Qualunque osservatore si accosti ad un’opera d’arte pur senza averne le competenze, al di là del significato dell’opera ciò che percepisce facilmente da sé sono: l’equilibrio, la proporzione e l’armonia presenti in essa. Questo avviene perché l’essere umano stesso è plasmato con queste caratteristiche: ogni parte del corpo è in proporzione con l’altra, la simmetria quasi perfetta permette di possedere equilibrio anche se noi non ce ne rendiamo sufficientemente conto, ed essendo questa armonia innata in noi l’avvertiamo d’istinto in ciò che vediamo. L’artista invece si trova davanti ad una tela o ad una parete completamente bianca, vuota e da riempire: pertanto l’equilibrio, la simmetria, la proporzione, le deve realizzare con il proprio ingegno.
Chiunque sia stato l’autore dell’affresco del Refettorio monastico del Polirone, mi viene da pensare che si sia trovato sgomento all’idea di dover dipingere una così vasta parete, e per giunta essere condizionato dalla presenza di una grande tela con un tema prestabilito: l’Ultima Cena ripresa da Leonardo, e pertanto anche il dipinto circostante doveva essere all’altezza di un’opera che aveva suscitato tanta ammirazione. Occorreva un’idea geniale che tenesse conto anche di un pensiero teologico. Sorgeva un altro problema: il Priore del monastero, Gregorio Cortese, già segretario di Giovanni de’ Medici, divenuto Papa nel febbraio del 1513 col nome di Leone X, avrebbe desiderato che l’affresco venisse eseguito da Raffaello, il quale però, per mancanza di tempo e per il prezzo troppo elevato, non potè essere disponibile. L’artista prescelto come “futuro Parrasio” si trovava pertanto a dover competere sia con Leonardo, sia con Raffaello e quindi a non deludere il committente. Va da sè che il pittore dovesse per forza aggiornarsi su quest’ultimo e perciò scendere a Roma dove si stavano realizzando cose mirabili.
Chi poteva essere quel pittore che Gregorio Cortese aveva denominato “futuro Parrasio” cioè il grande rivale greco del famosissimo Apelle? Un pittore di cui si potesse già intravvedere una capacità in divenire e un desiderio di conoscere il nuovo per applicarsi a cose grandi.Nel monastero di San Benedetto Po era solito fermarsi un giovane di nome Antonio Allegri che, venendo dalla città natia di Correggio, si recava a Mantova presso il Mantegna, un maestro che non solo non accoglieva perditempo, ma che arrivò a ben stimare questo ragazzo docile, e sveglio nell’apprendimento, dotatissimo nell’arte e capace anche di lavorare ad affresco.
Poiché l’Allegri era stato ben accetto al Mantegna, questo diventava una garanzia anche per il Priore del Polirone. È logico quindi pensare che quest’ultimo abbia deciso di portare con sé a Roma il giovane pittore avendo l’appoggio del neo-Papa per l’accesso ai cantieri della erigenda Basilica di San Pietro e alle Stanze Vaticane dove si stavano realizzando i più grandi capolavori di tutti i tempi. Ormai tutta la critica è concorde nel ritenere che il Correggio abbia compiuto almeno un viaggio a Roma: a chi si ostina a negarlo poiché non vi sono documenti scritti rispondo che nemmeno della sua nascita vi è un documento, eppure è nato.
Quello di Roma è stato un viaggio privato, non per lavoro e pertanto non era strettamente necessario lasciare tracce. La visita ai capolavori dell’ Urbe è testimoniata dalle opere successive al viaggio avvenuto certamente nel 1513. Nel 1514, dipingendo la Madonna di San Francesco, l’artista si ricorda bene della figura di San Giovanni eseguita da Raffaello nella pala della Madonna di Foligno tanto da riportarla quasi uguale. Sempre nella pala di San Francesco, nel podio su cui sta la Madonna è raffigurato in un ovale Mosè proprio come si trattasse di una scultura e con la stessa postura di quello che Michelangelo aveva da poco realizzato. Questo solo per ricondurci ad un’opera coeva all’affresco del Polirone, poiché anche nella Camera di San Paolo a Parma (1518) ritroviamo riferimenti a piccole ma interessanti sculture romane.
A chi ha un po’ di dimestichezza con l’arte non può sfuggire, osservando l’affresco di San Benedetto Po, una certa analogia con la Scuola di Atene di Raffaello. Entrambe le opere ci presentano l’interno di un grande tempio ricco di colonne o pilastri che reggono possenti volte a botte e immaginabili cupole.
Girolamo Bonsignori, Ultima cena (1514 circa; olio su tela, 234 x 722 cm; Badia Polesine, Museo Civico) |
Correggio, Ambientazione architettonica del Cenacolo di Girolamo Bonsignori (1514 circa; affresco e interventi a secco, 1170 x 1135 cm; San Benedetto Po, Refettorio Grande) |
Raffaello Sanzio, Scuola di Atene (1510; Roma, Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura) |
Raffaello ha potuto disporre e inserire nell’ architettura le figure secondo un suo criterio, mentre il Correggio si è trovato costretto a lavorare intorno ad una tela già dipinta e con un tema ben preciso e non da lui scelto: l’Ultima Cena. Il Vangelo ci dice che essa si è svolta in una grande sala di una casa di Gerusalemme già ornata per festeggiare la Pasqua.
Il Correggio,sicuramente in accordo con l’Abate, ha voluto comporre una sorta di genesi di questo avvenimento che, partendo da lontano, doveva arrivare non solo a quella Cena, ma restare per sempre come l’eredità che Gesù ci ha lasciato in quel momento con il grande dono del suo Corpo.
Poiché questo fatto è avvenuto a Gerusalemme era forse più adatta un’ambientazione di grande prestigio: l’interno di un tempio. E quale se non quello magnifico eretto da Salomone, già contenente l’Arca Santa, primo sigillo di Dio col popolo d’ Israele nel vecchio Testamento? Questa è una nostra supposizione, ma diversi elementi concordano con la descrizione biblica, sia nella presenza degli arredi, lampade e candelieri, sia nel rivestimento d’oro dell’interno. Anche le figure rappresentate sono personaggi veri dell’Antico Testamento e non statue come in Raffaello.
Questo interno, seppur mutilato dalle scorrerie napoleoniche, ci appare quanto mai complesso a motivo del susseguirsi di binati di colonne, di archi, di volte e di cupole. Il Correggio si è qui dimostrato assai esperto di geometria tanto che l’architetto Grazia Sgrilli ha potuto ricostruirne con precisione la pianta da cui ne deriva che al di là delle colonne binate a destra e a sinistra si aprono due cappelle laterali, mentre nella navata centrale due cupole stanno rispettivamente una sull’Ultima Cena e una sulla campata prima della porta.
È una costruzione non solo di splendido rigore architettonico, ma anche un interno in cui con invenzione nuova, si sommano gli elementi costruttivi che dalla possanza e ricchezza dell’arte romana, passando per quella paleocristiana, si arriva ad una formula pienamente rinascimentale. Nell’arco di Costantino a Roma le colonne poggiano su alti podi scolpiti che il Correggio invece ovviamente dipinge. Le colonne binate le vediamo nel mausoleo di Santa Costanza, mentre in Santa Sabina esse sono rudentate e con capitelli assai ornati. Questa tipologia la ritroviamo anche nelle colonne della cornice lignea della Madonna di San Zeno del Mantegna a Verona.
Inoltre la cupola visibile è aperta verso il cielo, memore dell’oculo del Pantheon e della Camera degli sposi del Mantegna. Non potendo l’apertura sommitale lasciar entrare la luce poiché essa è appena percettibile, il Correggio pone una splendida lampada a portar “luce ai nostri passi” come dice il salmo. È una lampada che ci riporta a quelle veneziane sia per la preziosa oreficeria sia per gli elementi in vetro quali il vaso centrale in lattimo, l’uovo di tipo pierfrancescano e la piccola croce sommitale di perline di vetro. La lampada è segno della presenza reale di Dio e stare sotto di lei è come mettersi sotto la protezione dell’Invisibile. Essa ci ricorda la lampada che sta sempre accesa davanti al tabernacolo. L’uovo è una realtà primordiale che contiene la molteplicità degli esseri. Esso non è solo collegato alla “Nascita”, ma piuttosto alla “Rinascita” perchè il suo ciclo è continuo e opertanto l’uovo conferma e rinnova la risurrezione. Mi sembra pertanto che la lampada che pende dal cielo, così congegnata, sia perfettamente aderente alla figura del Cristo sottostante e a quel preciso avvenimento.
Considerando l’opera in senso tridimensionale non possiamo dimenticare la regolarità prospettica ben ricostruibile attraverso l’inclinazione delle cornici, dei capitelli, e dei pulvini. È ovviamente una prospettiva centrale in cui il punto di fuga o di vista si trova sulla linea di mezzeria e sul petto di Cristo. Tuttavia l’artista doveva lavorare su una superficie piana, quindi bidimensionale ed allora occorreva uno schema geometrico in cui inserire tutta la costruzione architettonica.
L’intera superficie dipinta sta dentro ad un rettangolo orizzontale, ma per focalizzare meglio l’attenzione sull’avvenimento più importante, era preferibile creare un complesso armonico avvalendosi di una figura geometrica regolare. Già qui, come farà poi sempre nelle altre opere, il Correggio usa la forma del quadrato che ha per dimensione quella minore rispetto al dipinto, cioè l’altezza dell’intero affresco, lasciando quindi a margine quei due basamenti presenti nei lati inferiori trattati a monocromo in cui sono raffigurati a sinistra Abramo e Isacco, che rappresentano il tema del sacrificio, e a destra Melchisedech, ossia l’offerta del pane e del vino.
Ci accorgiamo che i plinti corrispondono ciascuno ad un terzo dell’altezza dell’intero dipinto, pertanto va da sè che questo è il modulo con cui suddividere i lati del quadrato, il quale risulta così formato in tutto da nove quadrati minori. Considerando la partizione in senso orizzontale si constata che la fascia inferiore è dedicata interamente alle figure, mentre i restanti due terzi superiori includono l’architettura. La fascia centrale comprende le colonne del secondo piano e la terza gli archi e le volte.
Dividendo la base del quadrato per tre le due perpendicolari centrali passano sul bordo degli archi a destra e a sinistra che determinano le ideali cappelle laterali più vicine alla porta di fondo, e sulle colonnnine che sostengono tale arco. Ancora, queste due linee includono le due terne di Apostoli accanto a Gesù nella tela del Bonsignori. In tale complesso la figura di Cristo si trova davanti alla porta centrale, che, se anche disegnata durante il restauro, deriva però dagli stipiti che sono dipinti sulla tela. Cristo seduto davanti alla porta lo si si ritroverà nel successivo affresco del Correggio (nella lunetta col tempio) nella Camera di San Paolo a Parma.
Consideriamo ora il quadrato con base A B corrispondente ad un nono dell’intera superficie. Puntando il compasso nel punto B con apertura uguale alla diagonale (BK) se ne ottiene la proiezione nel punto H, per cui risulta BH, cioè il lato del quadrato più la larghezza del podio uguale alla diagonale del quadrato medesimo. Unendo i punti BHK otteniamo un triangolo isoscele; questo schema si ripete anche nel quadrato laterale superiore cioè nella fascia mediana del dipinto, e così pure nella corrispondente parte destra dell’affresco. I vari triangoli isosceli contengono ciascuno i personaggi fondamentali rappresentati nell’affresco.
Se dal punto centrale superiore P del grande quadrato si tracciano i segmenti PA e PM corrispondenti agli angoli inferiori del quadrato stesso si determina un triangolo isoscele pressoché simile a quelli precedenti che contiene: la cupola di fondo con l’opercolo del cielo, la parete di fondo con la “porta” e tutta la tela con l’Ultima Cena. Vengono dunque lasciati ai margini tutti i personaggi prima della venuta di Cristo. Pertanto questa Ultima Cena, sigillo del Nuovo Testamento, non solo viene fatta svolgere nel Tempio di Gerusalemme, ma vuole mostrare che Cristo sta al centro ed è Egli stesso il nuovo tempio; ed è la Porta attraverso cui dobbiamo passare per giungere al cielo. Questo era stato preconizzato da Isaia che appare in alto sulla figura di Cristo come chiave di volta dell’arco centrale di fondo.
Misurando l’altezza dell’intero affresco si constata che essa è il triplo dei basamenti estremi (che mostrano i monocromi), i quali diventano l’unità di misura della costruzione architettonica. Tutta la fascia inferiore, corrispondente a un terzo dell’altezza totale, è dedicata alla copia dell’Ultima Cena. La fascia centrale comprende le colonne intemedie, mentre quella superiore contiene la grande cupola con il lampadario. Se dal punto P si tracciano i due segmenti PA e PM si ottiene un triangolo isoscele che include la tela con la figura di Cristo sovrastata da Isaia, lasciando a margine gli antenati. Considerando il quadratino con altezza AK cioè uguale al basamento e tracciando la diagonale KB si può constatare, facendone il suo ribaltamento che essa è uguale al lato AK + AH cioè uguale ad HB. La stessa cosa avviene per i quadrati laterali e superiori e tutti contengono gli antenati di Cristo. Si può ancora notare che il prolungamento della diagonale che contiene il re Davide coincide col punto di vista di tutta l’opera che si trova al centro del petto di Cristo. |
Avevamo già fatto cenno ad una analogia compositiva tra l’affresco di San Benedetto Po e la Scuola di Atene di Raffaello. Qui le figure sono rappresentate fuori dal tempio, che non è certamente greco ma che piuttosto sembra mostrare la Basilica di San Pietro in costruzione. Il punto di vista della scena si trova sulla linea di mezzeria e fra i due filosofi centrali. Comportiamoci ora come nel Refettorio polironiano tenendo cioè presente che l’artista urbinate ha lavorato anch’egli su di una superficie bidimensionale e pertanto vediamo come ha scandito lo spazio.
Considerando l’altezza del dipinto si può constatare che la metà inferiore è tutta occupata dai personaggi, e quella superiore dall’architettura con le relative decorazioni, e dal cielo. Se costruiamo un quadrato avente per lato l’altezza dell’affresco ci accorgiamo che essa è divisibile in quattro parti, prendendo per modulo il livello determinato dal piano superiore del piccolo basamento marmoreo dipinto sulla porta reale a sinistra. Tale elemento è posto al di fuori del quadrato generale, come saranno i successivi plinti correggeschi del Polirone.
Suddividendo il quadrato generale in sedici parti uguali ci accorgeremo che la penultima linea orizzontale in alto è esattamente tangente alla curvatura superiore della volta centrale; la linea di mezzo sta poco al di sopra delle teste dei filosofi, ma passa con precisione su quelle dei due personaggi più alti a destra e a sinistra. La linea orizzontale più bassa si riferisce al gradino superiore ove giace Diogene, passando con precisione sulla testa del personaggio che sta scrivendo sul cubo (Eraclito con le fattezze di Michelangelo). Il punto di vista che cade sulla mano di Platone corrisponde a uno + un mezzo del modulo. L’asse del dipinto separa i due grandi filosofi greci, Platone e Aristotile, e ciascuno porta nel quadrato in cui è inserito i propri seguaci. Nel quadrato di Platone è inserito all’estrema sinistra anche colui che si ritiene essere Socrate. Ogni quadrato contiene uno dei più grandi geni della cultura umanistica e scientifica dell’antichità con le sembianze delle più alte personalità del rinascimento centro-italiano. Raffaello pertanto propone in questo affresco una duplice lettura: quella del presente sovrapposta all’antico, e di questo si ricorderà bene il Correggio quando, nel 1518, dipingerà la Camera di San Paolo a Parma dove tutto sembra una rievocazione mitologica ma vi è sottintesa anche una lettura biblica.
Se consideriamo l’altezza dell’affresco constatiamo che esso è il quadruplo della quota di altezza segnata dal piedestallo dipinto a sinistra, sulla porta, e che pertanto costituisce il modulo del dipinto. Se dividiamo per quattro la dimensione verticale dell’affresco notiamo che il primo quarto inferiore corrisponde all’altezza dell’ultimo gradino; il secondo quarto alla serie orizzontale dei filosofi dell’antichità, mentre le due parti superiori contengono, con quote significative, la possente architettura che vuole riprendere l’erigenda Basilica di S.Pietro. Possiamo notare che il piedestallo di cui sopra si trova all’esterno dell’ipotetico quadrato generale e ai personaggi principali, situazione che il Correggio riprenderà nel refettorio di San Benedetto Po. |
Teniamo anche presente che un vero artista prova dentro di sé un tal desiderio di vedere, di conoscere, di fare nuove esperienze, che non può trattenersi dall’andare, dall’incontrare altre personalità, per arricchirsi e alimentare quel fuoco che lo fa fremere. Antonio Allegri ha saputo vedere, capire, introiettare le novità eppoi rielaborarle in modo sempre nuovo tanto infine da giungere, nella cupola del Duomo di Parma, al massimo dell’ardimento pittorico.