A Roma, all’interno della Basilica di San Pietro in Vincoli, a cui conduce da via Cavour la suggestiva salita dei Borgia, è custodita una delle più note creazioni scultoree di Michelangelo Buonarroti: il Mosè.
L’artista iniziò a lavorare alla statua durante il secondo decennio del Cinquecento per collocarla nel complesso monumentale che doveva ospitare la sepoltura di papa Giulio II, morto nel 1513.
Tuttavia l’intero progetto iniziale per quello che avrebbe dovuto essere un imponente mausoleo ispirato ai grandi edifici sepolcrali romani, ornato da più di quaranta statue, subì continue revisioni nei quattro decenni che Michelangelo impiegò per concludere i lavori, revisioni che sostanzialmente si tradussero nella progressiva riduzione delle dimensioni del monumento.
La vicenda, che Ascanio Condivi nella sua biografia dell’artista definì con le celebri parole “la tragedia della sepoltura”, ebbe inizio nel 1505, quando Michelangelo fu convocato a Roma dal pontefice della Rovere con cui stipulò un accordo per la realizzazione della suddetta tomba. Ma la situazione mutò in fretta. I due entrarono in conflitto e quando si riappacificarono al Buonarroti fu chiesto di tralasciare la sepoltura per dedicarsi alla decorazione pittorica del soffitto della Cappella Sistina. A ridosso della conclusione di tale immane impresa Giulio II morì, cosicché le trattative furono portate avanti da Michelangelo con gli eredi del defunto papa, non senza frequenti e sonori litigi. Il contratto così come era stato stipulato con Giulio II, infatti, non venne mai rispettato e fu sostituito da numerosi altri accordi che videro, di volta in volta, allungarsi i tempi e diminuire la portata del sepolcro e il numero delle statue che dovevano ornarlo.
Anche la collocazione del monumento, con il trascorrere degli anni, cambiò: stando a quanto progettato nella prima fase, infatti, avrebbe dovuto essere posto nel coro della Basilica Vaticana, e solo successivamente, nel 1532, si decise che la sua ubicazione definitiva sarebbe stata in San Pietro in Vincoli, basilica che di Giuliano Della Rovere (futuro Giulio II) era stata titolo cardinalizio.
Il Mosè è visibile oggi nella nicchia centrale dell’ordine inferiore del mausoleo, dove venne posta alla metà degli anni Quaranta del Cinquecento, affiancata dalle statue Rachele e Lia, personificazioni rispettivamente della Vita Contemplativa e della Vita Attiva, mentre sopra di loro trovano posto, da sinistra a destra, una Sibilla, il defunto papa disteso su un sarcofago ai piedi di una Madonna con Bambino, e un Profeta. Di queste ultime quattro opere solo la statua di Giulio II è interamente riferibile a Michelangelo, mentre le altre sono in buona parte frutto del lavoro di Raffaello da Montelupo.
Michelangelo Buonarroti, Tomba di Giulio II (1505-1545; marmo; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Andrea Jemolo |
Michelangelo Buonarroti, Lia (1542 circa; marmo, altezza 197 cm; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Michelangelo Buonarroti, Rachele (1542 circa; marmo, altezza 209 cm; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Raffaello da Montelupo, Sibilla (1537-1545; marmo; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Luciano Tronati |
Raffaello da Montelupo, Profeta (1537-1545; marmo; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Luciano Tronati |
Michelangelo Buonarroti (attribuito), Giulio II (1542 circa; marmo; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Raffaello da Montelupo, Madonna col Bambino (1537-1545; marmo; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Luciano Tronati |
La scultura raffigurante il capo ebraico s’impone sulle altre per potenza e per dimensioni: troneggia nel centro del monumento con lo stesso vigore che caratterizza i Profeti, dipinti poco prima da Buonarroti sulla volta della Sistina. Tutto, di questo ritratto marmoreo, comunica tensione e dinamismo: una gamba piegata indietro, come se Mosè stia per alzarsi in piedi, la possente muscolatura della braccia scoperte, il volto girato in una postura che, complice l’intensità dell’espressione del viso, appare come la conseguenza di un moto d’inquietudine.
Il vivido realismo che caratterizza la statua e la forza interiore che da essa emana, sono, probabilmente insieme al noto carattere burrascoso di Michelangelo, all’origine del famoso quanto infondato aneddoto secondo cui l’artista, sbalordito anche lui dalla vitalità del suo Mosè, gli si sarebbe rivolto chiedendo “Perché non parli?”, per poi colpirlo con una martellata su un ginocchio non avendo ricevuto risposta. D’altra parte non c’è niente di più facile che attorno a un’opera celebre nascano fantasiose leggende, e il Mosè celebre lo è stato, e lo è, decisamente molto.
Testimonianza di tutt’altro tenore del fascino che l’imponente figura ha esercitato nei secoli, è il noto testo del 1914, Il Mosè di Michelangelo, che Sigmund Freud dedicò alla scultura, facendolo pubblicare sulla rivista Imago inizialmente anonimo. Non era la prima volta che il padre della teoria psicoanalitica si interessava al mondo dell’arte, già quattro anni prima, infatti, aveva pubblicato un saggio in cui approfondiva alcuni aspetti della personalità di Leonardo da Vinci partendo da un ricordo d’infanzia annotato dal mestro toscano. Tuttavia, nello scritto del 1914 Freud si concentrò su un’opera, anziché su un individuo, arrivando a formulare un’ipotesi ricostruttiva dei moti psicologici e fisici del Mosè marmoreo precedenti l’attimo in cui fu colto dallo scalpello del Buonarroti, e in virtù dei quali la statua ci apparirebbe con la postura e l’espressione che vediamo ancora oggi. Ciò che Freud fece, quindi, fu osservare la statua come avrebbe fatto con un essere vivente, con un paziente di cui si intende ricostruire un processo emotivo. Si trattava di un procedimento che, come osservò Cesare Musatti in un saggio del 1980 dedicato al rapporto di Freud con la sua religione di provenienza, l’ebraismo, rischiava di esporre tanto l’autore quanto la stessa, giovane, pratica psicoanalitica alle critiche degli studiosi d’arte, e fu proprio questa, secondo Musatti, la ragione per cui Freud decise in un primo momento di pubblicare il suo testo in forma anonima.
Invece, a spingerlo a intraprendere tale lavoro era stata, come lui stesso scrive all’inizio del saggio, la sua enorme ammirazione per la statua, che lo aveva portato, durante un soggiorno romano, a tornare più volte davanti a quel marmo che gli appariva impenetrabile.
Ovviamente già prima del medico austriaco molti storici dell’arte e critici si erano espressi a riguardo delle peculiarità della scultura michelangiolesca: la testa volta a sinistra, la marcata flessione di una gamba, un dito indice curiosamente affondato nella splendida barba, le tavole della legge strette tra un braccio e il costato ma poggiate sugli spigoli, sono tutti particolari che hanno sempre attirato l’attenzione degli esperti (e non solo). E nella sua analisi Freud non ignora affatto le loro considerazioni, anzi parte proprio da lì. Molti degli autori che cita, tra cui Anton Springer, Jacob Burckahrdt, Carl Justi, erano giunti alla conclusione che Michelangelo avesse scelto di fermare esattamente l’attimo in cui Mosè, appena disceso dal Sinai, sorprende il suo popolo in atto di adorare il vitello d’oro e si agita, afferrandosi nervosamente la barba, un secondo prima di balzare in piedi in preda all’ira. Nell’Antico Testamento si legge che poco dopo l’uomo perde completamente il controllo, offeso dall’empietà del suo popolo, e scaglia a terra le tavole, distruggendole.
Cosimo Rosselli, Le tavole della legge e il vitello d’oro (1481-1482; affresco, 350 x 572 cm; Città del Vaticano, Cappella Sistina) |
Domenico Beccafumi, Mosè e il vitello d’oro (1536-1537; olio su tavola, 197 x 139 cm; Pisa, Duomo) |
Tuttavia, nonostante Freud concordi sull’individuazione dell’attimo immortalato da Michelangelo, quello in cui Mosè scopre il tradimento della sua gente, egli ritiene che il personaggio creato dall’artista fiorentino, a differenza di quello biblico, si stia contenendo, stia placando la rabbia e stia tornando in se stesso.
All’epoca in cui lo studioso austriaco scriveva si riteneva che la statua fosse stata conclusa intorno al 1515 (o comunque prima del viaggio a Firenze del 1517) così come la si osserva oggi, convinzione che, come vedremo, è stata recentemente confutata. Quindi, poiché il progetto del monumento che era stato concordato con i committenti in quegli anni prevedeva che il Mosè fosse affiancato da altre tre statue, tutte raffiguranti personaggi seduti, Freud giudica inverosimile che una sola scultura fosse stata eseguita per suggerire, invece, l’idea di un moto improvviso, che avrebbe rischiato di apparire goffo e fuori luogo in quel contesto. Scrive infatti: “Se le altre figure non erano anch’esse rappresentate sul punto di passare ad azioni violente (e ciò sembra molto improbabile) si sarebbe creata un’impressione pessima se una di esse ci avesse dato l’illusione di essere in procinto di abbandonare il suo posto ed i suoi compagni, cioè di abbandonare il suo ruolo nello schema generale. (…) Una figura in atto di allontanarsi precipitosamente sarebbe in completa discordanza con lo stato d’animo che la tomba vuole suggerire in noi.”
Da questa convinzione l’autore parte per formulare la sua ipotesi.
Messa da parte l’idea che il Mosè fosse stato concepito dall’artista fiorentino come carattere-tipo in cui concentrare tutta la forza spirituale di un ideale leader, precedentemente espressa dallo storico dell’arte Henry Thode nel suo Michelangelo e la fine del Rinascimento (vol. III), perché ritenuta non in grado di chiarificare la tensione e le contraddizioni che caratterizzano la figura, Freud si focalizza sui dettagli, due in particolare: la posizione delle tavole e quella della mano destra che poggia su di esse. Osservando che solo l’indice destro è premuto in modo piuttosto insolito nella barba, mentre le altre dita sfiorano appena la morbida massa, e concludendo quindi che non si può liquidare questo gesto come l’atto di giocare nervosamente con la propria barba prima di abbandonarsi all’ira, come autori avevano fatto prima, Freud ipotizza che Michelangelo abbia raffigurato un momento di passaggio, e in particolare quello in cui Mosè sta ritraendo braccio e mano sinistri e allentando, quindi, la presa sulla barba. Lo studioso immagina il succedersi di una serie di movimenti, che fa anche riprodurre in quattro disegni come supporto per il lettore, e che avrebbero condotto Mosè all’esatta postura in cui Michelangelo lo ha ritratto.
A suo parere il personaggio che domina la tomba di Giulio II è stato, sì, sul punto di avventarsi contro gli idolatri, ma al culmine del furore ha rivolto contro di sé il suo stesso astio, afferrandosi la barba con la mano destra con cui prima reggeva le Tavole inizialmente dritte, le quali sono quindi scivolate in avanti rischiando di cadere. È stato a questo punto che l’uomo ha deciso di controllarsi, ritirando il braccio destro per premerlo contro di esse, rimaste ormai a poggiare sugli spigoli, e salvarle. Ciò avrebbe fatto sì che anche la mano fosse ritratta e che, coinvolto in questo movimento, l’indice si trascinasse dietro parte della barba in cui era affondato. Quello che noi vediamo, quindi, sarebbe solo il residuo di un potente moto d’ira, ormai domato; ne restano lo sguardo sprezzante, la gamba ancora piegata di chi sta per alzarsi e le Tavole nella strana posizione che hanno assunto. Mosè ha ritrovato il controllo e non scatterà in piedi infuriato: resterà, seppure con tutto lo sdegno di cui sembra carico il suo sguardo, a sorvegliare il sepolcro di Giulio II, eternamente fissato in una calma che ancora gronda tensione.
Stando a questa lettura Michelangelo si sarebbe preso una notevole libertà, raccontando un uomo ben diverso da quello descritto nella Bibbia, il quale, al contrario, asseconda fino in fondo la sua collera e distrugge il prezioso dono di Dio. Particolarmente interessante è il modo in cui Freud argomenta la sua tesi: la virtuosa condotta adottata dal Mosè partorito dall’immaginazione di Michelangelo, avrebbe avuto lo scopo di fungere da rimprovero al defunto Giulio II e da monito all’artista stesso che con il pontefice condivideva il carattere irruento.
Michelangelo Buonarroti, Mosè (1513-1515; marmo, altezza 235 cm; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Michelangelo Buonarroti, Mosè (1513-1515; marmo, altezza 235 cm; Roma, San Pietro in Vincoli). Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Già il succitato Thode aveva proposto un collegamento tra il contegno del Mosè marmoreo e le personalità di Giulio e di Michelangelo, sebbene vada ricordato che la sua interpretazione dell’opera differiva da quella freudiana. Lo storico dell’arte, come detto, riteneva la statua di San Pietro in Vincoli non una figura storica, bensì la “personificazione di un’inesauribile forza interiore che doma il mondo recalcitrante”, in cui prendevano forma le esperienze emotive dello scultore e le sue impressioni del temperamento del papa alla cui tomba stava lavorando.
Un’ulteriore e molto più tarda interpretazione che vale la pena citare è quella, invece, della relazione tra la scultura e lo stesso medico austriaco, che fu argomentata da Ernst H. J. Gombrich, nel suo celebre Freud e la psicologia dell’arte. Gombrich, riprendendo quanto già suggerito dal biografo di Freud, Ernst Jones, sostenne che alla base della lettura che lo psicoanalista aveva fornito della statua vi fosse la sua identificazione con la figura del liberatore del popolo ebraico. Come Mosè, infatti, anche Freud aveva dovuto affrontare una bruciante delusione proprio nel periodo in cui si era dedicato alla stesura del saggio; erano quelli gli anni della rottura con Jung e dei dissidi all’interno della Società Psicoanalitica, per via dei quali, scrive Gombrich che Freud “si identificava con Mosè il quale, disceso dalla montagna, aveva trovato il suo popolo a danzare attorno al vitello d’oro”.
Ma tornando al nostro saggio, Freud conclude con una considerazione sull’inevitabile rapporto che si crea tra l’operato dell’artista e quello dell’interprete, ed esaminando le intuizioni di un altro autore, Watkiss Lloyd, che si era cimentato poco prima di lui con lo stesso tema arrivando a conclusioni simili, scrive: “E se tutti e due avessimo percorso la strada sbagliata? (…) E se fossimo caduti anche noi vittime dello stesso destino di tanti interpreti, che credono di vedere nitidamente cose che l’artista non ha inteso creare né consapevolmente né inconsapevolmente? Sono domande alle quali non posso rispondere. Io non so dire se è possibile attribuire a un artista come Michelangelo -nelle cui opere lotta per esprimersi un così ricco contenuto di pensiero- simile ingenua indeterminatezza (…). Infine, possiamo ancora aggiungere in tutta modestia che l’artista divide con l’interprete la responsabilità di questa incertezza”.
Un secolo più tardi, è possibile affermare che le considerazioni di Freud generalmente non furono accolte dagli storici dell’arte; inoltre nuove congetture, frutto di uno studio condotto a partire da un recente restauro, ci spingono a immaginare, oggi, uno scenario completamente differente da quello evocato dal nostro autore.
Infatti, il restauratore Antonio Forcellino, mentre era impegnato a lavorare sull’opera michelangiolesca, all’inizio del Duemila, decise di approfondire la testimonianza di un amico dello scultore toscano che nel 1564 aveva raccontato a Vasari, in una lettera pubblicata già nel 1930 dallo storico dell’arte Karl Frey ma successivamente ignorata dalla critica, di come l’artista avesse girato la testa al Mosè, inizialmente realizzato con una posizione frontale. Ecco una parte del testo: “Hauendo lui fatta drizzare in piede in casa sua la statua del Moise, quale era bozzata assai a buon termine infino al tempo di papa Julio Secondo, trouandomi io seco a guardarla, gli dissi: ‘Se questa figura stesse con la testa uolta in qua, chredo, che forse facesse megglio’. Lui a questo non mi rispose; ma doi giorni dapoi, essendo io da lui mi disse: ‘Non sapete, il Moise ce intese parlare laltro giorno et per intenderci megglio si è uolto’. Et andando io a uedere, trouai che li haueua suoltato la testa et sopra la punta del naso gli haueua lasciata un poca della gota con la pelle uecchia”.
Secondo Forcellino questa modifica sarebbe stata apportata nel 1542, a pochi anni dalla messa in opera della statua, e consentirebbe oggi di spiegare i tanti particolari già lungamente discussi e non solo quelli, aprendo la strada a una lettura del tutto nuova del Mosè e del processo creativo da cui scaturì. Nel testo Michelangelo. Una vita inquieta redatto dal restauratore nel 2007 leggiamo: “Quando riprese a scolpire il Mosè, Michelangelo volle cambiargli la postura, nonostante il suo avanzato stato di lavorazione. Questo straordinario azzardo tecnico ha lasciato molte tracce sulla statua e perfino un documento, passato inosservato fino a quando le anomalie materiali della scultura, apparse evidenti nel corso del suo restauro, non hanno richiesto una spiegazione fondata.”
Michelangelo Buonarroti, Mosè, dettaglio del collo. Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Michelangelo Buonarroti, Mosè, dettaglio della barba. Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Michelangelo Buonarroti, Mosè, dettaglio delle tavole. Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Michelangelo Buonarroti, Mosè, dettaglio delle gambe. Ph. Credit Jörg Bittner Unna |
Il Mosè illuminato da Mario Nanni |
Il Mosè illuminato da Mario Nanni |
Così, alcune caratteristiche della statua vengono rilette da Forcellino alla luce dell’intervento successivo, e della scarsità di marmo che l’artista avrebbe dovuto affrontare nella zona sinistra, andando a rilavorarla per apportare le modifiche.
Ad esempio, il restauratore osserva una certa rigidità nel lato sinistro del collo, contrariamente a quanto avviene dall’altra parte, e la spiega con l’impossibilità di far eseguire anche alla spalla, già impostata, la stessa torsione, e con la mancanza di materiale.
Secondo Forcellino, inoltre, la statua aveva originariamente oltre che uno sguardo frontale, anche i due piedi uniti; quindi l’artista sarebbe intervenuto anche nella zona inferiore, piegando una gamba in cerca di una più complessa spazialità interna della scultura. E la profondità della flessione di quella gamba, che rende il movimento tanto potente, dovrebbe essere letta come una conseguenza del fatto che nella zona sinistra del blocco di marmo già scolpito, non sarebbe stato possibile trovare spazio per il nuovo piede da realizzare, se non in posizione molto arretrata.
Anche l’evidente differenza dimensionale tra le due ginocchia, trattata da Michelangelo con l’aggiunta di una piega che percorre la veste al di sopra del più piccolo ginocchio sinistro, e che “distrae” lo spettatore, deriverebbe dai limiti del blocco già avanti nella lavorazione.
Allo stesso modo è argomentato l’andamento della tanto dibattuta e ammirata barba, trascinata verso destra dall’indice: sarebbe stata pensata in questo modo per far fronte alla penuria di marmo. A sinistra, infatti, dove la folta massa dovrebbe finire seguendo il voltarsi della testa, vediamo una sola ciocca, peraltro molto schiacciata, perchè il marmo sarebbe stato già lavorato fino alla veste.
Resterebbe comunque da spiegare per quale motivo Michelangelo abbia deciso di ritornare sul suo lavoro più di vent’anni dopo e di modificarlo così radicalmente. Che abbia realmente voluto richiamare, tramite quella voltarsi della testa, l’attimo in cui lo sguardo del capo ebraico si posa sul suo popolo intento a venerare l’idolo?
Forcellino e successivamente anche lo storico dell’arte Cristoph L. Frommel ipotizzarono che lo scultore, girando il capo del suo Mosè, avesse voluto far in modo che lo sguardo della statua non si posasse più sull’altare contenente le catene con cui, secondo la tradizione, fu imprigionato San Pietro (i “vincoli” da cui il nome della chiesa), presunte reliquie, la cui venerazione sarebbe stata ritenuta da Michelangelo mera superstizione religiosa.
Il restauratore osserva poi che con tale torsione la statua riusciva anche a intercettare la luce della finestra a sinistra che ne illuminava il volto, fatto particolarmente significativo se si tiene conto che i due vistosi corni sul capo stanno a rappresentare proprio i raggi dell’illuminazione divina. La finestra in questione è stata purtroppo chiusa successivamente, ma grazie al light-designer Mario Nanni che nel 2017 ha ideato un apposito impianto di illuminazione a led diversificato per quattro tempi, si è potuto recuperare, sui preziosi marmi, l’effetto originario della luce naturale delle varie fasi del giorno (alba, mezzodì, tramonto, crepuscolo).
Inoltre la postura che vediamo oggi ha certamente permesso alla statua di guadagnare in forza e in vivacità rispetto a un’ipotetica sistemazione frontale iniziale.
In conclusione, Michelangelo materializzò una presenza potente e ambigua, e proprio l’accuratezza dell’analisi degli effetti generati dalla sua vitalità densa di inquietudine, su chi osserva, costituisce ancora oggi, al di là degli esiti degli studi successivi, il merito più significativo del contributo di Sigmund Freud.
Nel 1545 la decennale vicenda della sepoltura papale giunse a una conclusione; il sepolcro non aveva l’imponenza né la ricchezza decorativa che avrebbero dovuto caratterizzarlo, e nonostante ciò costituisce ancora oggi un momento fondamentale nella produzione del grande artista toscano e, più in generale, nel contesto dell’arte rinascimentale, soprattutto in virtù della vigorosa raffigurazione scultorea del legislatore del popolo d’Israele.