Quando Telemaco Signorini dipingeva e denunciava la fatica degli alzaioli dell'Arno


Nel 1864, il macchiaiolo Telemaco Signorini dipinse un quadro in cui denunciava le condizioni di lavoro degli alzaioli che trascinavano le barche sull'Arno tra Firenze e Limite.

Nel 1874, quando il grande macchiaiolo Telemaco Signorini (Firenze, 1835 - 1901) espose per la terza volta, a dieci anni esatti dalla realizzazione, la sua Alzaia, uno dei più celebri prodotti del suo pennello, l’accoglienza che ricevette non fu delle più benevole. In particolare, il suo dipinto fu stroncato da una recensione terribilmente negativa, pubblicata sulle colonne de La Stampa e firmata da Guglielmo Stella (Milano, 1828 - Venezia, 1894): del resto non poteva essere altrimenti, dacché Stella non vedeva di buon occhio la scuola dei macchiaioli, per diverse ragioni, tanto stilistiche (i macchiaioli erano visti un po’ come i corruttori della scuola realista), quanto contenutistiche (Signorini affrontava spesso temi di denuncia sociale, come nell’Alzaia, e si trattava d’un terreno particolarmente rischioso). Il pittore fiorentino aveva mostrato il dipinto per la prima volta l’anno stesso della sua realizzazione, nel 1864 all’Accademia di Belle Arti di Firenze, quindi lo aveva portato, nel 1873, all’Esposizione Universale di Vienna, dove fu peraltro premiato, e lo ripropose nel 1874, di nuovo a Firenze, alla mostra della Società Promotrice Fiorentina: l’artista riteneva infatti che i tempi fossero maturi per un più largo apprezzamento. Si sbagliava: l’eccezionale portata del dipinto, uno dei più moderni e innovativi di quella stagione, con tutta evidenza turbò l’animo di Guglielmo Stella. E la sua demolizione dell’Alzaia fu totale.

Le prime considerazioni riguardavano lo stile dell’opera di Signorini. “Il quadro da lui esposto”, scriveva Stella, “riassume meravigliosamente il suo sistema. Il soggetto talvolta nullo, spesso triste e desolante; la grazia delle linee, la simpatia dell’insieme, lo studio attento della forma e del disegno, cose di nessuna importanza; il colorito pochissimo curato; una sola cosa accurata; un solo pensiero dominante, la novità dell’impressione generale ed il valore delle diverse tonalità ottenuto, del resto nulla. E se al pubblico non piacciono tanto meglio: che cosa ne sanno quei poveri beceri? L’arte è tutta fatta per gli adepti che fecero il palato alle pitture grige ed indefinite che avrebbero avuto la pretesa di rappresentare il risorgimento moderno”. Quanto alla scena rappresentata e al suo valore simbolico, il pittore veneziano affermava che “essa produce una penosissima impressione e pel soggetto e pel modo di esprimerlo, ma dal lato filosofico aspira ad una certa elevatezza e vi giunge sotto un certo punto di vista, ma a nostro avviso l’arte si presta malissimo a certe dimostrazioni filosofico-umanitarie, l’arte ha per missione di rallegrare, ingentilire e produrre impressioni aggradevoli”. La reazione di Signorini, tuttavia, non si fece attendere, e l’artista replicò pubblicando un articolo sul giornale veneziano Il Rinnovamento. Con grande sarcasmo, fece intendere che Stella avrebbe dovuto apprezzare la sua opera, dal momento che l’artista veneto andava sostenendo che un buon pittore doveva rifarsi con sincerità alla natura: anche Signorini aveva guardato alla natura, e questa era peraltro l’unica caratteristica che lo accomunava a quel Gustave Courbet (Ornans, 1819 – La Tour-de-Peilz, 1877) cui Stella lo aveva accostato (Signorini scrisse che Stella non conosceva l’arte di Courbet, oppure, se la conosceva, non ci aveva capito niente).

Telemaco Signorini, L'Alzaia
Telemaco Signorini, L’Alzaia (1864; olio su tela, 54 x 173,2 cm; Collezione privata)

Occorre comunque evidenziare che esisteva un’altra analogia con l’arte di Gustave Courbet: il carattere di critica sociale che l’Alzaia necessariamente assumeva. Il dipinto è ambientato in Toscana, sulle rive dell’Arno, nei pressi del parco delle Cascine, alle porte di Firenze. A descrivere il soggetto è lo stesso Signorini, in una lettera inviata nel 1892 al presidente dell’Accademia di Belle Arti di Firenze (uno scritto peraltro utilissimo per ricostruire l’intera biografia dell’artista fino a quel momento): “nel 1864 feci un quadro dei miei più grandi con molte figure quasi al vero che tiravano una barca contro la corrente dell’Arno, L’Alzaia. Più tardi nel 1873, esposto alla Esposizione internazionale di Vienna, mi fruttò la medaglia”. Protagonisti del dipinto sono cinque personaggi dalla pelle abbronzata, vestiti di abiti logori, piegati dalla fatica: sono cinque alzaioli, ovvero addetti all’alzaia. Questo termine designava la fune necessaria per l’alaggio, l’uso di trascinare a spalla, dalla riva, le imbarcazioni che risalivano le acque di un fiume: succedeva in assenza di vento favorevole, oppure quando la nave non era dotata di remi. Sulle sponde del fiume esistevano appositi camminamenti che dovevano guidare gli addetti all’alzaia, gli “alatori” o, con termine toscano, gli “alzaioli”. Era un lavoro estremamente faticoso, al limite del disumano, dal momento che gli uomini chiamati a praticarlo quasi perdevano la loro dignità, diventando come animali da soma, stremati dagli sforzi compiuti. In questo dipinto, ha scritto la storica dell’arte Rossella Campana, Signorini “ha scelto come tema centrale il mondo del lavoro nella sua forma più arcaica, il risultato, per così dire, di una maledizione biblica, in un contesto, quello della Toscana prima dell’Unità d’Italia, che era ancora governata da leggi primordiali: quest’ultimo non era ancora stato modificato dal progresso e dalla meccanizzazione dell’era industriale”.

I commentatori hanno rilevato come Signorini sia stato profondamente influenzato dagli scritti di Pierre-Joseph Proudhon (Besançon, 1809 - Parigi, 1865): nelle sue opere, il filosofo francese aveva parlato di giustizia sociale, di uguaglianza, di emarginazione, di libertà. Scrivendo a Vincenzo Cabianca, nel 1868, l’artista avrebbe affermato: "Leggo Proudhon De la justice etc. mi piace moltissimo. Mi viene fatto spesso di riflettere al torto che ebbi di non leggerlo prima d’ora a me pare che se un uomo non aquista il senso della rettitudine dopo aver letto questo autore, vuol dire che in sé non vi è mai stato neppur il germe di galantuomo". L’opera cui l’artista fa riferimento è De la justice dans la révolution et dans l’église, ma sappiamo che già dal 1855 Signorini aveva cominciato a leggere Proudhon, e la sua volontà di proporre un’arte che fosse anche di denuncia era a sua volta un riflesso di tali letture: Proudhon aveva scritto anche un breve pamphlet intitolato Du principe de l’art et de sa destination sociale, pubblicato postumo nel 1865, nel quale l’autore si poneva il problema del ruolo sociale dell’arte, affermando che scopo dell’arte dovrebbe essere l’utilità (alla base del trattato vigeva l’idea di “riconciliare l’arte con il giusto e con l’utile”), e che per raggiungere tale obiettivo il contenuto dovesse prevalere sulla forma, dato che l’arte, secondo la sua stessa definizione, non è che una “rappresentazione idealista della natura e di noi stessi, in vista del perfezionamento fisico e morale della nostra specie”.

Per rendere ancor più forte la sua denuncia, Signorini ha inserito nel quadro un particolare decisamente forte: sullo sfondo vediamo, infatti, un borghese vestito di tutto punto, che passeggia tenendo per mano una bambina, in compagnia d’un cane che s’attarda e che rimane a metà tra i due e gli alzaioli. Le figure di questi due personaggi, che si stagliano sul paesaggio verdeggiante, col sole che illumina i primi edifici di Firenze, contribuiscono ad accentuare questo contrasto sintomo di un’evidente ingiustizia sociale: non sono minimamente colpiti da quanto sta accadendo alle loro spalle, anzi, si girano dall’altra parte indifferenti. La luce stessa è un ulteriore elemento di denuncia: è una luce tersa, che in accordo con la poetica macchiaiola crea forti contrasti tra luci e ombre, e che qui dà vita a effetti di controluce che gettano nell’oscurità i volti provati degli alzaioli: è un espediente fortemente simbolico, dacché con la luce che non ci aiuta a distinguere i loro volti è come se la loro personalità venga annullata, oppressa e distrutta da quel lavoro così faticoso. Da notare poi i gesti delle mani degli ultimi due: uno, stravolto dalla stanchezza, si asciuga il sudore ma sembra quasi poggiare il volto sul dorso sconsolato, mentre l’altro tenta di sfiorare la corda per aiutarsi. I cinque alzaioli di Signorini sono un monumento alla fatica. “Paiono fotografati dal vero”, si legge in una recensione del 1873.

Lo storico dell’arte Vincenzo Farinella ha evidenziato come Signorini possa essersi ispirato all’arte giapponese di Utagawa Hiroshige (Edo, 1797 – 1858) per realizzare la sua Alzaia, forte anche d’un soggiorno a Parigi avvenuto nel 1861 (la moda del giapponismo si era già diffusa nella capitale francese). “Un’immagine così sorprendente, così arrischiata dal punto di vista compositivo e cromatico”, ha scritto lo studioso, “si spiega solo presupponendo che tra le mani di Signorini fossero capitate delle stampe giapponesi”. E questo non soltanto per alcune soluzioni come i contrasti netti che ci fanno pensare alla bidimensionalità delle opere giapponesi, o per l’estrema sintesi, anch’essa condivisa con le stampe nipponiche. La somiglianza è più stretta. L’idea del punto di vista fortemente ribassato potrebbe derivare dalla conoscenza di una stampa di Hiroshige, nota come Takanawa Ushimachi (“Veduta di Ushimachi nella prefettura di Takanawa”), dove l’osservatore è immaginato talmente in basso che l’orizzonte, come nell’Alzaia, finisce molto vicino al bordo inferiore della composizione. Lo stesso vale per Haneda no watashi Benten no yashiro (“Traghetto di Haneda e santuario di Benten”) dove simili sono i dettagli sulla sponda del fiume, e financo il motivo della corda tesa sembra quasi avere una derivazione diretta. E ancora, altra fonte di Signorini potrebbe essere un dipinto di poco precedente, i Renaioli dell’Arno di Stanislao Pointeau (Firenze, 1833 - Pisa, 1907), altro macchiaiolo che ambientò la sua composizione in una campagna assolata colpita da una luce calda e violenta, tale da creare anche in questo caso marcati contrasti sul terreno dal paesaggio fluviale e sulle stesse acque dell’Arno.

Telemaco Signorini, L'Alzaia, Particolare degli alzaioli
Telemaco Signorini, L’Alzaia, Particolare degli alzaioli


Telemaco Signorini, L'Alzaia, Particolare dei borghesi
Telemaco Signorini, L’Alzaia, Particolare dei borghesi


A sinistra: Utagawa Hiroshige, Takanawa Ushimachi. A destra: Utagawa Hiroshige, Haneda no watashi Benten no yashiro
A sinistra: Utagawa Hiroshige, Takanawa Ushimachi (1857; stampa ukiyo-e a inchiostro e colori su carta, 34,1 x 22,5 cm; Boston, Museum of Fine Arts). A destra: Utagawa Hiroshige, Haneda no watashi Benten no yashiro (1857; stampa ukiyo-e a inchiostro e colori su carta, 36,8 x 25,2 cm; Boston, Museum of Fine Arts)


Stanislao Pointeau, Renaioli dell'Arno
Stanislao Pointeau, Renaioli dell’Arno (1861; olio su tela, 100 x 189 cm; Collezione privata)

Il dipinto di Telemaco Signorini è conservato in collezione privata (è passato in asta nel 2003 da Sotheby’s per quasi tre milioni di sterline), ma è possibile trovare una riproduzione fotografica presso il Museo della Cantieristica e del Canottaggio di Limite sull’Arno. Molti degli alzaioli (i “dannati del fiume”, come vengono descritti nei pannelli del museo) provenivano infatti da questo borgo sulle rive dell’arno, che sorge appena dopo Empoli e che in passato fu uno dei più importanti centri italiani della cantieristica: oggi i cantieri che sopravvivono sono pochi, e sono attivi principalmente nel settore della nautica da diporto, ma quando Telemaco Signorini dipingeva le sue opere, la produzione navale di Limite sull’Arno, in Toscana, era seconda solo a quella di Viareggio ed era più abbondante rispetto a quelle di Livorno e Porto Santo Stefano. La produzione era favorita dalla presenza di rigogliosi boschi che ricoprivano l’area del Montalbano, la zona di confine tra la valle dell’Arno e le colline di Pistoia. Si trattava di una fonte pressoché inesauribile di legname, particolarmente adatto per la carpenteria navale: intere famiglie di boscaioli affittavano porzioni di bosco e ne ricavavano il legname da costruzione che avrebbero poi immesso sul mercato per soddisfare le esigenze dei maestri d’ascia, ovvero gli operai, altamente specializzati, che erano in grado di lavorare il materiale in modo da renderlo idoneo per la costruzione d’imbarcazioni (i maestri d’ascia limitesi erano famosi in tutta Italia per la loro grande abilità). Nel periodo di massima intensità produttiva, dai cantieri limitesi uscivano anche brigantini la cui portata superava le duecento tonnellate.

Erano però i navicelli le imbarcazioni peculiari di Limite sull’Arno, nonché il tipo prodotto con maggior frequenza dai cantieri del luogo, tanto che ai lavoratori impiegati nella costruzione e nel trasporto dei navicelli è oggi dedicata una piazza a Limite, piazza dei Navicellai. Si trattava di barche adatte alla navigazione fluviale: un tempo l’Arno era navigabile e rappresentava il canale di trasporto privilegiato per materiali da costruzione e derrate alimentari, che seguendo il corso del fiume arrivavano facilmente e in tempi rapidi dalla costa fino a Firenze o viceversa (solo l’avvento delle ferrovie, a metà Ottocento, avrebbe segnato l’inizio del declino del trasporto su fiume). Il navicello, in particolare, veniva costruito fin da prima del diciassettesimo secolo. Aveva una portata variabile dalle trenta alle settanta tonnellate, era dotato di due alberi, il primo dei quali inclinato verso la prua, nonché di due vele principali: il lavoro degli alzaioli si rendeva spesso necessario per il loro trasporto, e in certe condizioni (ovvero quando era necessario che la barca risalisse il fiume controcorrente) diventava l’unico modo per trascinare i navicelli sulle acque dell’Arno. Tutte le fasi della costruzione, gli strumenti necessari, il materiale utilizzato, l’impegno di quanti lavoravano alla produzione e al trasporto delle imbarcazioni (maestri d’ascia, segantini, calafati, scafaioli, gli stessi alzaioli) sono parte integrante del percorso del Museo della Cantieristica di Limite sull’Arno. Un museo dove è possibile ascoltare queste storie di lavoro e fatica da chi ha sempre vissuto nei cantieri. Quella di Limite è una comunità che conosce il valore del sacrificio, fortemente radicata alle sue tradizioni e al suo territorio.

Una sala del Museo della Cantieristica e del Canottaggio di Limite sull'Arno
Una sala del Museo della Cantieristica e del Canottaggio di Limite sull’Arno. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Modellini di navicelli al Museo della Cantieristica e del Canottaggio di Limite sull'Arno
Modellini di navicelli al Museo della Cantieristica e del Canottaggio di Limite sull’Arno. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Disegno di un navicello
Disegno di un navicello


Limite sull'Arno
Limite sull’Arno. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Telemaco Signorini, Limite sull'Arno
Telemaco Signorini, Limite sull’Arno (1890 circa; olio su cartone, 40 x 50 cm; Viareggio, Istituto Matteucci)

E proprio il borgo di Limite diventò poi il soggetto d’un dipinto che lo stesso Telemaco Signorini eseguì attorno al 1890. Al centro, l’Arno che scorre tra le campagne e che riflette le nubi del cielo. A sinistra, le case di Limite sull’Arno che s’affacciano sugli argini e a loro volta si specchiano nell’acqua. Sulla sponda opposta, gli arbusti e gli alberi della vegetazione fluviale. Più indietro, le colline del Montalbano, quelle che fornivano il legname per le barche. Sembra un dipinto totalmente diverso rispetto all’Alzaia: qui viene meno ogni intento narrativo, e al contrario il borgo è fissato in una dimensione atemporale, placida e poetica, colta in un momento preciso, con quella pennellata vibrante ch’era tipica degli impressionisti. S'era infatti aperta, nella carriera di Telemaco Signorini, una nuova stagione: l'artista infatti aveva iniziato a staccarsi dalla "strong>macchia", per accogliere una pittura di respiro più internazionale, attenta alle novità ch’erano giunte dalla Francia.

L’opera avrebbe poi ottenuto un riconoscimento postumo: nel 1928, infatti, fu esposta alla Biennale di Venezia. Il ritratto di un borgo che sembra ancora oggi fuori dal mondo e fuori dal tempo entrava così nel più aggiornato dei contesti artistici, e diventava quasi una sorta di contraltare dell’Alzaia. L’Alzaia, inoltre, avrebbe offerto più d’uno spunto ad altri artisti: un altro pittore del tempo, Adolfo Tommasi (Livorno, 1851 - Firenze, 1933), dipinse gli alzaioli in un quadro di soggetto omologo, solo di formato più grande, e con diverso punto di vista, dal momento che il pittore s’era posto davanti ai lavoratori, così che nell’inquadratura figurasse anche l’imbarcazione trascinata a spalla. Anche questo dipinto è peraltro riprodotto in una fotografia presente al Museo della Cantieristica e del Canottaggio di Limite sull’Arno. Si trattava però di un’opera dal carattere meno innovativo: Tommasi sembrava quasi volerla emendare dalla forte carica di critica sociale che invece aveva contraddistinto il dipinto di Telemaco Signorini. Che rimane uno dei dipinti più politici dell’Italia dell’Ottocento. Guardandolo, sembra quasi di sentire il frinire delle cicale, lo stormire delle fronde al passaggio del vento, la terra smossa dal passaggio degli alzaioli, il rumore dell’acqua solcata dalla barca che stanno tirando, i gemiti sommessi della loro fatica.

Bibliografia di riferimento

  • Vincenzo Farinella e Francesco Morena (a cura di), Giapponismo. Suggestioni dall’Estremo Oriente dai Macchiaioli agli anni Trenta, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, 3 aprile - 1 luglio 2012), Sillabe, 2012
  • Giuliano Matteucci, Fernando Mazzocca, Carlo Sisi (a cura di), Telemaco Signorini e la pittura in Europa, catalogo della mostra (Padova, Palazzo Zabarella, dal 19 settembre 2009 al 31 gennaio 2010), Marsilio, 2009
  • Lorella Giudici, Lettere dei macchiaioli, Abscondita, 2008
  • Francesca Dini (a cura di), Da Courbet a Fattori. I Principi del vero, catalogo della mostra (Castiglioncello, Centro per l’arte Diego Martelli - Castello Pasquini, dal 16 luglio al 1° novembre 2005), Skira, 2005
  • Roberto Peruzzi (a cura di), La terra e il fiume. Arti e mestieri a Limite sull’Arno, catalogo della mostra (1987), Comune di Capraia e Limite, 1987
  • Mila Busoni (a cura di), Ciclo del legno e maestri d’ascia. Carpentieri e tradizione navale a Limite sull’Arno, catalogo della mostra (Limite sull’Arno, dal 3 al 30 settembre 1983 e Genova, Salone Nautico Internazionale, dal 15 al 24 ottobre 1983), Comune di Capraia e LImite, 1983
  • Pier Carlo Masini, Eresie dell’Ottocento: alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie, Editoriale Nuova, 1978


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





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