Maggio 1972. Quando László Tóth cercò di distruggere la Pietà di Michelangelo


La mattina del 21 maggio 1972, domenica di Pentecoste, il geologo ungherese László Tóth entrò nella Basilica di San Pietro e si avventò contro la Pietà di Michelangelo, colpendola ripetutamente e danneggiandola. Era convinto di essere il Cristo reincarnato.

21 maggio 1972, domenica di Pentecoste, ore 11:30 circa, Basilica di San Pietro. Un uomo dai capelli lunghi e dalla leggera barba bionda, vestito con un abito blu, una camicia rosso chiaro e un papillon, entra nel più grande tempio della cristianità. A un tratto scavalca la balaustra posta davanti alla Pietà di Michelangelo, estrae dalla giacca un martello da geologo, e comincia a colpire ripetutamente la Madonna e il Cristo più volte. Si scoprirà poi che il giovane è un geologo ungherese, László Tóth (Pilisvörösvár, 1938 – Strathfield, 2012): ha trentatré anni, la stessa età che aveva Cristo quando fu inchiodato alla croce. Nel 1965, all’età di venticinque anni, Tóth si era trasferito in Australia, dove però la sua laurea in geologia non gli era stata riconosciuta, e aveva pertanto trovato lavoro come operaio in una fabbrica di sapone. Non si sa molto altro sulla sua vita prima del gesto: sappiamo solo che nel 1967 era stato coinvolto in una rissa con alcuni suoi connazionali in Australia, e che era sparito per qualche tempo prima di ricomparire nuovamente in Europa.

Era il 1971: László Tóth si era spostato in Italia, e si era stabilito a Roma, con un aspetto fisico che intendeva richiamare quello di Cristo: lunghi capelli biondi, e la stessa barbetta ben curata che portava al momento dell’attacco alla Pietà. Al momento del suo arrivo a Roma non riusciva a biascicare una mezza parola d’italiano, ma non gli importava: avrebbe spiegato più tardi al suo avvocato che il suo obiettivo era quello di farsi riconoscere come il nuovo messia. Anche se chi lo ha conosciuto durante il suo periodo romano ha testimoniato di non aver riscontrato stranezze nel suo comportamento. Lo storico dell’arte Dario Gamboni, che in un libro sulla storia dell’iconoclastia (The Destruction of Art: Iconoclasm and Vandalism Since the French Revolution) ha ricostruito con dovizia di particolari la vicenda, racconta che Tóth aveva inviato alcune lettere a papa Paolo VI chiedendogli un incontro a Castelgandolfo. Che, naturalmente, non avrebbe mai avuto, dal momento che il pontefice non risponde alle sue lettere. E allora, per Tóth diventa inaccettabile l’idea per cui la Chiesa ammetta soltanto un Cristo morto.

László Tóth nel 1972
László Tóth nel 1972
László Tóth mentre sfregia la Pietà
László Tóth mentre sfregia la Pietà
László Tóth portato via dopo aver colpito la Pietà
László Tóth portato via dopo aver colpito la Pietà
L'articolo su l'Unità il 22 maggio 1972
L’articolo su l’Unità il 22 maggio 1972

Ed ecco allora la pianificazione del gesto, che occorre compiere nel giro di breve, perché il 1° luglio del 1972 Tóth festeggerà il suo trentaquattresimo compleanno, e la ricorrenza vanificherà il portato simbolico dell’azione. Mentre colpisce la Pietà, l’ungherese continua a ripetere in italiano “Cristo è risorto! Io sono Cristo!”. L’azione dura almeno un paio di minuti: un giovane vigile del fuoco, Marco Ottaggio, ventenne, riesce alla fine ad avere la meglio su Tóth (dieci giorni dopo verrà insignito da Paolo IV della croce di cavaliere dell’ordine pontificio di San Gregorio Magno per il suo gesto), aiutato da altri addetti alla sorveglianza che si trovano al momento nella basilica, e l’iconoclasta ungherese viene trascinato via da San Pietro, anche per evitargli l’ira della folla che, tra l’incredulità, la paura (con anche alcuni episodi di panico) e la rabbia, ha assistito al gesto. Tra coloro che ingaggiano una colluttazione con Tóth per impedirgli di fare ulteriori danni figura, secondo alcune testimonianze, anche lo scultore statunitense Bob Cassilly, che si trova lì al momento e che colpisce con forza Tóth per farlo desistere dal suo piano. Paolo VI viene informato dell’accaduto nel primo pomeriggio: il pontefice si domanda il perché di “questo gesto contro un patrimonio che appartiene a tutta l’umanità”, chiede di farsi accompagnare davanti all’opera mutilata, e si trattiene per almeno un quarto d’ora davanti alla Pietà, raccogliendosi in preghiera. Tóth è riuscito, con dodici martellate date in verticale, a troncare di netto la mano destra della Vergine, a staccarle il naso, e a lasciarle segni sul volto, sull’occhio e sul velo: si conteranno alla fine un centinaio di frammenti.

L’uomo si era accanito proprio sulla figura della Madonna: probabilmente in quanto vedeva in lei il simbolo della Chiesa. E durante gli interrogatori, Tóth continua a parlare di sé come se fosse Cristo. Va ripetendo di aver scelto in prima persona Michelangelo per scolpire la Pietà (“le sue mani erano guidate da me”, dice agli inquirenti, e anche sulla base di tale assunto, ritenendo cioè di esser stato l’ispiratore del capolavoro, afferma di poter disporre dell’opera suo piacimento). E appena arrestato pare abbia detto che il suo desiderio era quello di distruggere tutti i simulacri di Cristo, perché il Cristo reincarnato è lui. Nelle settimane successive, Tóth invia anche una lettera ai giornali, dove spiega a modo suo le ragioni del gesto: “Ora che tutti mi credono pazzo è venuto il mio tempo e dirò chi sono. Sono colui che conosce la verità, sono Cristo. Sono io quello che hanno pregato e cantato nelle chiese. Non dico io di essere Cristo, lo dice Dio, e questa e la sua parola: Figlio mio, Cristo, devi distruggere e costruire e insegnare perché io sono te. Che io sia Cristo non è un segreto, se nessuno lo ha saputo finora sappiatelo adesso. La statua della Pietà è opera divina, io l’ho fatta e io posso distruggerla. Ho compiuto la missione di Cristo sulla terra, poi ho scelto un giovane puro e gentile per fare una statua. Così sono io che ho creato questa statua bella, unica e divina. Il nome di Michelangelo Buonarroti è profetico perchè è quello di Michele Arcangelo, capo di tutti gli angeli; e Buonarroti significa è bene sia rotto; infatti ciò che ho compiuto è una punizione di Dio ed è da lui voluta”.

Sulla vicenda si esprime a caldo anche uno dei più grandi scultori del tempo, Giacomo Manzù, che viene raggiunto dal quotidiano L’Unità per un commento. “È la più grande disgrazia contro la civiltà e contro la cultura”, afferma il grande artista. “Non avrei mai pensato che la follia o la pazzia potessero deturpare, se non distruggere completamente, uno dei più significativi capolavori dell’uomo. Un restauro credo sia un’opera quasi impossibile, io sono disposto a tentare”. Alla fine però l’impresa di restaurare l’opera riuscirà: l’intervento si svolge direttamente in San Pietro, e le parti staccate da Tóth vengono reintegrate in maniera precisa grazie anche ai calchi della Pietà. Per i minuscoli frammenti che non è possibile riattaccare all’opera, si procede con risarcimenti a base di polvere di marmo di Carrara impastati con colla. Il restauro è diretto dallo storico dell’arte brasiliano Deoclecio Redig de Campos, che dal 1971 era direttore generale dei Musei Vaticani, ed eseguito da Vittorio Federici, Ulderico Grispigni, Giuseppe Morresi e Francesco Dati, i restauratori più esperti dei laboratori vaticani.

I danni subiti dalla Pietà di Michelangelo
I danni subiti dalla Pietà di Michelangelo
I danni sul braccio della Vergine
I danni sul braccio della Vergine
I danni sul volto della Vergine
I danni sul volto della Vergine
I danni sul volto della Vergine
I danni sul volto della Vergine
Michelangelo, Pietà (1497-1499; marmo di Carrara, 174 x 195 x 69 cm; Città del Vaticano, San Pietro)
Michelangelo, Pietà (1497-1499; marmo di Carrara, 174 x 195 x 69 cm; Città del Vaticano, San Pietro)

I lavori, seguiti con grande interesse anche da uno dei più grandi restauratori della storia, Cesare Brandi, allora direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, durano nove mesi e come anticipato vengono eseguiti direttamente nella cappella della Pietà in San Pietro: una paratia di legno protegge il cantiere di restauro dalla vista degli osservatori, oltre che da eventuali gesti di altri malintenzionati. In laboratorio si effettuano invece le prove sui collanti e le analisi sui materiali. Le prove terminano il 7 ottobre, data in cui comincia la fase operativa. L’occhio sinistro, pesantemente danneggiato (il martello di László Tóth non lo aveva solo scheggiato, ma aveva anche lasciato una traccia di vernice blu, di sostanza oleosa), viene ricostruito con l’aiuto di un calco al silicone, e la macchia viene asportata con l’aiuto di nastri adesivi, anziché venire grattata via, col rischio di lasciare ombreggiature evidenti. Vengono poi riattaccati i frammenti del naso, e per ultimo si sistema l’avambraccio, che viene messo di nuovo al suo posto con un perno di acciaio inossidabile. Si procede infine con una pulitura. Non tutte le lacune vengono risarcite: ne vengono lasciate irrisolte deliberatamente alcune dietro la nuca, a ricordo imperituro del gesto sconsiderato. L’opera viene infine restituita a tutto il mondo il 25 marzo 1973. Brandi riserverà parole di elogio per l’intervento: “Il genere di restauro che è stato [...] attuato, e se ne deve essere grati”, avrebbe scritto sul Corriere della Sera, “è un restauro prudente, rispettoso e removibile. Soprattutto apprezzo il fatto che anche le piccolissime aggiunte che sono state fatte alla palpebra offesa e ai lati del naso, che fu staccato di colpo, sono in un materiale sintetico facilmente asportabile, come del resto anche il mastice con cui è stata attaccata la punta del naso e le parti ricostituite di frammenti del velo”.

Alla fine, Tóth non subirà alcuna incriminazione: il 29 gennaio del 1973 viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, dal quale esce il 9 gennaio 1975, per venire poi accompagnato in Australia. Anche nel suo paese d’adozione non viene arrestato. Non sappiamo poi cosa sia successo a Tóth negli anni successivi: pare abbia trascorso gli ultimi anni della sua esistenza in una casa di riposo a Strathfield, dove si è spento l’11 settembre del 2012. La sua vicenda è stata comunque fonte d’ispirazione per scrittori e musicisti. L’attore, sceneggiatore e scrittore Don Novello, per qualche tempo, prese a scrivere alcune lettere a personaggi famosi utilizzando, come pseudonimo, il nome e il cognome dell’ungherese: le lettere sarebbero state poi raccolte in diversi volumi. Il fumettista Steve Ditko avrebbe pubblicato nel 1992 un libro intitolato Laszlo’s Hammer, un saggio sulla contrapposizione tra creazione e distruzione scritto sotto forma di fumetto. E fa riferimento a László Tóth anche l’album d’esordio del cantante e chitarrista Giorgio Canali, Che fine ha fatto Lazlotòz (1998), dove, nella canzone che dà nome al disco, Canali s’immagina un Dio nella sua routine quotidiana che si domanda, appunto, che fine abbia fatto László Tóth, il cui gesto viene in qualche modo paragonato all’iconoclastia della musica punk.

L’attacco di László Tóth alla Pietà, dopo aver fatto scaturire un intenso dibattito sulla protezione delle opere d’arte, ha prodotto un effetto visibile ancora oggi: da cinquant’anni, l’opera di Michelangelo è protetta da uno spesso cristallo antiproiettile, teso a impedire il replicarsi di un gesto simile a quello dell’ungherese che credeva di essere Cristo. Ma che non impedisce di meravigliarsi di fronte al capolavoro di Michelangelo.


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