografica dall’unica opera firmata e datata dal Laurana in Sicilia (altro caso analogo sono le medaglie realizzate in Provenza), la Madonna della Neve realizzata per la città di Noto nel 1471 e oggi conservata nella chiesa del Santissimo Crocifisso nuovamente in ragione dei “postumi” del terremoto di fine Seicento, i percorsi di Antonello e di Laurana si incrociano, straordinariamente, a Palazzolo Acreide. Certa e documentata al 1474 è la realizzazione da parte del pittore della magnifica Annunciazione oggi a Palazzo Bellomo a Siracusa, rinvenuta massacrata dall’umidità e dalle ridipinture nella chiesa dell’Annunciata a Palazzolo nel 1897; mentre senz’altro risalente al periodo tra 1472 e 1474 (ma priva di datazione certa) è la Madonna della Grazia scolpita da Laurana per i signori di Palazzolo, gli Alagona, per la chiesa di Santa Maria della Grazia (oggi distrutta), conservata nella sopra citata nicchia nella chiesa dell’Immacolata.
Se il diretto rapporto tra Antonello da Messina e Francesco Laurana non è documentabile tramite la ricognizione archivistica, è però indubbio e messo in luce già dalle acute osservazioni di Bernard Berenson, Adolfo Venturi e Hanno Walter Kruft, come il linguaggio di sintesi della spazialità, la modulata dolcezza dei passaggi tonali nella definizione dei visi, a livello e cromatico e compositivo, nonché l’efficacia narrativa ed espressiva delle figure, mostri con chiarezza che un rapporto c’è stato e (con estrema probabilità) è stato un rapporto di mutuo scambio. Preferisco pensare a un Laurana più giovane, in grado di percepire la grandezza e l’internazionalità del linguaggio di Antonello (di ritorno da Venezia e dal fruttuoso dialogo con le realtà centro italiane dell’umanesimo più alto, come il circolo urbinate e Piero della Francesca) che già perfeziona, nella Madonna di Palazzolo, che precede (probabilmente) la pala di Antonello, una modalità espressiva ponderata e ripensata nei suoi diversi esiti (valgano qui gli esempi di Noto, Erice e Palermo, racchiudibili nel triennio 1468-1471). Il fine sorriso velato della Vergine, la raffinatezza del manto che scende ad aprirsi sul collo, fermato da una spilla, il panneggio volumetrico e ritmato e la morbidezza pesata dei gesti che inscenano un delicato contrapposto perfettamente bilanciato, mostrano un vocabolario ricco e perfezionato, debitore certamente alla gravitas antonelliana di opere come la straordinaria Madonna Salting (1460 circa) della National Gallery di Londra, dove il muto dialogo di Gesù e Maria, con gli occhi socchiusi nella contemplazione del figlio, è enfatizzato dall’eloquente gestualità delle mani alabastrine che ostendono il Cristo. D’altra parte, è indubbio che anche Antonello, nella sua performance di Palazzolo, abbia probabilmente guardato e tenuto presente anche l’opera del Laurana, da poco realizzata, proprio nei pressi della chiesa dell’Annunciata, per la quale il pittore di Messina stava lavorando. Intenti simili, infatti, si evidenziano nei panneggi ritmici e movimentati da pieghe ad anello del mantello della Vergine nella tavola di Palazzo Bellomo, così come di analogo impianto appaiono le gestualità delle mani e del viso, chinato con familiare morbidezza nel dialogo con il Bimbo (per Laurana) e sciolto in un cenno e in un sorriso d’assenso all’Angelo annunciante nel dipinto d’Antonello. Sensibilità condivise e circolanti in larga parte dei contesti artistici (pittorici e scultorei) del tempo, eppure qui così tangibilmente prossimi da dimostrare una relazione non soltanto di luogo, bensì anche di comunione artistica.
Al di là dei debiti e dei crediti spesi reciprocamente tra questi due eccezionali interpreti della temperie rinascimentale in terra siciliana, però, varrà sottolineare l’incredibile congiuntura che portò a Palazzolo Acreide, in anni limitrofi, due artisti (e dunque due opere) di tale levatura. Incredibile, forse, è il termine sbagliato, perché frutto dello stupore generato dal pensare a un luogo come Palazzolo Acreide (pur importante patrimonio tutelato dall’UNESCO come uno dei luoghi del tardo barocco siciliano) come a un vero e proprio “centro” di aggregazione culturale, di committenza e dunque di espressione artistica di avanguardia nel pieno Quattrocento. I conti, infatti, devono farsi considerando non tanto la storia recente, quanto il peso della comunità palazzolese nel XV secolo: un peso che era di ben diversa entità e che dunque vide celebrare la consapevolezza della centralità di questo luogo attraverso il linguaggio figurativo di due dei più grandi artisti del Rinascimento internazionale, in pittura e in scultura.
Per evidenziare, caso mai ce ne fosse bisogno, l’importanza oggi di soffermarsi sullo studio di quelli che appaiono i “marginalia”, le storie dei luoghi e delle opere che sembrano di cornice ai grandi filoni della storia e della storia dell’arte, colgo l’occasione per evidenziare come nella altissima qualità della bella Madonna della Grazia di Palazzolo, il linguaggio più sintetico, dirompente e innovativo sia racchiuso (forse) proprio nel bassorilievo che ne orna il basamento. Un capolavoro nel capolavoro, che, come la Madonna di Laurana seminascosta e invisibile nella sua chiesa troppo spesso chiusa al pubblico, aspetta di essere riscoperta e amata come segno della grandezza di una terra che vide le opere dei migliori ingegni umani.
Nel 2016, con grande intelligenza, la Regione Sicilia, il Comune di Palazzolo e la Soprintendenza dei beni culturali e ambientali di Siracusa (nella persona di Rosalba Panvini) hanno promosso e realizzato una mostra che ha rimesso a confronto, dopo più di cento anni, l’Annunciazione di Antonello con la Madonna della Neve di Noto e la Madonna della Grazia di Palazzolo eseguite da Francesco Laurana. Un dialogo straordinario che è rimasto purtroppo senza alcuna eco né sul territorio né, tantomeno, nella letteratura scientifica e che sopravvive, oggi, solo nelle belle foto di Salvo Alibrio.
E anche se è vero che, certo, una operazione del genere non può essere di continuo reiterata per le precarie condizioni conservative che affliggono la tavola di Antonello e per l’inopportuna rimozione delle sculture dalle attuali collocazioni chiesastiche, potrebbe (d’altro canto) essere ben ripresa con installazioni volte al racconto in loco delle opere del maestro dalmata, oggi prive di qualsivoglia apparato che ne valorizzi il prestigio, la qualità e l’importanza nel panorama dell’arte del Rinascimento. Oggi, agli apparati tradizionali, si affiancano per altro tecnologie digitali che potrebbero permettere di evocare la pala di Antonello da Messina nella collocazione originale, a Palazzolo, sull’altare della chiesa dell’Annunziata. O ancora: molti canali digitali, dai social network a più elaborate strategie comunicative, possono essere attivati per raccontare quella che è, in assoluto, una presenza più unica che rara, con più di una storia da raccontare. Una modalità che avrebbe il certo effetto di contribuire notevolmente a spingere i visitatori (che in Val di Noto, certo, non mancano) a visitare la bellissima Madonna di Palazzolo o (perché no?) anche quella di Noto. Ma, per farlo, bisognerebbe essere prima certi almeno di una cosa: la possibilità, ad oggi estremamente rara, di trovare queste chiese aperte.