A Berlino, il Mauermuseum, ovvero il Museo che documenta la storia del muro di Berlino, è attivo fin dal 1962. È conosciuto a livello internazionale anche come Checkpoint Charlie Museum, dal nome del celeberrimo posto di blocco che controllava i flussi tra Berlino Est e Berlino Ovest. E oggi è uno dei musei più visitati di Berlino, anche perché si trova proprio in una delle zone della città, quella su cui sorgeva il posto di blocco, che esercitano maggior fascino sui visitatori.
Il muro di Berlino, come sanno tutti quelli che lo hanno visto in foto o in video (o anche dal vivo, qualora si fossero recati nella capitale tedesca prima della sua caduta, avvenuta il 9 novembre 1989), era ricoperto di opere d’arte e graffiti. O meglio: solo la facciata della zona ovest era ricoperta. A Berlino Est, le guardie non permettevano di avvicinarsi al muro così tanto da poterci dipingere sopra. E anche oggi, i brani di muro che si sono conservati, sono ancora coperti di dipinti, molti dei quali peraltro recentemente restaurati onde preservarli dalle intemperie.
Nel 1986 accadde che il Mauermuseum decise di rivolgersi a uno dei più grandi artisti e writer del momento per realizzare un graffito su una porzione di muro lunga circa 300 metri. L’artista era il grande Keith Haring (1958 - 1990), che accettò di buon grado la proposta e si recò a Berlino proprio in quell’anno, il 1986. Keith Haring, all’epoca, era già un artista famoso, e il suo arrivo a Berlino fu anche un po’ un evento mediatico: i lavori furono quindi ampiamente documentati. E i lavori durarono appena un giorno. Gli assistenti dell’artista ricoprirono la porzione di muro da dipingere con una tinta gialla, e il giorno dopo Keith Haring completò l’opera, impiegandoci appena sei ore.
L’artista era consapevole di ciò che rappresentava quel muro: un ostacolo alla libertà. Il muro di Berlino, come sappiamo, impediva la libera circolazione tra Berlino Est e Berlino Ovest: ai cittadini dell’est era infatti proibito varcare il confine. Quelli dell’ovest invece potevano superare il confine a fronte del pagamento di un visto e di limitazioni agli orari di visita. E quindi, l’intento di Keith Haring non poteva che essere uno: distruggere il muro dipigendolo, come ebbe a dichiarare.
La sua opera rappresentò anche una sfida di carattere pratico. Perché per lavorare nel migliore dei modi, Keith Haring dovette anche oltrepassare il confine. Le guardie della Berlino Ovest, mentre lavorava, tramite megafoni lo avvisavano dei rischi che correva se avesse provato a scavalcare il confine: avrebbe potuto essere arrestato. Le guardie dell’est, dal canto loro, vollero verificare che il dipinto di Keith Haring non oltraggiasse la DDR: solo quando capirono il messaggio dell’opera, l’artista fu libero di continuare senza impedimenti il suo lavoro.
Il grande murale di Keith Haring infatti aveva l’obiettivo di veicolare un messaggio di unione e concordia tra i popoli della Germania Est e della Germania Ovest. Sulla grande base gialla, Keith Haring dipinse una lunga catena di figure umane congiunte attraverso l’unione delle mani e dei piedi. Queste figure furono realizzate con il rosso e il nero, così che il murale, una volta finito, non aveva che tre colori, quelli della bandiera tedesca: giallo, rosso e nero. E le figure sono quelle tondeggianti e sinuose, costituite solo da una linea chiusa, tipiche dello stile di Keith Haring. Così come tipiche sono le piccole linee che evidenziano i movimenti, i gesti, le espressioni dei personaggi. Un messaggio, dunque, privo di qualsiasi tipo di provocazione: solo l’auspicio di poter vedere un giorno i due popoli riuniti. Tanto che il messaggio non era rivolto a nessuna delle due zone di Berlino in particolare, secondo gli intenti di Keith Haring: il messaggio doveva essere universale. E per vedere i due popoli riuniti, l’artista e il mondo intero dovettero aspettare solamente tre anni. Quasi esatti, perché il dipinto di Keith Haring è datato 23 ottobre 1986.
Si trattò, tuttavia, di un’opera che fece discutere. Alcuni commentatori vollero per forza vederci messaggi politici, che furono però smentiti dall’artista, per i motivi che abbiamo detto sopra: si tratta di un messaggio universale. Ma la maggior parte di coloro che ebbero la fortuna di vedere il dipinto, lo apprezzarono e lo elogiarono. Ebbero la fortuna di vederlo, perché il giorno successivo alla sua realizzazione, ci fu qualcuno che coprì ampi brani dell’opera con strati di vernice grigia: probabile segno di protesta e di disprezzo verso un artista che, lo ricordiamo, era statunitense. E anche se la Guerra Fredda si avviava ormai verso la sua conclusione e le distensioni tra i due blocchi erano già iniziate da alcuni anni, la diffidenza era ancora un sentimento diffuso.
Il murale di Haring, che era quindi riuscito a convincere anche le autorità della DDR, non riuscì a sopravvivere ai graffiti dei writer che la coprirono. Perché anche i brani che si salvarono dall’azione condotta il giorno dopo la fine dei lavori, furono coperti nei mesi successivi, e alla caduta del muro il dipinto di Keith Haring era diventato pressoché illeggibile. L’artista, tuttavia, era consapevole della fine che avrebbe fatto il suo dipinto. Era lui stesso a dire che la sua arte era pensata per essere temporanea e non permanente. Anche lui, del resto, si era trovato più volte a coprire opere di altri artisti. È il destino del graffitismo. Rimangono però le immagini a documentare l’importanza di un messaggio che, al contrario dell’opera, durerà in eterno.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo