Nel giro di pochissimi anni (dal 1518 al 1522) toccò ad Antonio Allegri di Correggio la ventura di diventare il pittore-interprete, e geniale trasfiguratore, dei mirabili ideali scaturenti dalle menti delle tre più grandi donne del rinascimento settentrionale. Di esse diamo qui un ràpido specchio e ragioni. La badessa Giovanna Baroni da Piacenza, nel 1518-19: con lo stupefacente affresco della Camera di San Paolo in Parma che rimane tuttora la fonte di una simbiosi culturale straordinaria e pressoché inesauribile. La contessa Veronica Gàmbara, signora di Correggio, ospitante i re di Francia, l’imperatore Carlo V, poeti e letterati di alta fama: con l’eccezionale ritratto polisemico (1520-1521) che oggi campeggia all’Ermitage di San Pietroburgo. La marchesa di Mantova Isabella d’Este Gonzaga, dominatrice intellettuale delle corti italiane attraverso le sue committenze, il collezionismo, e la propria elaborata autocelebrazione: con le due splendide Allegorie (1522) che conclusero felicemente la nuova sede del suo lirico e principesco Studiolo.
Ricordiamo qui il quinto centenario di un avvenimento che potrebbe sembrare minore ma che offre all’antologia delle meraviglie rinascimentali una doppia gemma incomparabile per bellezza e per significanza intellettuale. Questo è un contributo della Associazione Amici del Correggio, che si affianca alle altre esegesi.
Occorre una premessa un po’ narrativa al fine di legare i dati storici certi con l’ipotetico connettivo che possa rendere completa una vicenda reale, densa ed avvolgente. Isabella d’Este Gonzaga, Signora (e non per mero titolo) dello Stato mantovano, si ritrovava intorno all’anno 1520 con l’età piuttosto ragguardevole di anni 46 provata da numerose gravidanze, dai viaggi e dal recente lungo pellegrinaggio alla Sainte-Baume presso Marsiglia (1517) per venerare di persona la grotta e la memoria di Santa Maria Maddalena. La morte del marito, il marchese Francesco II Gonzaga (1519), la rendeva direttamente investita degli affari di Stato ed inoltre il complesso cantiere artistico per il rinnovo della parte antica del Palazzo la impegnava di persona quotidianamente. Per tutto questo decise il trasferimento del suo Studiolo e della “Grotta delle antichità” dagli ambienti disagevoli del vecchio castello di San Giorgio al più ameno luogo della Corte Vecchia a pianterreno, nel cuore della rappresentanza marchionale. Lo Studiolo era diventato celebre per la presenza dei dipinti del Mantegna (Il Parnaso eppoi Il Trionfo della Virtù e la cacciata dei vizi); del Perugino (La Lotta tra Amore e Castità); di Lorenzo Costa (Isabella d’Este incoronata nel mondo di Armonia e infine Il Regno del Dio Como). Già questi titoli ci delineano l’esteso tema dell’agone tra il bene il male, tra la sapienza e la carnalità, senza voler nascondere un vincente protagonismo personale di Isabella stessa. Le fonti per le molteplici e complicate elucubrazioni della principesca committente furono tratte da un’ampia letteratura in termini etici e con prescelte radici mitografiche, ma tradotte in particolarismi esaperanti, richiesti e riversati sui succubi pittori. Non dimentichiamo che nella nuova sistemazione il passaggio tra la Grotta e lo Studiolo era ornato da due portali dei quali quello di Gian Cristoforo Romano, bellissimo e oggi ancora in situ (1501 circa), appare anch’esso impaginato dai medesimi motivi. L’aperto cortile alberato portava poi un’alta epigrafe, girante sulle pareti, laddove Isabella si dichiarava “nipote dei Re d’Aragona, figlia e sorella dei Duchi di Ferrara, sposa e madre dei Marchesi di Mantova”. Quello che potremmo chiamare il “nuovo ambiente di identità” ricevette un pavimento a piastrelle maiolicate di carattere onorario e un magnifico soffitto ligneo dorato. I dipinti che abbiamo elencati si disposero sui lati lunghi della sala, ma la nuova parete di uscita lasciò due spazi verticali ai fianchi della porta; da essi nacque il pensiero di Isabella per una conclusione paradigmatica del lungo tema. In effetti la nobilissima Estense si era fatta vessillo (verdianamente “trionfale e pio”) di ogni virtù: le cui diane squillanti componevano su se stessa l’ideale femminile del rinascimento. La Sapienza doveva essere celebrata e il Vizio relegato al fallimento umiliante.
La nostra narrazione ora vuole seguire la ricerca della Signora per completare l’arredo figurativo dello Studiolo: scegliere un pittore che lavorasse con figure più grandi di quelle vincolate della serie precedente e che potesse imprimere con forza e grazia sia l’ammonimento finale dell’insistente predicazione etica delle pareti, sia la celebrazione solenne della nobile committente quale istruttrice morale di un’intera società. Isabella pensò al Correggio. Da molti mesi le giungevano lodi ammirate per le opere di quel lontano allievo del Mantegna che ella aveva conosciuto come giovane frescante alla Cappella del Maestro (e che poi le aveva fatto pervenire quel “Cristo giovenetto di anni circa duodeci” mai dipinto per lei da Leonardo) e adesso si era portato a Parma. Certamente la scintillante Camera che l’Antonio aveva affrescato per la badessa di San Paolo con un mirabile intreccio mitologico e biblico l’aveva incuriosita, eccome! Poi la cupola di San Giovanni Evangelista aveva suscitato cori di incensi senza pari. Ora, nell’inverno tra il 1520 e il 15121, la contessa di Correggio, la sua amica Veronica, le annunciava che “il gran maestro dell’arte” aveva iniziato per lei un ritratto magnificente, solenne e denso di significati: un vero piacere per gli occhi e per l’animo. La marchesa Gonzaga non perse tempo: inviò un cavallaro, com’era solita, e chiese un incontro col pittore. Così nell’incipiente primavera del 1521 il trentenne Allegri, animoso del suo recente matrimonio e carico d’entusiasmo per il procedere della sua carriera, riprese dal luogo natìo il ben noto cammino per il Polirone: rivide i monaci della sua impresa del 1513, da loro ebbe nuovamente l’amicale traghetto dal Gorgo sul grande fiume, eppoi si affacciò ai laghi del Mincio scorgendo le torri di San Giorgio. Nei due o tre giorni della sua sosta a Mantova qui, nella Corte, avvenne uno dei più intensi e fascinosi colloqui d’arte che la storia potrebbe ricordare: Isabella e il Correggio duellarono di cultura alla ricerca delle Allegorie definitive per il ciclo dello Studiolo. L’Estense pose sul tavolo tutta la sua capacità semantica, allusiva, raggiata negli innumeri particolari della trama proposta; e il Correggio (che certamente non rifiutò lo schema) impiantò di contro la sua sintesi prodigiosa, comprensiva e brillante, pur tutta affidata a poche e sostanziali figure.
Non abbiamo un contratto di committenza ma il documento ripreso con attenzione dalla accuratissima Elisabetta Fadda registra un pagamento del 1522 al Correggio da parte della corte di Mantova, ossia da Isabella. In un inventario poi del 1542 relativo agli oggetti d’arte di proprietà della marchesa sono registrati i due quadri di Antonio da Correggio “ai lati della porta ne la intrata”. Dunque nessun dubbio oggettivo, né storico né critico. Nel medesimo inventario viene chiamata per prima, equivocando però sul soggetto, la “historia di Apollo et Marsia”, anziché l’Allegoria del Vizio o dell’Insipienza. Questa, come si pensa comunemente, doveva concludere con un passaggio ammonitorio la parete di sinistra uscendo, ma è possibile l’ordine opposto. Non sappiamo con certezza come fossero disposte sulle due pareti le cinque grandiose tele portate giù dalla precedente allocazione in Castello, ma il filo anagogico conduttore era senza dubbio uno solo: la contrapposizione del Bene contro tutti gli errori dell’umanità. Il Bene assomma in sé le attività dell’intelletto e della coscienza biblica, amalgamando di fatto la cultura classica e i suoi esempi con l’umanesimo cristiano portatore della sovranità etica, virtuosa. Non riprendiamo l’ostensione ordinata dei soggetti pittorici e non vogliamo ripetere le loro esplicazioni, già abbondantemente fornite da una letteratura critica adeguata. Qui trattiamo soltanto della duplice conclusione che Isabella affidò al Correggio.
Innanzitutto si tratta di una accoppiata inscindibile, ove pittoricamente i due gruppi figurativi nella loro composizione interna si collocano su di una proda, al di là di uno scoscendimento rìpido in primo piano: tale impostazione offre il senso di un “non ritorno”, o meglio di una condizione definitiva. Al di sopra dei gruppi stanno le aperture arieggianti. L’Allegoria della Virtù o della Sapienza ha un carattere più spiccatamente segnato da direttrici ascensionali: qui la composizione passa dalla terra abitabile al cielo atmosferico ed esplode poi con irruenza in un fulgore dorato e vìvido di enfasi spirituale ove veleggiano tripudianti le Virtù teologali.
Ma prima di passare alla nostra analisi semantica riteniamo sia bene rivolgerci al soggetto fascinoso, conservato nella Galleria Doria-Pamphilj a Roma, che è senza dubbio un primo impegno del Correggio sul tema, lasciato incompiuto si dice probabilmente per ragioni tecniche ma forse per quell’impulso di continua sollecitazione che sospingeva sempre il pittore a “vedersi nell’opera” e dunque a riprovarsi, come possiamo ricordare nei rimpalli tra abbozzi, tavolette e disegni in diverse altre occasioni creative. Anche la presenza di un’altra prova già in Palazzo Altieri, su tavola, avvalora il nostro pensiero. Di questo vi è ampia trattazione nel saggio “L’Allegoria della Virtu? Doria-Pamphilj”: note tecniche e critiche di Diego Cauzzi, Andrea G. De Marchi, Pietro Moioli, Claudio Seccaroni; reperibile negli Atti del Convegno di Studi del 2008 presso l’Associazione Amici del Correggio. Qui si dice: “L’Allegoria della Virtu? di Correggio nella Galleria Doria Pamphilj suscita particolare interesse per due motivi. Il primo sta nell’incompiutezza dell’opera, che consente di capire meglio la genesi e la maniera di procedere tenuta dal pittore, innescando congetture sulle ragioni dell’interruzione del lavoro e rivelando i nudi di partenza. Il secondo riguarda la tecnica, quella della tempera su tela, che venne impiegata gia? nel Medioevo, registrando una speciale frequenza in area padana, soprattutto nella cerchia di Mantegna, ossia proprio nel mondo da cui mosse il giovane Correggio”.
In tale saggio, ricco di una analisi scientifica profonda e accuratissima, che ha compreso l’esemplare di Roma e i due del Louvre, il testo si conclude con l’ammirazione per le preparazioni correggesche e con la messa in evidenza dello spessore relativamente cospicuo degli strati pittorici del dipinto Doria Pamphilj. Questo sembra collegarsi in modo organico alla redazione finale del Louvre, stante la presenza di strati preparatori la cui consistenza ha consentito alle tele del Correggio di raggiungere una straordinaria levigatezza del colore. Noi vi aggiungiamo la nota di quella grazia “pre-settecentesca” che è la mirabile sorpresa di questo exploit allegriano.
Procediamo dunque oltre a questo recupero critico che riteniamo assai utile. Nella copertura dipinta della Camera di San Paolo a Parma (1518-19) il Correggio era riuscito a coniugare il mito e la tradizione biblico-cristiana secondo i complessi pensieri della badessa Giovanna Baroni da Piacenza. Dobbiamo considerare tale straordinario affresco, ricco di vividi umori semantici, come una espressione vicina e precedente che aiutò di certo il pittore nel soddisfare le successive ed esigenti richieste della marchesa di Mantova per il completamento maieutico del suo nuovo Studiolo: anche questo locus explicationum per evidente compito.
Sistemare in una tela di non grandi dimensioni (cm 149 x 88) le Tre Virtù Teologali, il richiamo alle Quattro Virtù Cardinali, taluni elementi del sapere, la protagonista incoronata, altre figure significative, e farlo in modo chiaro, era cosa senz’altro ardua, che soltanto la genialità dell’artista riuscì a risolvere con impeto e raffinatezza. Sappiamo ad esempio che di fronte ad un quadro il nostro occhio si posa di prima norma su ciò che sta al centro, e il Correggio non dimentica questo impatto. Nel nostro caso tracciando le due diagonali del dipinto il punto centrale di tutta la composizione cade sulla bocca della bellissima Donna che ha per noi un’espressione di grande amorevolezza: la protagonista si mostra infatti come l’Allegoria della Sapienza; alla quale (più che probabilmente) Isabella d’Este Gonzaga volle essere assimilata.
La “Virtù per eccellenza” da cui emanano le consorelle, è infatti la Sapienza, ed il Correggio (in dialogo certo con la marchesa) la raffigura come la Minerva dei Romani. Essa non è qui esattamente come l’Athena dei Greci, dea anche della guerra, poiché ha posato a terra lo scudo ornato dalla terrificante Gòrgone, ha l’asta spezzata e si è tolta l’elmo piumato sormontato da una Sfinge, figura simbolica di feroce “ottusità” che può essere vinta soltanto con lo studio e la sagacia. La gamba della dea è raffinatamente ornata da uno schiniere coperto dal lembo di mantello maculato di un felino, culminante sotto al ginocchio con una inquietante testa umana: il lembo potrebbe essere di pelle di lince, animale simbolo di velocità, di intelletto e di vigilanza sull’uomo a motivo della sua vista acuta. Occorre ricordare che il Correggio nella Camera di San Paolo aveva utilizzato una simile pelliccia per la faretra portata da un putto nella parete est, e riprenderà il modo sulla medesima guaina per dardi nel sontuoso dipinto erotico, sempre di destinazione mantovana, di Venere, Amore e un Satiro (1526-28) oggigiorno conservato al Louvre. Isabella dal canto suo volle indossare una pelliccia egualmente maculata nel tardo ritratto che si fece dipingere dal Tiziano! Così abbiamo colto un giro di assonanze che dovrebbero essere simboliche e non casuali.
Un altro raccordo tematico con la Camera di San Paolo, tra mito e verità scritturale, il Correggio lo mantiene nella sovrapposizione ideale della figura stessa della Sapienza, che qui si presenta come Minerva ma che impersona latamente Maria, la “Sedes sapientiae” della fede cristiana.
Il Correggio però non finisce ancora di stupirci, perché altri elementi simbolici compaiono nel dipinto. Alle spalle di Minerva (la Sapienza) si ergono due colonne formate da rami di cedro sostenuti da intrecci di canne: una virtuosità pittorica come egli aveva già fatto nella volta della Camera di San Paolo a Parma. Altre colonne simili sono visibili alla nostra sinistra, cioè alla destra della Sapienza, che è anche la parte geografica dove si trova la Terra Santa. Seguendo un probabile pensiero isabelliano ricordiamo che il re Salomone aveva chiesto a Dio il dono della sapienza e aveva fatto costruire il Tempio di Gerusalemme con colonne e rivestimenti di pregiati legni di cedro del Libano. Dobbiamo pure tenere presente che il cedro, assieme alla palma, simboleggia la Vergine Maria, figura incorruttibile ed eterna: com’è idealmente la longevità di questi alberi.
Riconsiderando le diagonali del dipinto, che trovano il loro punto d’incontro sulla bocca della Sapienza, la diagonale che chiude la parte destra comprendendo tutte le figure terrene interseca una conchiglietta con la perla, posta ad ornare il capo della Suprema Virtù, come quella che porta Diana nella Camera di San Paolo e che ivi raffigura la castità. Possiamo così azzardare l’ipotesi che la Sapienza stando ai piedi di un cedro, ornata di una perla nella conchiglia, sia simbolo del grembo materno che custodisce un tesoro prezioso; con un piede schiaccia un drago, segno del male, e allude alla Madonna, figura terrestre scelta da Dio per riscattare suo tramite l’uomo dal peccato. E sarà proprio lei, la donna dell’Apocalisse, che alla fine dei tempi dovrà annientare definitivamente il drago. Questo nel dipinto ha già il ventre compresso a terra e tenta di reagire, ma invano, con gli ultimi colpi di coda. L’asta rossa, normalmente riservata agli eroi, è spezzata secondo l’antica significazione di un combattimento terminato e vinto. Anche gli abiti che rivestono la donna riprendono quelli di Maria: il blu che è segno divino e quel rosa antico che il Correggio ha usato diverse volte nell’immagine mariana. Annotiamo che ogni particolare non poteva sfuggire alla mentalità e alla richiesta fortemente semantica di Isabella, ossia della committente più imperativa e scrutatrice di ogni tempo. Così le analogie significatrici continuano.
Pure il cristallo, simbolo della saggezza che a forma di sfera orna la spada della Fortezza, è tradizionalmente l’immagine di Maria attraversata dalla luce celeste del Figlio restando Immacolata. L’evangelista Luca riporta l’episodio dove Maria trovò il figlio dodicenne, Gesù, nel tempio di Gerusalemme che dissertava con i dottori della Legge suscitando in loro meraviglie: tra quelle colonne di cedro stava proprio colui che era la suprema sapienza, il Figlio di Dio. Non dobbiamo infine trascurare la figura angelica che aleggia su quella centrale: la corona di alloro che essa porta si collega perfettamente con la Sapienza, ma il ramo di palma (simbolo di martirio e di vittoria) lo si deve riferire a chi ha subito il martirio per eccellenza ottenendo la vittoria sulla morte: Cristo, colonna di congiunzione fra terra e cielo! Di certo l’Allegri dapprima elaborò nei suoi colloqui con Isabella tali concetti difficili da rappresentare, eppoi nella sua pittura ha creato gli alti simboli figurativi dimostrandosi in grado di essere colto e geniale.
Le Virtù Cardinali (Fortezza, Giustizia, Prudenza e Temperanza) sono impersonate da una elegante ma sobria fanciulla che siede per terra, alla destra della Sapienza la quale sovrasta e regna sul gruppo figurativo: tali Virtù sono infatti strettamente legate ai rapporti fra le persone umane. Peraltro tutto il consesso femminile posto in basso nel dipinto viene dal Correggio situato in uno spazio ben definito: un quadrato che il pittore ottiene dal ribaltamento del lato di base sul verticale, secondo una misura tipicamente allegriana. Il lato superiore di questo quadrato tocca così con precisione la sommità della testa della Sapienza.
Sappiamo che il quadrato simboleggia i quattro elementi del creato: aria, acqua, fuoco e terra. Il Correggio, anziché utilizzare quattro figure per rappresentare le Virtù Cardinali, opera una sintesi sorprendente e mirabile in una sola fanciulla che porta quattro simboli: la Prudenza, significata dalla serpe che si erge sul suo capo; il morso della Temperanza in una mano e la spada della Giustizia nell’altra, dove l’importanza che questa virtù sia sempre cristallina viene esposta dal vivido pomello che orna l’estremità della spada. D’altra parte la Fortezza, rappresentata dal Leone, non deve mai essere debordante ma misurata, ed è per questo che la fanciulla la tiene doma sotto di sé.
Più intriganti sono certamente le figure sul lato opposto, studiate in diversi disegni: una donna ha un compasso aperto sul globo a cui sta davanti un bimbetto nudo. Questa donna ha una carnagione più scura ed è forse più anziana, ma più esplicitamente sorridente; una serie di bende le cinge il capo (come nella “Cingana o Zingarella”) forse indice della sua abitudine a viaggiare, e con l’indice alzato segna un luogo lontano. È opinione comune che essa impersoni le scienze terrestri. Possiamo allora formulare un’ipotesi: poiché il Nuovo mondo era stato scoperto da pochi anni è probabile che Isabella, certamente attenta a tale clamorosa conquista, abbia voluto inserirla nel suo dipinto con la convinzione che tanto ritrovamento sia derivato dalla intraprendente sapienza umana. Ecco che la donna anziana potrebbe rappresentare l’Europa, ossia il vecchio continente che attraverso i viaggi ha trovato il mondo nuovo, indicato e quasi impersonato qui dal Bimbo ignudo, che, appunto, è scoperto: egli, col viso lieto rivolto verso l’osservatore, segna con la sua mano sinistra un punto discosto sul globo. Con il compasso, appoggiato su uno spazio preciso, la Donna misura i gradi delle distanze sulla sfera terrestre e con la propria mano sinistra indicante, che esce dal campo pittorico, sembra segnalare il ritrovamento di un nuovo paese lontano.
Di grande bellezza e soave eleganza è il Genio angelico che incorona Isabella con l’alloro e le reca la palma. Egli ha uno straordinario ruolo nel componimento dimostrativo dell’Allegoria: è infatti sospeso tra terra e cielo e assolve al compito di mediatore-congiuntore tra i due mondi ideali nei quali si librava lo spirito di Isabella.
Tornando al quadro della Sapienza e avendone tracciato le diagonali abbiamo definito graficamente due triangoli equilateri giustapposti in verticale. Per ottenerli riteniamo che l’Allegri abbia studiato finemente i due schemi geometrici “di perfezione” che fossero assolutamente adeguati ai ruoli màntici delle figure da inserirvi. Nel triangolo superiore che riguarda il cielo (o meglio ancora il Paradiso poiché l’artista ha utilizzato uno scoppio sfolgorante di colore dorato) sono collocate le Tre Virtù Teologali, munite di ali e ben definite negli abiti dai loro tipici colori: il Verde per la Speranza, il Rosso per la Carità, e il Bianco per la Fede. Delle tre Virtù la Carità è la più avanzata, perché come dice San Paolo è la più importante ed è su questa che saremo giudicati; nella vita eterna la Fede e la Speranza non compariranno più, mentre ciò che resterà sarà il bene compiuto, l’Amore. Queste tre Virtù reggono due strumenti musicali: una lira e una tromba dorata. Nel mito la lira era simbolo dell’armonia cosmica che univa cielo e terra; far vibrare la lira significava far vibrare il mondo ed ammansire le belve: come possiamo vedere nel dipinto il Drago che viene dominato dalla Sapienza, ossia calpestato dal suo piede. La tromba, che nelle grandi celebrazioni associava cielo e terra, nell’ambito cristiano la si trova rappresentata, specie in pittura, nelle scene del Giudizio Universale, momento in cui la Bestia apocalittica sarà definitivamente sconfitta. In questo dipinto però la tromba non è protesa a suonare ma è volta all’indietro, tenuta dalla Fede e ancor più saldamente dalla Carità che non vuole far conoscere il bene elargito. Prima della svasatura terminale dello strumento l’Allegri ha posto una figurina scolpita, egualmente dorata, che sembra suonare una bùccina, cioè una conchiglia dal suono forte che sta ad indicare la Parola. Importante è pure il dominante e supremo bagliore che avvolge e sospinge le Virtù Teologali: si rimane colpiti dall’eccezionale forza di questo lampo divino che detiene una forza di eternità e che non sfuma nell’atmosfera terrestre come avviene in altre opere allegriane dilatate fra cielo e terra. Qui l’impeto cromatico è assoluto, felice e reboante.
Il paesaggio rimane di una amplitudine leonardesca, quieto e disteso dai campi dorati ai diafani monti, accogliendo una muta città lontana. Pare che le città lontane nelle stesure correggesche abbiano un carattere profetico ed evocativo, così come possiamo vedere in altri dipinti: si riferiscono sempre al mistico “luogo di Dio”, alla Gerusalemme celeste. Di contro l’Allegoria del Vizio o dell’Insipienza che allude esplicitamente ai vizi terreni ha una ambientazione totalmente terrestre, e per questo si colloca in un largo invaso vegetale che offre al Correggio (dobbiamo dirlo) un canto naturalistico arioso e spiegato, formante uno dei “paesi” più belli della sua pittura.
Il soggetto negativo dell’uomo dissoluto, ormai vecchio, è la dimostrazione del punto d’arrivo dell’esercizio dei vizi nella vita mortale: il corpo, attore e fonte a suo tempo dei godimenti sensuali, è ora debole e indifeso contro i risultati dei medesimi, ed è diventato sede di altrettanti dolori. Nell’estesa simbologia del gruppo l’uomo è legato allo stesso albero della vita che appare come un arborone fatale; è dunque impotente mentre le tre Furie, tutte fornite di serpi repellenti, si adoprano in studiate torture. Queste si rivolgono in contrappasso ai sensi già usati per godere: la vista, l’udito, il tatto. Il distendersi dell’intera coloritura fa di questa Allegoria un raggiungimento di piena felicità creativa: qui trionfano i nudi, le amate nudità corporali del Correggio raccolte in una composizione pressoché “in circolo” che offre la maestria delle posture avvitate ma totalmente captabili, e che appena sottende quel cerchio luminoso di corpi il cui perno è l’ormai vinto membro maschile dell’antico lottatore e che comprende (notate) la spaccatura recente del ramo sopra la sua testa: severo segno di pungente riprovazione. Dall’albero pendono tralci frondosi di una vite infeconda.
Chi volesse eventualmente entrare negli anfratti simbolici (provenienti forse da un criptico elenco isabelliano) potrebbe elucubrare su altri aspetti: sui tre gratuiti ma musicali panneggi delle furie e sui loro colori, riconducibili ai disinganni dell’uomo vizioso; sulla ispida pelle caprina dove egli siede; sulla striscia di melma dove appoggia i piedi. Ma poi, come introduttore e come richiamante, il pennello di Antonio ci regala quel monello irridente, ficcato giù in primo piano nella costa slittata, e forse aggiunto a tela ancor fresca, che ci offre una vivissima tipologia di stuzzicante compiacimento infantile, capace di un ammicco senza pari. Osserviamo il grappolo d’uva il cui racimolo è stato svuotato dagli acini, che a mo’ di fionda il monello dagli occhi strabuzzati ci mostra qual simbolo degli effetti del vino. Il terreno è pervaso dal tipo di edera strisciante, che è sterile. Il tutto accanto al grosso spuntone di roccia levigata, in un contesto cromatico la cui forma e i cui pigmenti danno vivo lavoro alle indagini più decrittanti.
Se l’Allegoria del Vizio fosse l’immagine che chiude l’intera serie dello Studiolo ci troveremmo di fronte al sàpido commiato di quel genio padano che a tal data si firmava ancora, sorridendo,“Antonio lieto”.
Avevamo citato la Camera di San Paolo come primo capolavoro di amplitudine culturale del Correggio in Parma ed ora, a conclusione dell’analisi semantica di questo dipinto per lo Studiolo di Isabella possiamo confermare come vi siano diversi elementi in comune che avvalorano pure la vicinanza cronologica delle due opere: l’intreccio delle canne di bambù, la conchiglietta con la perla, la figura di Minerva con l’asta, uno scudo con la Gorgone, la pelliccia maculata e la buccina. Un sapiente fil rouge di schietto sapore allegriano.
Alcune conclusioni che qui appaiono sono già presenti in Giuseppe Adani Correggio. Il genio, le opere, Cinisello Balsamo (Silvana) 2020, pp. 137-150. Per le analogie bibliche-mitologiche si veda di Renza Bolognesi Correggio. La Camera di San Paolo. Svelamenti inediti, Cinisello Balsamo (Silvana), 2018. Importanti le opere più vicine o specifiche su Isabella e sul suo Studiolo. Si veda di Stefano L’Occaso, Il Palazzo Ducale di Mantova, Milano, 2002.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Giuseppe Adani
Membro dell’Accademia Clementina, monografista del Correggio.