Prima di tutto dobbiamo parlare di Giorgio Vasari (1511-1574) e ricordare la sua duplice vocazione. Egli fu pittore autentico, parente del ben più anziano Signorelli, lavoratore a pieno ritmo, disegnatore rapido e instancabile, occhio fermo e matematico nell’architettura, ideatore di magnifiche scenografie urbane. A questa molteplice dedizione nel mondo delle forme associò, come seconda vocazione, una vastissima capacità di indagine sui fenomeni dell’arte, tanto da portarlo ad una analisi complessiva sui secoli a lui recenti e sui fenomeni a lui coevi, riversandovi una seria dote di raccoglitore storico ed una brillante facoltà di scrittore. Per dare ordine alla prospezione di tanta materia scelse il sistema delle “Vite” già sperimentato nell’antica Grecia e rinnovato, sempre in lingua ellenica, da Plutarco nel primo secolo dopo Cristo in ambiente pienamente romano. Evitò peraltro l’accoppiamento parallelo delle singole personalità e si prefisse una cronologia percorribile, pur con molti accostamenti, e con scelte geografiche che fossero di aiuto a comprendere le varie scuole stilistiche. Ecco che dalle sue ricerche, dagli incontri, dalle testimonianze di tramando e più prossime, dai suoi viaggi, dalle osservazioni dirette delle opere e da altre fonti nacquero le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori, stese come biografie ma contemperate da note storiche, osservazioni tecniche, valutazioni importanti, e persino da aneddoti infiorativi non sempre credibili. La prima edizione, detta “torrentiniana” uscì con straordinario successo nel 1550 e lo spinse ad ampliamenti preziosi sino all’edizione “giuntina” del 1568, che gli fece guadagnare enfaticamente anche il titolo di Poeta.
Questa premessa ci serve per sottolineare la conoscenza, da parte del Vasari, di un universo di autori che impressionò già ai suoi tempi, e che rimane come il primo imprescindibile specchio di una comparata storia dell’arte italiana. L’acume critico del Giorgio aretino è costituito da una selettività che ha un riversamento testuale di rilevante efficacia, tanto che le citazioni dirette che si colgono dalla sua prosa sono ancor oggi in gran parte splendide e determinanti. La seconda parte delle “Vite” si conclude proprio con la morte di Luca Signorelli che consegna idealmente “l’ultima perfezzione dell’arte a quelli che seguirono”. La terza parte è dunque dedicata a “quegli eccellenti maestri che poterono sollevarsi e condursi alla somma perfezzione”. Si apre in Lombardia con l’avvincente vita di Leonardo, e passa poi per affinità sensitiva a quella di Giorgione da Castefranco. Dopo di questa l’autore fa una confessione e avverte che non vuole uscire di Lombardia senza aver toccato “l’eccellente e bellissimo ingegno di Antonio da Correggio”: in effetti l’incontro del Vasari con l’Allegri si rivela come un sussulto, quasi una sincope da “stupendissima maraviglia” che frena l’abilissimo commentatore e lo ferma di fronte a un fenomeno assoluto, imprevedibile, laddove gli è ignota la causa di questo “grandissimo ritrovatore di qualsivoglia difficultà”. Vasari cerca di proporre al lettore un tentativo di confronto del Correggio con i “grandi” ma risolve improvvisamente il caso con una frase iperbolica: “Tengasi pur per certo che nessuno meglio di lui toccò i colori, né con maggior vaghezza o con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui, tanta era la morbidezza delle carni che egli faceva, e la grazia con che e’ finiva i suoi lavori”. Una dichiarazione di supremazia che lascia attoniti a tutt’oggi, e ben sappiamo chi erano i “grandi” del pieno rinascimento! Il pittore-scrittore toscano arpeggia poi tutta la incerta vita professionale dell’Antonio su frasi al di sopra del pentagramma (come si dice) affermando che raggiunse la perfezione nelle opere a fresco e a olio “con lode e onore infinito” (fig. 1). Gli riconosce il merito di avere per primo esercitato la “maniera moderna” in Lombardia. Si appunta poi in modo particolare - egli che era del mestiere - sui “capegli sì leggiadri di colore e con finita pulitezza sfilati e condotti che meglio di quegli non si può vedere” (fig. 2). Infine lascia la penna quasi sospesa in cielo e proclama: “ma perché fra gli uomini eccellenti dell’arte nostra è ammirata per cosa divina ogni cosa che si vede di suo, non mi distenderò più”.
Ora sappiamo che il Correggio ha ricevuto da pittori e studiosi nei secoli XVII e XVIII, fino al Piccio e a Courbet, considerazioni e incensi di commosso riconoscimento come maestro dello spazio, del colore, della venustà, del naturalismo fragrante, della poesia visiva e dei sentimenti. Taluni critici più attenti nel Novecento hanno contribuito alla sua valorizzazione crescente come Maestro delle cupole e delle Grazie: citiamo specialmente Roberto Longhi e Cecil Gould, eppoi il contributo di David Alan Brown (1973) che lo ha posto giustamente come l’assuntore del verbo di Leonardo e il continuatore altissimo del suo lascito. Dal canto suo David Ekserdjian nella celebre monografia (1997) ha incardinato l’opus correggesco con ordine e giustezza. Eugenio Riccòmini, Lucia Fornari Schianchi e Roberto Tassi ne hanno ampliato notevolmente la comprensione, come altri studiosi contemporanei. Ma il nuovo millennio, oltre a studi più avanzati di documenti ed opere, ha riservato una sorpresa di carattere estremamente moderno: spettacolare, a suo modo simpaticissima e piena di clangore. Il gran botto è venuto nientemeno che da Dario Fo, autore fecondissimo, travolgente uomo di teatro, sempre immaginifico e scotente, ma (non dimentichiamolo) formatosi all’Accademia di Belle Arti di Brera secondo la sua vocazione di pittore e disegnatore brillantissimo. Durante un carnevale a Fano egli scoprì, in un sito familiare, una tavoletta con un volto sublime, offuscato dal tempo ma incantevole per grazia e dolcezza (fig. 3); le anziane proprietarie dichiararono con semplicità che era un dono giunto dall’Inghilterra per un loro nonno, sempre assegnato al Correggio, e l’occhio frecciante del Dario nazionale lo confermò con entusiasmo; non solo, ma egli prese con sé il piccolo legno e lo portò personalmente all’amica Pinin Brambilla Barcilon, la prodigiosa restauratrice impegnata nella certosina illimitudine del restauro del Cenacolo di Leonardo.
Pinin fu a sua volta affascinata dalla mano dell’artista e dedicò al dipinto una cura amorevole di estrema sapienza (2004): così tutta la trepidezza del volto della Sant’Agata che riguarda sulla patèna del martirio le sue mammelle tagliate tornò ad effondere quella luce mistica che è il prodigio pittorico delle visioni del Correggio (fig. 4). Nel giornale di restauro la Brambilla Barcilon sottolinea la maestria specifica dell’artista dicendo che “il volto e la capigliatura della donna sono caratterizzati da una esecuzione estremamente minuziosa e raffinata” ricordando il procedimento attraverso “la sovrapposizione costante di sottili velature trasparenti” e come il volto in particolare “ne è uscito con la sua morbidezza”.
1. La Madonna della Scala. Un affresco salvato parzialmente per volontà del popolo tutto di Parma dalla demolizione della porta urbica sulla quale si trovava. Il Vasari la dichiara “stupenda cosa al vedere, che ha ricevuto da forestieri e viandanti lode e stupore infinito”. Come esecuzione siamo tra il 1523 e il 1524 dopo che il Correggio ha portato la famiglia in Parma e quando egli comincia a ritrarre un tipo di volto femminile più dolcemente arrotondato e luminoso. |
2. I capelli nelle figure del “Giorno” del Correggio, che il Vasari vide nella Chiesa di sant’Antonio a Parma. Il pittore toscano rimase incantato più volte davanti alla “sfilatura” finissima delle chiome armoniose dell’Allegri, dove “facilità e difficultà” si accompagnano mirabilmente, e per la cui esecuzione dichiara “di che gli debbono eternamente tutti i pittori”. |
La tavoletta con la testa e il busto della Sant’Agata, al momento nel quale Dario Fo la vide presso una famiglia di Fano (2004). Vi sono evidenti le traversie dei secoli trascorsi. D’altra parte la famiglia aveva conservato gelosamente la memoria del ritorno dall’Inghilterra a fine ottocento di questo piccolo dipinto, sin d’allora noto come opera del Correggio. Dario, artista egli stesso, ne fu entusiasta e ne procurò un restauro di altissima classe. |
4. Antonio Allegri detto il Correggio, Sant’Agata (1523-1524; olio su tavola 29 x 34; Museo di Correggio). Il risultato dell’accuratissimo intervento di Pinin Brambilla Barcilon ha ridonato, secondo le parole della taumaturgica restauratrice, la tenera morbidezza del volto e la meraviglia dei capelli: tutte qualità peculiari della “divina” mano allegriana. La Santa qui appare in una visione mistica, mentre osserva le due mammelle che le furono tagliate, protagoniste del suo martirio e simboli della sua gloria. |
5. Dario Fo, il Paradiso, col Correggio. Una pastiche dal libro di Dario Fo, pubblicato nel 2010, dove il premio Nobel canta da par suo la ballata celeste. |
6. Correggio, Madonna della cesta (olio su tavola, 33 x 25 cm; Londra, National Gallery). Questa tavola viene pubblicata da Dario Fo come esempio della stringente somiglianza di Maria con la Sant’Agata. Una analogia molto evidente. |
Dario Fo proclamò che per lui l’immagine era il volto di Jeronima (Girolama), la giovanissima e amata sposa di Antonio Allegri. Questa dichiarazione la espresse in un effervescente spettacolo televisivo e la pubblicò in un quasi incredibile libro che fece uscire poco dopo (Il Correggio che dipingeva appeso al cielo, 2010) (fig. 5) dove appaiono confronti appropriati (fig. 6) e dove, con sua mano, il fantasioso istrione volle vedere il bacio di Girolama e Antonio sotto le volte della cupola del Duomo di Parma (fig. 7). Infine il caleidoscopico Premio Nobel vide persino Jeronima nel paradiso della stessa cupola, glorificando così amore terrestre e amore celeste (fig. 8). Per restare aderenti allo sviluppo pittorico del genio emiliano dobbiamo vedere, attraverso esempi, quale tipo femminile egli abbia applicato ai suoi dipinti nella prima fase della carriera (figg. 9 e 10).
Ma è l’ultima parola della Pinin Brambilla (la morbidezza) che ci fa riprendere sorprendentemente quell’antico stupore del Vasari che egli stesso dichiara inesprimibile (fig. 11). Il pittore aretino nel 1550 a Roma aveva stretto amicizia con Girolamo da Carpi (ferrarese, 1501-1556), suo collega e talento di ottima caratura, che gli raccontò come in gioventù si era messo alla ricerca di un modello convincente ma non ritrovabile tra i professionisti noti di allora, sinché gli capitò di vedere a Bologna il Noli me tangere del Correggio. Tale vista lo sospinse ansiosamente a Modena per ammirare in casa del dottor Francesco Grillenzoni “amicissimo del Correggio” un dipinto straordinario, ossia il Matrimonio mistico di Santa Caterina (1524 circa) che oggi è al Louvre. Vale la pena di riportare il passaggio testuale del Vasari:“… avendo visto il Cristo in forma di ortolano che appare a Maria Maddalena, lavorato tanto bene e morbidamente, quanto più non si può credere, entrò di modo nel cuore a Girolamo quella maniera, che non bastandogli avere ritratto quel quadro, andò a Modana per vedere l’altre opere di mano del Correggio, là dove arrivato, oltre all’essere restato nel vederle tutto pieno di maraviglia, una fra l’altre lo fece rimanere stupefatto, e questa fu quel gran quadro, che è cosa divina, nel quale è una Nostra Donna che ha un Putto in collo, il quale sposa Santa Caterina, un San Bastiano, et altre figure con arie di teste tanto belle, che paiono fatte in paradiso; né è possibile vedere i più bei capegli, né le più belle mani o altro colorito più vago e naturale”. L’iperbole del Vasari (“fatte in paradiso”) rende la misura della incomparabile ammirazione del principe delle arti del disegno: un omaggio mai reso ad altri in tutte le sue pur attentissime “Vite”.È molto importante ricordare che l’identità dell’autore risale almeno a due secoli or sono. Il legame diretto del dipinto con il Correggio è storico, anche se il silenzioso ritorno dall’Inghilterra e il nascondimento presso una famiglia appartata l’ha sottratto per molto tempo alla grande critica. Dal 15 marzo al 2 settembre 2018 l’immagine della Sant’Agata è stata protagonista di una visitatissima mostra a Senigallia con relativo Catalogo (Silvana 2018), ricevendo fervide recensioni dai quotidiani nazionali e dalle maggiori riviste d’arte. A fianco di Eugenio Riccòmini, Carlo Bertelli, Pier Paolo Mendogni, anche l’attento Federico Giannini ha scritto (Art e Dossier, maggio 2018): “Si tratta di un’opera che determina il passaggio tra l’altissima iconicità della cultura toscana e la nuova immersione nella trepidezza corporale che il Correggio, come straordinario precursore, ricercava”. Dopo la replica della mostra a Correggio, con squisita sapienza femminile Ilaria Baratta così si è espressa: “La sant’Agata del Correggio è una ragazza dai lineamenti dolcissimi, pensierosa, densa d’umanità….è bellissima: d’una bellezza che trasuda amore, viva partecipazione, empatia col soggetto e con la modella, tanto che Dario Fo ha ipotizzato che potrebbe essere un ritratto della giovane moglie del pittore… ”. Altri critici, italiani e stranieri si sono apertamente associati a questi giudizi.
Perché dunque “la morbidezza”? Perché essa è il segreto, il fascino indicibile, la “firma” inimitabile del Correggio. Una firma che, anche sul piano tecnico, è introvabile e intrasportabile presso qualsiasi altro pittore. Essa suscita la storica ammirazione senza fine sugli incarnati allegriani; muove il palpito dei sentimenti quando si ci sofferma in contemplazione sui suoi nudi e i suoi bimbi dipinti nella piena maturità; quando ci si accosta agli aliti dei suoi sorrisi, e quando tutto invita a cogliere le vibrazioni del cuore delle sue fanciulle: siano esse sante amate da Dio, o mamme dolcissime, o mortali e ninfe accolte negli estasianti amplessi del mito. Dopo il Vasari il termine morbidezza torna più avanti nei secoli come stigma identificativo del Correggio ad opera dell’Algarotti e di Anton Raphael Mengs che usa il sinonimo di “tenerezza”, e si ritrova a chiusura secolare nella serena relazione scientifica di Pinin Brambilla Barcilon. Il risultato affascinante dei corpi e dei volti correggeschi, così invitanti al tatto di carezza, ha sorpreso altri restauratori e diagnostici che si sono appuntati sulle indagini delle preparazioni pittoriche, da sempre elementi distintivi dei grandi Maestri. Potremmo citare diverse risultanze pubblicate, ma ci basterà unificare qui vari riscontri: le preparazioni dell’Allegri sono specialissime e contengono in sospensione rare “avventurine”, rameiche o d’antimonio, o di miche luminose: ecco perché dai corpi stessi affiora e si effonde la luce. Il volto della sant’Agata ne è un esempio toccante.
7. Disegno di Dario Fo. L’escogitante e allegro istrione immagina così, di sua mano, un amorevole bacio di Antonio Allegri alla sua sposa Jeronima, prima di salire alle volte della Cattedrale di Parma per gli affreschi della cupola. |
8. Correggio, particolare dagli affreschi della cupola del Duomo di Parma. Dario Fo, esplorando la folla degli angeli che accompagnano l’Assunzione di Maria al cielo nel grandioso lavoro del Correggio vuole scorgere fra essi anche il volto di Jeronima. |
9. Correggio, Madonna col Bambino e San Giovannino (olio su tela, 64 x 50 cm; Chicago. The Art Institute). Vediamo qui la tipologia del volto femminile del Correggio come il pittore usa nella su prima fase, che comprende anche le pale della Madonna di San Francesco e della Madonna di Albinea. Si tratta di volti appena allungati dai fini lineamenti, con le labbra sottili, il naso affilato e le arcate sopracciliari aperte e nitide. |
10. Correggio, Madonna di San Francesco, pala d’altare (olio su tavola, 299 x 245,5 cm; Dresda, Gemäldegalerie) |
11. Correggio, Sant’Agata. Rivediamo la figura 4 per ricordare che il Correggio tra il 1513 e il 1514 si rivolge con viva vicinanza ad una nuova vivente modella dal viso giovanile e dal mento caratteristico, ritraendola con estrema attenzione e con l’uso di quelle sue preparazioni singolarissime e studiatissime, al fine di far affiorare la luce dagli incarnati stessi. Nello stesso tempo il pittore si applica a comunicare il pensiero dei suoi personaggi: anche questa è una conquista di estrema importanza. Qui la Santa svela che si è donata a Cristo attraverso il martirio; lo comunica con lo sguardo, e con la bocca che lascia percepire un sospiro di vita. |
12. Correggio, Madonna del latte (olio su Tavola, 68,5 x 56,8 cm; Budapest, Museo di Belle Arti). La giovinezza, còlta con tanto amore dalla modella-sposa, viene qui riversata dall’Antonio, novello padre, su una Mamma divina. Identici ne sono il volto ed il sorriso. |
La prima prova scientifica viene dall’opera stessa: si tratta di un ritratto dal vero. È un ritratto da persona vivente, prova ne sia la forza vitale e comunicativa ove soprattutto la forma del mento e il suo rapporto con le labbra non può essere una invenzione di maniera. La modella è evidente, ed è una modella fervorosamente applicata dal Correggio nelle sue opere a partire almeno dal 1524. Ella è inseparabile dalle due figure femminili dello Sposalizio mistico del Louvre (soprattutto dalla santa Caterina), dalla Madonna della cesta, dalla Madonna di Budapest (Fig. 12), dalla Santa Caterina di Hampton Court (Fig. 13), dalla Madonna dell’Adorazione degli Uffizi (Fig. 14). Ed è qui il momento di considerare di nuovo l’incanto del Vasari sulle “arie di teste fatte in paradiso” precisamente sul Matrimonio mistico di Santa Caterina con figura di san Sebastiano, ora costantemente esposto al Museo del Louvre (fig. 15). È il dipinto che ha fatto scattare l’estasi ideale dell’ammiratore, e per noi è la magnifica riprova dell’attaccamento del Correggio ad un volto che ha potuto incantarlo per innamoramento e per tenerezza.
È incontrovertibile che dal momento in cui il Correggio porta a Parma la sposa e il primo figlio (1523) la sua tipologia femminile diventi nel volto più dolce e fusa, ricordando spesso e fortemente la morfologia della Sant’Agata (Figg. 16 e 17): questo sino alla Madonna della scodella e sino all’incantevole profilo della ninfa Io, abbandonata al beatificante amplesso di Giove (Fig. 18). La figura di sant’Agata risulta pertanto essere il prototipo per la realizzazione delle molte altre figure femminili della maturità.
Abbiamo così compiuto una piccola scoperta: abbiamo trovato la modella contemplata del Correggio, il suo segreto d’amore, desiderato e vicino, e ne ammiriamo le bellissime “Sorelle”.
13. Correggio, Santa Caterina con libro (olio su tela, 64,5 x 52,2 cm; Hampton Court Palace). È evidente l’uso della medesima modella della Sant’Agata. Anche questo è un dipinto di soffice, accurata tenerezza. |
14. Correggio, Madonna in adorazione del Bambino (olio su tela, 82 x 68,5 cm; Firenze, Uffizi). Il profilo trepido della Sant’Agata riappare in questa straordinaria adorazione. |
15. Correggio, Matrimonio mistico di Santa Caterina con figura di San Sebastiano (olio su tavola, 105 x 102 cm; Parigi, Museo del Louvre). È il capolavoro che ha suscitato lo stupore del Vasari. Le due figure femminili nei loro volti appaiono come sorelle e riprendono il tipo femminile che ben conosciamo. Questa tavola che fu probabilmente un dono familiare del Correggio all’amico Francesco Grillenzoni, raccoglie tutta l’acclarata maestria dell’artista ma pure tutta l’intimità del suo animo. Il nucleo sostanziale del dipinto non risiede soltanto nell’intreccio delle mani ma particolarmente nell’intensità con la quale gli occhi si concentrano sull’avvenimento sponsale. Potremmo definire questa visione, alla quale partecipiamo così da vicino, come un’alta dolcitudine spirituale senza parole umane. |
16. Un confronto. Il volto della Sant’Agata e quello della Santa Caterina del Louvre. La simiglianza è toccabile. Il rilievo grafico dei due profili è perfettamente identico, sovrapponibile. Di grande importanza è il vedere come la Sant’Agata sia stata eseguita frescamente davanti alla modella, mentre la Santa Caterina è professionalmente più elaborata e finita. |
17. Un altro confronto, con il profilo della Madonna del Matrimonio del Louvre, in questo caso posto in controparte per evidenziarne il rapporto, esecutivo e affettuoso. |
18. Correggio, particolare dalla tela di Giove ed Io, conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Anche qui ritorna il volto accarezzato della sposa: è un trionfo dell’ideale femminile del fervido Antonio. Il lieto abbandono della ninfa che si offre al supremo e desiderato amplesso di Giove corona, nel silenzio del bosco, l’ideale amoroso del grande Correggio. |
Per affrontare un’opera del Correggio occorre soprattutto il sapersi immedesimare nell’animo dell’artista e averne compreso – con una lunga consonanza contemplativa e riflessiva – il carattere etico e spirituale: ossia quelle “ragioni del cuore” che l’accompagnarono ovunque e che gli consentirono meravigliose aperture pittoriche sempre impregnate da profonde verità interiori. Così si può inquadrare la sua stessa vita: con le scelte di rifuggire i grandi centri e le Corti, con il rifiuto di professionalizzare le proprie eccezionali qualità nella ritrattistica diretta, nei soggetti storici o illustrativi, nei temi puramente edonistici. E complessivamente occorre percepire quella ricca e profonda cultura teologica che ne impregnò costantemente il pensiero: una cultura di totale umanesimo cristiano, reso festoso dalla globale comprensione dell’affascinante bellezza del corpo umano: meraviglia inconsumabile dell’intera creazione. Senza il possesso di questa premessa sarebbe inutile parlare delle opere del Correggio, ciascuna delle quali – come dice il Vasari – è ritenuta opera divina.
Appare nel nitido spazio il volto luminoso della giovinetta catanese, dal nome nobile e prezioso, significante la purezza votata alla santità. La postura è classica, registrata su una dolce fermezza emanante la vita, dove il capo si inclina leggermente riguardante una fatale memoria di prova – il martirio - che ella regge con la sua mano destra entro una leggera pàtera baccellata con l’orlo a conchiglia, già indice di perfezione. Qui si scorgono a simbolo le sue due mammelle, che le furono tagliate durante i tormenti, ma quasi protette dal lungo rametto della palma, segno preciso di una scelta eroica a testimonianza di Cristo: segno dunque santo e glorificante.
Siamo di fronte ad un soggetto di autentico carattere mistico, a una “meditazione in cielo” su quanto la vergine ebbe a confessare per fede e a patire nella fase finale e determinante della sua vita terrena. Un tema raro, se vogliamo convenire, rispetto a molte immagini santoriali prodotte da pittori piccoli e grandi, fissate sulle figure ferme e sugli attributi circostanziali. Uno svolgimento del tema che soltanto un artista portatore di “una diversità che resta aperta sulla voragine del futuro”, come ha scritto RobertoTassi, poteva produrre; un artista che è sempre partito dallo spirito e non dall’iconografia, e in tutta la sua opera ha aperto per il futuro gli scotimenti più remoti degli animi. Questo nella terra che ospitò Leonardo, nella terra lombarda.
Dalle labbra appena dischiuse di Agata esce quell’anelito di dolcezza che è tipico del Correggio per la femminilità protesa: lo sarà per la Maddalena del compianto, per la Santa Flavia del martirio dei Quattro Santi, per la Venere del Louvre, e infine per l’amorosa ninfa Io. E’ un respiro che si coglie emanante, un sospiro di rimembranza e di vita che si trasforma in una felicità intima e sempiterna, e che ha la stessa leggerezza del palpitare dell’anima.
Ora è sommamente necessario concentrarsi in questo soggetto che non è un’opera minore e marginale del grande maestro, ma un documento decisivo per comprendere ciò che avveniva in lui come sorgente dell’ispirazione, ovvero come scaturiva in un preciso momento quel quod intimius, quod profundius che stava nel suo animo di fronte ad un componimento da esplicitare. Il Correggio in questo senso è davvero “profeta celestiale” per quel tutt’uno che fonde il livello di genialità con l’invenzione del linguaggio su ogni specifico tema. Si può dire che la Sant’Agata, eseguita con tanta spontaneità, sia la chiave di comprensione di se stesso che il Correggio ci offre, della sua implectio creativa verso la figura.
Di qui possiamo convenire con Ilaria Baratta quando scrive: “la Sant’Agata del Correggio è effettivamente bellissima, d’una bellezza che trasuda amore, viva partecipazione, empatia col soggetto e con la modella”. Ecco, una modella amata! Per Dario Fo non può essere che la giovane moglie del Correggio, Jeronima, sposata diciasettenne nell’autunno del 1520. Una realtà, appunto, che conosce spazi di intensità spirituale, ma che in verità è chiamata ad essere anticipazione e riverbero del mistero con il quale si svela, e nello stesso tempo indicibilmente si vela: ed è il mistero trascendente dell’amore stesso.
Ci riportiamo al carattere autentico del Correggio che il Vasari, pur a distanza, dovette cogliere come preminente - ossia “visse da bonissimo cristiano” - e pertanto ci riportiamo all’impregnatura benedettina che è innegabile nel nostro Antonio, per la quale sempre l’accompagna il senso del sacro e fa si’ che l’artista riporti spontaneamente la realtà stessa in una dimensione perfettamente simbolica. (symballein significa mettere le cose in relazione armoniosa). Così il volto di Jeronima riceve quella particolare visione semantica che ci fa cogliere con la percezione sensoriale la realtà invisibile che sta sopra alla più alta intelligenza. Il riguardare le sue mammelle, - vero stigma prezioso della femminilità qui colpita crudelmente - ci offre l’idea di un pensiero che sta attraversando la sua mente: la perdita di una parte di sé e il suo donarsi a Cristo. Siamo di fronte ad un capolavoro di spiritualità pittorica come pochi, tutto racchiuso in una sola immagine di volto verginale e di pensiero mistico.
San Basilio, il contemplatore d’oriente sul mistero ineffabile e inconsumabilmente denso della bellezza di Dio, dice che nella ammirazione del cielo il nostro capo deve essere circondato da una dolcissima notte serena. Pare che il Correggio ben conoscesse questo invito giacché circonda il capo di Sant’Agata di una tenera oscurità vibrante; in effetti, come abbiamo già richiamato, il luogo della meditazione della Vergine catanese è etereo, sovrasensibile, ove vige una luce che non è astrale ma ideale: una luce quasi sgorgante dalla santità stessa di Agata, dall’anima sua purissima.
Si tratta di una sensibilità tutta esclusiva del Correggio, che riesce a oltrepassare nella semplicità della forma la distinzione tra sacro e non-sacro, in grazia alla fisicità che è sede della vita: tale superamento, così raccomandato dalla visione monastica benedettina nella quale Antonio era immerso (era appena stato accolto spiritualmente nella famiglia religiosa) giustifica e apre per noi l’entusiasmo corporale di Dario Fo, sempre in tenzone con i problemi della fede. Ecco: l’amore di Dario per Jeronima, qui dipinta, permette a lui di far filtrare un erotismo ricco di giocondità, già còlto nella Camera di San Paolo, e che ritrova fragrante nei nudi della cupola di San Giovanni eppoi in quelli, osannanti e caprioleggianti, nel trionfo del Duomo. È la dimensione olistica, totale, della Sant’Agata, tra vissuto e preghiera, tra luce “qualità divina” e notturno mistico, che soltanto un artista eccelso poteva toccare.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Giuseppe Adani
Membro dell’Accademia Clementina, monografista del Correggio.