Mentre il suono del mortaretto dilaga per la conchiglia di Piazza del Campo, i cavalli, con in groppa i rispettivi fantini, compaiono sotto la Torre del Mangia e si manifestano ai contradaioli assiepati. Tutti, fazzoletti al collo, incitano la propria contrada, augurando i peggiori dispiaceri alla rivale. Il rito vuole che l’ordine di disposizione all’interno dei canapi, ovvero le due corde che delimitano la zona di partenza, la mossa, venga consegnato da un vigile, in una busta, nelle mani del mossiere, che chiamerà quindi i contendenti a disporsi a dovere, sotto le grida della folla, la quale è perfettamente consapevole di quanto una buona posizione possa influire sulla gara. La gara: tre giri di campo, poco più di un minuto, che determinano il cavallo vincitore. Non serve che il fantino arrivi in sella, è l’animale che conta. Chi trionfa vince il palio, che letteralmente è un pezzo di stoffa dipinto ogni anno da un artista diverso. È questo oggetto, di fatto, l’unico premio materiale della corsa. I membri della contrada vincente, non appena viene proclamata tale, si dirigono sotto il palco dove è esposto e, tra lacrime e abbracci, lo reclamano a gran voce. Lo custodiranno insieme agli altri, come espressione estetica di una giornata effimera ed eterna come il Palio, che vive per sempre ma si esaurisce in un giorno.
Un’eternità-immobilità che vincola anche i drappelloni, o “cenci” come sono chiamati a Siena, a un contenuto iconografico pressoché immutato nel tempo e che segue i principali simboli della città e dell’evento: la Madonna, Piazza del Campo, la Torre del Mangia, i contradaioli, le bandiere, i fazzoletti, i cavalli, i fantini. Tutti gli artisti, invitati due volte all’anno, per il Palio di Provenzano del 2 luglio e per il Palio dell’Assunta del 16 agosto, sono chiamati a interpretare (quasi) gli stessi elementi da secoli, come fosse un genere artistico particolarmente sottile. Allo stesso modo delle nature morte, dei paesaggi, dei ritratti, il cencio paliesco stimola l’artista a esprimersi appieno per differenziarsi, a imprimere un lampo personale su un soggetto prestabilito. Non conta cosa, conta come. Il risultato sono un compendio di firme e caratteri tipici dei tanti autori importanti che negli anni ci hanno lavorato, alcuni artisti chiave che oggi riconosciamo centrali nella storia dell’arte italiana (e non solo) del secondo Novecento. Vedere le loro opere in un contesto così distante dall’immaginario museale dove le si è conosciute è l’ennesima contraddizione insita nel Palio, manifestazione sorda a quasi tutte le innovazioni contemporanee, salvo proprio quelle in campo artistico, le stesse che la contemporaneità invece fatica a interpretare come proprie. D’altra parte, nella secolare storia dei drappelloni, l’indipendenza artistica non è sempre esistita, ma è stata invece frutto di una lunga ma precisa evoluzione.
Il primo documento relativo alla realizzazione di un pallium risale al 1306. Al suo interno si parla principalmente di valori economici, 25 lire in particolare, necessari per confezionare i tessuti. Il piglio da note spese è evidente anche da un documento del 1310, per esempio, dove sono elencati i costi per la realizzazione di un drappo in sciaminito, una lana pesante, e foderato in vaio. A questi, nel 1316, iniziano ad essere applicati degli stemmi, ma è la ricerca del tessuto prezioso, e del valore economico connesso, a interessare gli organizzatori del Palio fino a metà del Seicento. Il pallium era dunque una sorta di stendardo di stoffa pregiata, di formato simile a quello di oggi, lungo e stretto, ma il suo valore materiale superava di gran lunga quello simbolico. Tanto che, ritenuto un premio fungibile, veniva talvolta venduto dal vincitore per confezionare abiti o paramenti sacri per le chiese.
È con il crescere dell’importanza delle contrade e dunque del valore dell’evento, insieme all’importanza che i committenti e finanziatori assumevano nell’organizzazione, che divenne sempre più frequente l’inserto di stemmi e simboli, oltre che delle iconografie inerenti alla Madonna, di Provenzano e dell’Assunta. Ma, soprattutto, da tessuto il palio si fa gradualmente dipinto. Così facendo non cambia solo la sua fattura, ma anche il suo valore: diventa sempre più un oggetto unico, custode del ricordo di una precisa edizione, di un’indimenticabile vittoria. Anche se, in realtà, dal 1718, anno a cui risale il primo drappellone conservato, fino ad Ottocento inoltrato, i lavori rimangono perlopiù uno assimilabile all’altro, con le iconografie standardizzate delle rispettive Madonne, accompagnate dai vessilli dei committenti. Solo nel primo Ottocento l’opera assume caratteri più prettamente storici, con i vari stemmi nobiliari, da quello di Napoleone a quello dei Lorena, che scandiscono le dominazioni passate da Siena. Nel 1833 le contrade fanno la loro comparsa sul drappellone: è la manifestazione visiva del loro riconoscimento sociale, che si consacra nel 1841 con la raffigurazione sintetizzata dei loro emblemi, perlopiù animali, non in chiave naturalistica ma intesi come vere figure araldiche. A realizzare i drappi sono perlopiù artigiani, decoratori, che assumono l’incarico e ripetono lo spartito pedissequamente anche per cinque o dieci anni consecutivi.
Lo status di opera d’arte del drappellone si consolida nel 1894, quando per la prima volta la sua la fattura viene affidata al più noto pittore del tempo: Arturo Viligiardi. Pur mantenendo inalterati i suoi aspetti simbolici e rappresentativi, il drappo inizia a smettere la sua veste eminentemente decorativa per indossare quella artistica. Da qui in poi il cencio sarà pienamente concepito come una pittura, e dunque affidato a un pittore. Nel 1910 lo spostamento definitivo con la nascita di un regolare concorso per affidare l’incarico. Un cambiamento che non implica solo la professionalizzazione della commissione, ma anche la legittimazione per l’artista ad applicare la sua visione al tema. La fattura del drappellone assume la natura che le riconosciamo oggi: un confronto dialettico tra poetica personale dell’artista, le regole pittoriche e l’araldica ufficiale. Osservarli idealmente, uno dopo l’altro, compone un’ideale galleria artistica che ha valore di sineddoche, una parte che racconta il tutto di ciò che in campo artistico è avvenuto in Italia negli ultimi cento-vent’anni, apprezzando le evoluzioni in termini di tecniche, stili e gusto.
Il primo che forse si avvicina alla nostra sensibilità moderna è quello di Renato Guttuso, dell’agosto 1971. Il pittore raffigura l’evento evidenziandone la natura paradossale, all’interno della quale sacro e profano sconfinano dai rispettivi territori. All’apice la trascendente religiosità della Madonna, in basso la drammatica istintività del cavallo. Nel mezzo la folla entusiasta, che sullo strano incontro di questi due poli poggia la propria festa. Le linee continue e sintetiche di Valerio Adami, nell’agosto del 1981, hanno composto un drappo ironico, quasi scanzonato nel giocare con l’iconografia. L’Assunta, ritratta in alto con stile espressionista, fa una linguaccia pop all’osservatore, sceglie la beffa come simbolo di una giornata in cui vale (quasi) tutto. Serietà e acume pittorico tornano nella fascia bassa dell’opera, dove l’artista descrive gli emblemi delle contrade con trovate grafiche particolarmente efficaci. Il contrasto tra sfondo nero e ampie campiture di cromie accese rendono questo palio uno dei più riusciti di sempre.
Potente, monumentale, il drappellone di Salvatore Fiume, dipinto per un palio straordinario del settembre 1986. Il cavallo si staglia drammaticamente per l’intero drappo, dominando un cielo azzurrissimo e offrendosi frontalmente all’esterno. A montarlo una figura anziana, che regge il Palazzo Pubblico di Siena alludendo al Buon Governo civico del Lorenzetti. La bicromia dell’animale e le forme quasi da “nuova figurazione” conferiscono al lavoro un’imperiosità unica. Il 16 agosto del 1992, di nuovo per l’Assunta, tocca a Mimmo Paladino confrontarsi con il soggetto. Sceglie la via della sintesi, comprimendo in un terzo dello spazio cavallo, Madonna e città. Sotto, da una testa d’uomo, forse una maschera, si dirama un albero alle cui estremità fiorisce lo stemma delle contrade in corsa. A impreziosirlo è la tecnica di realizzazione, con alcune parti intarsiate e ricamate come negli stendardi popolari di un tempo.
Trascinante il vento lisergico che Sandro Chia, esponente della Transavanguardia, soffia sul drappellone dell’agosto 1994. La Madonna, gigantesca ma leggerissima, sembra poggiare le punte dei piedi sulla Torre del Mangia, mentre domina una Piazza del Campo tenebrosa e tempestosa, che avviluppa nell’angoscia del risultato i contradaioli festanti. Solo il cavallo si erge come speranza a cui fare riferimento. Nel luglio 1997 Emilio Tadini sembra far convergere i risvolti crudeli del Palio, demoniaci nell’assecondare le bizze del destino, in una sorta di genio dispettoso e imprevedibile, che si aggira per il cielo rosso di Siena pronto a prendersi gioco delle bandiere dei rioni che sotto di lui sventolano. Surrealista e metamorfico, pregno delle classiche evoluzioni circensi di Luigi Ontani, il drappo del luglio 2002. Più fiabesca e intuitiva l’opera che appena un mese dopo Fernando Botero presenta ai senesi. La Madonna assume le rotonde forme dell’artista colombiano, così come i cavalli e l’atmosfera tutta, gonfia di volumi e presagi. A proposito: inevitabile la tentazione di leggere nei drappelloni vari indizi cabalistici sull’esito della gara. Si è speculato, in tal senso, sul drappo di Igor Mitoraj (agosto 2004), che presenta una serie di figure bendate, stremate, e solo una resistere, in piedi, incoronata. Di quale delle contrade, rappresentate poco sotto, si tratta? Se si parla di corone, il re della Piazza, il fantino di riferimento del tempo, era Enrico Bruschelli detto Trecciolino, che infatti vinse anche quel Palio 2004 per la Tartuca.
Due anni dopo, nel 2006, Tino Stefanoni opera una scelta inconsueta: non la folla, non la follia, ma l’attesa apparentemente calma della notte prima della corsa, con la Torre del Mangia a profilarsi nel cielo scuro, rischiarato dalla luce potente della Madonna. È lo spazio in cui ognuno, in cuor suo, prefigura gli svolgimenti più imprevedibili per la carriera del giorno successivo. Trascina nel turbine della corsa, invece, l’obliquo drappo di Mario Ceroli (agosto 2008), che grazie alla struttura ruotata della scena muove a vertigine chi lo osserva. Audace il minimalismo quasi religioso di Francesco Carone, che nell’agosto 2011 accenna appena la silhouette della Madonna, che di manto bianco si unisce a un immateriale candido sfondo, stressando l’aspetto più spirituale della festa senese. Particolarmente apprezzato, in tempo recenti, il drappo consegnato da Milo Manara nell’agosto 2019. Una Madonna senza velo e dalla bellezza contemporanea e felina si erge portatrice della duplice anima paliesca, sacra e profana. Il suo fascino è quasi un incantesimo, ammansisce il cavallo e muove come in una danza di stelle i simboli delle contrade. Paradosso che torna anche nell’opera protagonista della carriera di luglio 2024. Giovanni Gasparro ha qui rappresentato la Madonna avvolta in un lungo velo da cui spunta, sulla parte inferiore sinistra il volto, profano, di un paggio. Proprio su questa figura, retrospettivamente, si è molto tornati. L’uomo sembra infatti scostare il manto e guardare il cielo, nello stesso modo intimorito con cui i senesi hanno visto il meteo incrinarsi proprio sul più bello, per due giorni consecutivi (2-3 luglio), costringendo a un doppio rinvio la gara (che si è corsa il 4). Il drappellone realizzato da Riccardo Guasco per il palio di agosto 2024 sembra privo di suggestioni premonitrici. Evidente però l’entusiasmo e la gioia favolistica che traspaiono dal volto infantile dell’Assunta, dai barberi (le caratteristiche sfere con i colori delle Contrade, con cui i bambini di Siena giocano in strada) che rotolano nella parte inferiore dell’opera e le cui forme si riflettono negli astri che sorvolano una Siena notturna e fiabesca. Di nuovo il celeste e il terreno che si corrispondono influenze, il divino che si frantuma in tagli cubisti e scende su Piazza del Campo per un altro minuto e mezzo di estasi frenetica. Che come l’aurora abbaglia, che solo la notte consola.