C’è stato un momento della storia dell’arte (all’incirca verso la metà del Seicento) a partire dal quale gli artisti hanno cominciato, con sempre più insistenza, a ritrarsi nel loro studio o nella loro abitazione. Per molto tempo, il genere dell’autoritratto nello studio rispose a necessità di prestigio (il pittore voleva dare dignità al suo studio) o di costruzione della propria immagine (dal momento che uno studio o una casa raccontano molto dell’artista). In altre epoche, la rappresentazione della casa o dello studio diventano semplicemente il racconto della propria quotidianità.
Oggi, durante le misure restrittive a causa della pandemia di Covid-19 da coronavirus, tutti gli artisti sono stati costretti, come tutti noi, a chiudersi in casa. Ma come avrebbero vissuto i grandi artisti del passato se l’ormai assillante hashtag #iorestoacasa fosse stato un imperativo di secoli fa? Ci siamo fatti un giro nelle case di quindici grandi artisti della storia dell’arte per vedere in quali condizioni avrebbero trascorso le misure di contenimento!
1. Rembrandt van Rijn, Il pittore nello studio
(1629 circa; olio su tavola, 25,1 x 31,9 cm; Boston, Museum of Fine Arts)
Non sappiamo se lo studio rappresentato da Rembrandt (Leida, 1606 - Amsterdam, 1669) in questo dipinto sia effettivamente quello dell’artista, ma data la sua propensione ad autoritrarsi (Rembrandt ci ha lasciato infatti numerose immagini di se stesso), è altamente probabile che lo sia. Non c’è neanche la certezza sull’identificazione del pittore raffigurato: per alcuni potrebbe essere Rembrandt, per altri il suo grande allievo Gerrit Dou. Colpisce l’estrema sobrietà di questo studio, spoglio di qualsiasi cosa che non siano gli strumenti del pittore: evidentemente l’artista non ammetteva alcuna distrazione, oppure desiderava una stanza sgombra per meglio studiare gli effetti di luci e ombre. Il dipinto sorprende anche per il taglio prospettico: per allargare il campo, l’artista ha scelto di mettere in primo piano il cavalletto e di posizionare se stesso sul fondo della stanza, così che lo strumento risulti gigantesco e lui molto più piccolo. Forse, si potrebbe dare una connotazione allegorica a questo elemento, leggendolo come un’allusione simbolica alla grandezza e alla fatica del lavoro dell’artista.
Rembrandt van Rijn, Il pittore nello studio (1629 circa; olio su tavola, 25,1 x 31,9 cm; Boston, Museum of Fine Arts) |
2. Jan Vermeer, Allegoria della pittura
(1666 circa; olio su tela, 120 x 100 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
L’opera è nota anche come L’Atelier perché, secondo alcune letture, il protagonista potrebbe essere lo stesso Jan Vermeer (Delft, 1632 - 1675) mentre dipinge una modella all’interno del suo studio: una casa elegante, con interno a scacchiera, tendaggi di pregio, velluti, un ricco lampadario, una carta geografica appesa alla parete. Proprio la carta geografica è il principale indizio: si tratta infatti della mappa delle cosiddette Diciassette Province (un grande stato che il tra il 1482 e il 1581 gli attuali Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, parte della Francia settentrionale e una porzione della Germania occidentale), e sappiamo che si trovava nella casa di Vermeer. La lettura del dipinto come allegoria della pittura è facilitata dalla presenza di oggetti come la tromba, simbolo della fama, il libro, simbolo della storia, e l’alloro, allusione alla poesia, tutte tematiche che hanno a che fare con la pittura. L’opera è, inoltre, uno dei principali saggi di abilità luministica da parte di Vermeer.
Jan Vermeer, Allegoria della pittura (1666 circa; olio su tela, 120 x 100 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum) |
3. Adriaen van Ostade, Lo studio del pittore
(1670-1675 circa; olio su tavola, 37 x 36 cm; Amsterdam, Rijksmuseum)
Come si può intuire fin qui, la rappresentazione dell’atelier dell’artista abbonda nell’Olanda del Seicento: i pittori olandesi erano infatti particolarmente inclini alle scene di genere, al contrario di quelli italiani, ed erano più portati di questi ultimi a riflettere sul mestiere dell’artista nella sua quotidianità (gli italiani, invece, erano più interessati agli aspetti teorici, filosofici, allegorici della professione, ragion per cui nell’Italia del Seicento sono frequenti i dipinti che hanno per soggetto le allegorie dell’arte e della pittura). Adriaen van Ostade (Haarlem, 1610 - 1685), uno dei più prolifici pittori di genere dell’Olanda del XVII secolo, porta quasi agli estremi queste conseguenze, raffigurando lo studio di un artista (che quasi sicuramente non è il suo: è molto più probabile si tratti di un interno d’invenzione) che lavora in un edificio fatiscente e cupo: le condizioni in cui molti artisti, tutt’altro che ricchi (i pittori facoltosi infatti erano la nettissima minoranza), lavoravano all’epoca. Nello studio compaiono anche due allievi, e un cane dorme sul pavimento. Attorno, nel disordine, strumenti del mestiere e oggetti di vita quotidiana dello studio buttati qua e là.
Adriaen van Ostade, Lo studio del pittore (1670-1675 circa; olio su tavola, 37 x 36 cm; Amsterdam, Rijksmuseum) |
4. Pietro Longhi, Lo studio del pittore
(1745 circa; olio su tela, 44 x 53 cm; Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano)
Il pittore veneziano Pietro Longhi (Pietro Falca; Venezia, 1701 - 1785) fu l’artista che forse più d’ogni altro seppe catturare la società della sua città nel Settecento, e la sua pittura si popola dunque di momenti di quotidianità nelle case della Venezia altolocata, di feste in maschera, di giornate al circo. O, come in questo caso, di momenti di lavoro nello studio del pittore. L’artista è qui ritratto di spalle mentre esegue il ritratto di una dama, accompagnata dal marito che indossa, oltre al tricorno (il copricapo tipico della Venezia settecentesca), anche una bauta, ovvero la tradizionale maschera veneziana, momentaneamente calata (nella Venezia antica, la maschera non si indossava soltanto a carnevale). Lo studio dell’artista è spoglio, ma non manca, appoggiato alla parete di fondo, un violoncello: la musica, nella Venezia del Settecento, era infatti un’attività di vitale importanza.
Pietro Longhi, Lo studio del pittore (1745 circa; olio su tela, 44 x 53 cm; Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano) |
5. Caspar David Friedrich, Vista dallo studio dell’artista, finestra di sinistra
(1805-1806; grafite e seppia su carta, 314 x 235 mm; Vienna, Belvedere)
Il grande pittore romantico Caspar David Friedrich (Greifswald, 1774 - Dresda, 1840) ci ha lasciato alcune immagini del suo studio, ma non solo: lui stesso fu ritratto dall’amico Georg Friedrich Kersting all’interno della sua stanza, con uno splendido affaccio sul fiume Elba, a Dresda. Una costante delle raffigurazioni della casa di Friedrich è infatti la grande finestra aperta sul paesaggio: quello della finestra è un topos caro al romanticismo, dal momento che furono gli stessi pittori romantici a inventare il genere della “veduta alla finestra”. Una sorta di via di mezzo tra la pittura di paesaggio e la veduta d’interno, o una combinazione d’ambedue le cose: era il mezzo più efficace per rappresentare il dissidio dell’animo romantico, incerto se rimanere ancorato alle proprie certezze o se partire alla scoperta dell’infinito che s’apre oltre la propria soglia. È in questo modo che possiamo leggere anche le vedute di Friedrich, immaginandolo mentre guarda sospirando fuori dalla finestra di casa.
Caspar David Friedrich, Vista dallo studio dell’artista, finestra di sinistra (1805-1806; grafite e seppia su carta, 314 × 235 mm; Vienna, Belvedere) |
6. Tommaso Minardi, Autoritratto in soffitta
(1813 circa; olio su tela, 37 x 33 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)
Anche se Tommaso Minardi (Faenza, 1787 - Roma, 1871) non è forse uno degli artisti più famosi della storia dell’arte italiana (benché sia uno dei più rilevanti della prima metà del XIX secolo: fu anche firmatario del Manifesto del Purismo), il suo celeberrimo Autoritratto è una delle immagini più famose dell’Ottocento italiano, dal momento che è uno dei primi dipinti del suo genere e risponde alla volontà degli artisti del tempo di offrire a un pubblico sempre più largo un certo tipo d’immagine: l’artista diviene dunque, in questo caso, una sorta di bohémien ante litteram che vive in un mondo angusto fatto di disordine, di studio, di libri, di lunghe e solitarie riflessioni (lo intuiamo dal teschior affigurato sul comodino). Forse non dobbiamo immaginarlo come uno studio realistico (chissà se davvero Minardi aveva tutti quei teschi in casa), ma di sicuro è un’immagine non lontana dal vero.
Tommaso Minardi, Autoritratto in soffitta (1813 circa; olio su tela, 37 x 33 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
7. Leon Cogniet, L’artista nel suo studio a Villa Medici a Roma
(1817; olio su tela, 44,5 x 37 cm; Cleveland, Cleveland Art Museum)
Un giovanissimo Léon Cogniet (Parigi, 1794 - 1880), pittore formatosi nell’alveo del neoclassicismo ma ben presto autore di una decisa svolta romantica (già evidente in questo quadro), nel 1817 vinse il Prix de Rome che gli garantì di trascorrere un periodo di studio di cinque anni a Roma, a Villa Medici (che peraltro è ancora sede dell’Accademia di Francia). La sua camera ha una finestra aperta sul paesaggio romano, ed è un elemento molto indicativo perché, in Italia, Cogniet fu colpito dai paesaggi e dalle rovine. “Quello che mi colpì più di tutto”, scrisse in una sua lettera poco dopo l’arrivo a Roma, “fu la bellezza della natura, ma non solo quella del posto in cui vivo: tutta la natura che ho attraversato dal confine francese in poi”. E come è cliché dell’artista romantico, anche nella camera di Cogniet abbondano libri, disordine, oggetti disparati: una chitarra, fogli per scrivere, quadretti, una cassapanca con dei teli gettati alla rinfusa, persino uno scudo con due spade. L’artista, invece, è appoggiato al suo altissimo letto.
Tommaso Minardi, Autoritratto in soffitta (1813 circa; olio su tela, 37 x 33 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
8. Frédéric Bazille ed Édouard Manet, L’atelier di Bazille
(1870; olio su tela, 98 x 128,5 cm; Parigi, Musée d’Orsay)
Frédéric Bazille (Montpellier, 1841 - Beaune-la-Rolande, 1870), promettentissimo artista, tra i primi impressionisti (sarebbe diventato uno dei più grandi, se non fosse morto a soli ventinove anni durante la guerra franco-prussiana: si era arruolato come volontario), dipinge qui la bottega parigina che condivise con Renoir negli ultimi due anni della sua vita. Il pittore è raffigurato al centro, con la tavolozza, è il più alto dei personaggi. Sappiamo che a dipingere la figura di Bazille fu Édouard Manet, che è invece il personaggio con il cappello vicino a Bazille. In questa bottega-atelier a due piani troviamo tutto quello che per Bazille significava arte: un qualcosa di totalizzante e coinvolgente, che andava oltre l’Accademia (alle pareti sono infatti appesi quadri di suoi amici rifiutati dai Salon ufficiali) ed era necessariamente condiviso.
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Frédéric Bazille ed Édouard Manet, L’atelier di Bazille (1870; olio su tela, 98 x 128,5 cm; Parigi, Musée d’Orsay) |
9. Vincent van Gogh, La camera di Vincent ad Arles
(1888; olio su tela, 72 x 90 cm; Amsterdam, Van Gogh Museum)
È forse la più celebre “casa d’artista” della storia dell’arte: la famosa camera di Vincent van Gogh (Zundert, 1853 - Auvers-sur-Oise, 1890) nella sua casa di Arles, in Provenza, dove l’artista si era trasferito nel 1888, alla ricerca della meravigliosa luce del sud. Il dipinto è noto in tre versioni (una conservata al Van Gogh Museum di Amsterdam, un’altra all’Art Institute di Chicago e una al Musée d’Orsay di Parigi: quella della capitale olandese è tuttavia l’unica dipinta ad Arles, le altre due risalgono al 1889 e furono eseguite a Saint-Rémy) ed è particolarmente amato perché racconta la tranquilla vita quotidiana dell’artista all’epoca: l’interno della cosiddetta “casa gialla” è particolarmente spoglio, non vediamo altro che un attaccapanni, un piccolo tavolo, un paio di sedie, uno specchio sporco, un asciugamano appeso direttamente alla parete e alcuni quadri che abbelliscono la stanza. Di questo dipinto (riprodotto da van Gogh anche in un paio di lettere) sono state fornite anche interpretazioni psicologiche, senza che s’arrivasse mai a una lettura certa: per van Gogh era “una sorta di vendetta per il riposo forzato al quale sono stato obbligato” (l’artista era infatti malato quando dipinse l’opera e non poteva uscire di casa). Il colore, dunque, per sua stessa ammissione avrebbe dovuto “suggerire riposo o sonno”. In queste parole si potrebbe celare la chiave per capire meglio questo famosissimo quadro.
Vincent van Gogh, La camera di Vincent ad Arles (1888; olio su tela, 72 x 90 cm; Amsterdam, Van Gogh Museum) |
10. Joaquín Sorolla, Lo studio del pittore
(1888; olio su tela, 50 x 76 cm; Madrid, Museo Sorolla)
Un giovanissimo Joaquín Sorolla (Valencia, 1863 - Cercedilla, 1923), appena venticinquenne, ci mostra qui il suo studio giovanile, tutto affastellato e disordinato: siamo attirati dal modello, un ragazzino nudo che giace sopra un divano, dal cane che dorme sul pavimento, oltre che dai tanti quadri gettati in maniera confusa in tutti gli angoli. La selezione delle opere ci offre indicazioni sui gusti di Sorolla al momento: ci sono riproduzioni del ritratto di papa Innocenzo X di Velázquez e di un bassorilievo greco di Fidia.
Joaquín Sorolla, Lo studio del pittore (1888; olio su tela, 50 x 76 cm; Madrid, Museo Sorolla) |
11. Claude Monet, Il giardino dell’artista a Giverny
(1900; olio su tela; 81,6 x 92,6 cm; Parigi, Musée d’Orsay)
Anche se gli inizi della carriera non furono facili per Claude Monet (Parigi, 1840 - Giverny, 1926), il padre dell’impressionisti-chi-erano-principali-artisti-impressionismo">impressionismo, ben presto il successo gli arrise e con i proventi della sua attività pittorica poté acquistare una casa a Giverny, in Normandia, fornita di un grande giardino dove poteta dedicarsi alla sua grande passione: quella del giardinaggio, appunto. Le celeberrime ninfee che abbondano nella sua produzione ultima sono proprio quelle che aveva piantato in una vasca fatta appositamente installare nel giardino. E parallelamente ai quadri delle ninfee, nell’ultima fase dell’attività di Monet abbondano le vedute del suo giardino: come questa, coloratissima per rendere l’impressione di una passeggiata in mezzo ai tanti fiori di cui il pittore amava circondarsi.
Claude Monet, Il giardino dell’artista a Giverny (1900; olio su tela; 81,6 x 92,6 cm; Parigi, Musée d’Orsay) |
12. André Derain, Autoritratto nello studio
(1903 circa; olio su tela; 42,2 x 34,6 cm; Canberra, National Gallery of Australia)
Opera giovanile eseguita all’età di ventitré anni, questo Autoritratto nello studio di André Derain (Yvelines, 1880 - Garches, 1954) è un dipinto che precede la fause fauve dell’artista, ma la direzione della sua arte è ormai chiara, con una pittura già indirizzata verso l’arte di Matisse. L’artista lo dipinse guardandosi allo specchio, in maniera rapida, con una tavolozza che alterna parti molto vivide e chiare ad aree più scure (l’artista stesso si dipinge in controluce). Derain e Matisse all’epoca si conoscevano già, anche se è difficile dire se questo dipinto sia stato eseguito sulla scorta dei risultati ottenuti da Matisse. Lo studio è particolarmente spoglio, e non vediamo altro che una finestra e un mobiletto con alcuni strumenti del mestiere.
André Derain, Autoritratto nello studio (1903 circa; olio su tela; 42,2 x 34,6 cm; Canberra, National Gallery of Australia) |
13. Umberto Boccioni, Autoritratto
(1908; olio su tela, 70 x 100 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Questo Autoritratto è uno dei dipinti più celebri di Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 - Verona, 1916): l’artista si raffigura, in pieno inverno, sul balcone del suo appartamento a Milano, in un edificio di nuova costruzione (vediamo sullo sfondo i cantieri della città che cresce) in periferia, in via Castel Morrone. Qui, Boccioni non è ancora passato alla poetica futurista, anche se possiamo intravederla in nuce nelle sferzanti pennellate del cappotto: l’artista è ancora vicino al divisionismo. L’opera non aveva pienamente soddisfatto l’artista, che in una nota del 13 maggio del 1908 così scriveva: “dal primo del mese mi trovo in casa di mamma, lontano da quell’antipaticissima padrona e mi trovo abbastanza bene. In quella casa ho finito l’autoritratto che mi lascia completamente indifferente”.
Umberto Boccioni, Autoritratto (1908; olio su tela, 70 x 100 cm; Milano, Pinacoteca di Brera) |
14. William Ratcliffe, La camera dell’artista a Letchworth
(1932 circa; olio su carta, 457 x 552 mm; Londra, Tate Gallery)
Tra i maggiori artisti inglesi del primo Novecento, William Ratcliffe (Clenchwarton, 1870 - Hampstead, 1955) dipinse attorno al 1932 questo interno della casa dell’amico Stanley Parker, dove soggiornò per qualche tempo. L’opera ci dà modo di entrare in una casa borghese dell’Inghilterra del tempo: l’abitazione si trovava a Letchworth, uan cittadina fondata nel 1903 in forma di città giardino. L’amenità dell’abitazione è suggerita anche dai coloratissimi interni.
William Ratcliffe, La camera dell’artista a Letchworth (1932 circa; olio su carta, 457 x 552 mm; Londra, Tate Gallery) |
15. Giorgio De Chirico, Autoritratto nello studio
(1934; olio su tela; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
La passione per l’antico di Giorgio De Chirico (Volos, 1888 - Roma, 1978) si evince da questo Autoritratto nello studio dal busto che il pittore raffigura poggiato a terra, vicino al cavalletto. È un dipinto quasi solenne, con l’artista che, sicurissimo di sé, si ritrae in posa mentre rivolge lo sguardo all’osservatore, in un interno spoglio ma ordinato, mentre ha appena cominciato a tracciare i contorni della figura sulla tela. Sono numerosissimi gli autoritratti di De Chirico: un modo per affermare la propria immagine.
Giorgio De Chirico, Autoritratto nello studio (1934; olio su tela; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) |