Quali sono oggi le tendenze della giovane pittura contemporanea? Una rapida panoramica


Quali sono le tendenze della giovane pittura contemporanea? Come dipingono, come lavorano e cosa raccontano i pittori nati dopo il 1980? Ecco una rapida panoramica.

Chi è abituato a sfogliare le riviste d’arte sa bene che le riviste d’arte amano offrire al loro pubblico sguardi e analisi sotto forma di classifiche. I dieci migliori stand della fiera, i venti artisti da tener d’occhio, le trenta mostre dell’anno, le cento personalità più influenti del mondo dell’arte e via dicendo. Le classifiche hanno l’indiscutibile vantaggio d’essere immediate, facilmente comprensibili, accattivanti per il pubblico, capaci di provocare lunghe e spesso accanite discussioni, e per chi le scrive sono anche relativamente facili da compilare dacché impegnano molto meno di un’analisi a più ampio spettro. Da qualche anno, sulle riviste d’arte, specialmente quelle d’area anglosassone (ma anche sulla stampa generalista più attenta all’arte), è diventato sempre più frequente imbattersi in liste delle opere che, a parere di chi le compone, meglio dovrebbero rappresentare l’arte del XXI secolo. Difficile trovare classifiche che si trovino d’accordo su nomi, opere e posizioni, benché alcuni artisti siano ricorrenti e benché si possa in realtà riscontrare un elemento che mette tutti d’accordo: la scarsa presenza della pittura. Nel best of di Artnet News (settembre 2017) compariva un solo dipinto su una ventina di opere citate. In quello del Guardian (2019) figuravano due pittori su 25 artisti. E nelle prime quaranta opere della recente top 100 di Artnews (marzo 2025), i dipinti sono soltanto tre. Questo però non significa che la pittura non sia una lingua ancora in grado d’esser viva, pulsante, sorprendente, parlata ovunque, benché possa apparire (e probabilmente lo è) un mezzo dal sapore irrimediabilmente vintage, volendo adoperare un eufemismo. Oggi, un pittore somiglia tanto a un poeta. Ovvero a una figura che pratica una lingua lontana dalla sensibilità dei più. Eppure viva.

Ed è una lingua viva per tante ragioni. Intanto, perché ha una storia lunga e i pittori sono, in fondo, depositari d’una tradizione che corre attraverso i secoli. Poi, ha scritto Jonathan Jones sul Guardian qualche anno fa, perché la pittura “funziona ovunque la si metta: dalla National Gallery a una grotta dell’era glaciale fino alla parete di una pizzeria, è semplicemente vernice utilizzata da un essere umano per lasciare segni significativi. Ecco perché la pittura è ovunque, perché può andare ovunque e continuare a essere un tipo di arte”. Poi, la pittura è ancora diffusamente utilizzata come mezzo di riflessione sul presente e sul futuro, perché è uno degli strumenti più immediati di cui l’essere umano può disporre qualora sia interessato a offrire ai propri simili un ragionamento che voglia trascendere la realtà fenomenica e indagare il fantastico, l’ignoto, il sogno, il surreale, l’intangibile. E poi, banalmente, perché nel nostro salotto torna più semplice appendere un dipinto che un’installazione di tubi e macerie o un video ambientale: la pittura è più immediata perché è più trasversale. Di conseguenza, il mercato valorizza la pittura, e i dipinti prodotti dagli artisti contemporanei vengono tuttora venduti a prezzi significativi. Poi, certo, la pittura oggi non è che uno dei tanti strumenti di cui l’arte dispone, ragione per la quale, dovendo fronteggiare tanta proliferazione di mezzi espressivi, sembrerebbe aver perso rilevanza. E in un certo senso è così: le arti visive non sono più le arti dominanti del nostro tempo, e la pittura, lo dimostrano le classifiche di cui s’è detto, non è dominante tra le arti visive. Tuttavia, la pittura è ancora uno strumento largamente adoperato dagli artisti di tutto il mondo. Pertanto, non è un mezzo espressivo fermo. Tutt’altro: esplorare la scena della pittura al volgere del quarto di secolo è utile per comprendere cosa sta accadendo alla pittura, quali sono le trasformazioni cui questo mezzo sta andando incontro, quali sono le tendenze della giovane pittura contemporanea. Compito, certo, difficile: le classifiche sono uno strumento diffuso anche perché non è facile cercare di guardare al presente con distacco. Ma val la pena tentare, senza pretesa d’esaustività. E con la consapevolezza che oggi il grado d’innovatività della pittura sembra essere in declino. Nelle righe che seguono, e che riguardano artisti nati dagli anni Ottanta in poi, non si troveranno nomi roboanti. Nomi che tutti conoscono. Nomi ben noti anche al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Questo perché, anzitutto, la pittura, non essendo più arte dominante, ha perso buona parte del suo potere eversivo, della sua carica esplosiva, della sua capacità di dettare le regole della modernità. E poi è uscita dalle nostre consuetudini, ha smesso d’essere rilevante per le vite della maggior parte delle persone, non fa parte del nostro quotidiano. O almeno non ne fa parte come, al contrario, può farne parte per esempio un film, una canzone, o anche un intervento d’arte pubblica (ragione per cui oggi i non addetti ai lavori conoscono molto meglio gli scultori o gli artisti urbani, i cosiddetti street artist, dei pittori da cavalletto).

Tenendo dunque presente questa situazione, si potrebbe cominciare da un dato incontestabile: negli ultimi dieci anni, lo scenario è stato pesantemente modificato dalla globalizzazione e, in maniera forse ancor più rilevante, dall’interconnessione garantita da internet, con tutte le sue conseguenze più recenti. Su tutte, l’estrema rapidità con cui viaggiano le informazioni e la facilità d’accesso ai contenuti: fino all’inizio degli anni 2010, grosso modo, prima cioè che internet si muovesse verso il dominio dei contenuti generati dagli utenti (user generated content) e verso la facilità di scambio assicurata dai social, per conoscere in maniera verticale la scena artistica d’un altro paese occorreva documentarsi, studiare approfonditamente e viaggiare. Oggi invece è sufficiente perdere un po’ di tempo su Instagram, sui siti delle fiere d’arte (tutte le principali fiere mettono a disposizione i cataloghi delle opere), dentro alle viewing room delle gallerie. Uno scultore di Firenze può avere una certa contezza di cosa fanno i suoi colleghi a Stoccolma, un pittore di Nizza può informarsi su quel che accade a New York senza muoversi da casa propria, un gallerista di Amburgo riesce ad avere informazioni sugli artisti che espongono in una fiera di Città del Capo. Le trasformazioni della rete hanno dunque accelerato e ulteriormente rimescolato il multiculturalismo che la globalizzazione ci ha lasciato in dote, e che ha contribuito a staccare sempre più gli artisti dai vincoli delle tradizioni artistiche nazionali o regionali: la principale conseguenza è che gran parte della pittura del XXI secolo è, potremmo dire, una pittura cosmopolita. I pittori giovani attingono da tradizioni diverse, contaminano, mescolano elementi che arrivano da culture lontane rispetto a quelle in cui sono cresciuti, alle volte anche inconsciamente. I pittori giovani tendono ad affrontare temi globali (la crisi climatica, le crisi economiche, i diritti umani, le rivendicazioni civili, le migrazioni, la tecnologia e via dicendo). Si muovono in questo solco artisti come Salman Toor (1983), che tra i pittori nati dopo il 1980 è uno dei più interessanti, oppure Njideka Akunyili Crosby (1983), o ancora Jamian Juliano-Villani (1987). Di contro, la sovrabbondanza conduce al sovraccarico, con la conseguenza che il multiculturalismo favorito dall’accessibilità alle reti rende la pittura del XXI secolo sempre più omologata: diventa sempre più difficile comprendere l’origine d’un artista, benché non manchino le eccezioni. Anzi: l’artista che riesce a marcare la sua pittura con un’impronta forte, che faccia emergere la propria tradizione all’interno d’una ricerca che volge lo sguardo altrove, tende a ottenere maggior considerazione, perché rifiuta l’omologazione e l’imitazione. Si può spiegare in questi termini, per esempio, il fatto che la pittura africana goda di un’altissima considerazione tanto da parte della critica quanto da parte dei collezionisti: accade perché nessuno degli artisti africani più significativi rinuncia al proprio retroterra culturale. Qualche nome: Amoako Boafo (1984), Emmanuel Taku (1986), Oluwole Omofemi (1988), Tafadzwa Tega (1985). Si potrebbe esser tacciati di voler esaltare l’esotismo, ma nel caso riguarderebbe qualunque artista, di qualsiasi provenienza (anche un italiano, per dire, è esotico per un collezionista americano): in un mercato che s’è fatto globale, il collezionista premia il pittore che abbia da un lato maturato una cifra stilistica riconoscibile e, dall’altro, sia in grado di sfuggire all’omologazione, e dall’omologazione ci s’allontana soltanto attraverso la mediazione della tradizione. Qualche esempio di pittori nati dopo il 1980 che paiono aver ben imboccato questa via (esempi non esaustivi, ma c’è da dire che la rosa non si può allargare più di tanto dal momento che si fatica a trovare personalità interessanti): in Francia, Claire Tabouret (1981), Djabril Boukhenaïssi (1993); in Belgio, Ben Sledsens (1991); in Italia, Francesca Banchelli (1981), Rudy Cremonini (1981), Andrea Fontanari (1996), Marco Salvetti (1983); in Inghilterra, Michael Armitage (1984); in Svizzera, Rebekka Steiger (1993); in Messico, Ana Segovia (1991), Felipe Baeza (1987); in Giappone, Etsu Egami (1994), Ayako Rokkaku (1982).

Salman Toor, Bar Boy (2019; olio su compensato, 121,9 x 152,4 cm; New York, Whitney Museum of American Art)
Salman Toor, Bar Boy (2019; olio su compensato, 121,9 x 152,4 cm; New York, Whitney Museum of American Art)
Njideka Akunyili Crosby, Mother and child (2016; acrilico, trasferibili, matita colorata, collage e tessuto su carta, 96 x 124 cm; New York, The Metropolitan Museum)
Njideka Akunyili Crosby, Mother and child (2016; acrilico, trasferibili, matita colorata, collage e tessuto su carta, 96 x 124 cm; New York, The Metropolitan Museum)
Jamian Juliano-Villani, Dante's (2024; olio su tela, 232,1 x 337,2 cm). Foto: Maris Hutchinson
Jamian Juliano-Villani, Dante’s (2024; olio su tela, 232,1 x 337,2 cm). Foto: Maris Hutchinson. Su concessione di Gagosian
Claire Tabouret, Autoritratto al tavolo (2020; olio su tela, 100 x 81 cm; Collezione Pinault)
Claire Tabouret, Autoritratto al tavolo (2020; olio su tela, 100 x 81 cm; Collezione Pinault)
Djabril Boukhenaïssi, Comme tu ajoutes à tout, Fenêtre, le sens de nos rites V (2024; olio e pastello su tela, 200 x 300 cm)
Djabril Boukhenaïssi, Comme tu ajoutes à tout, Fenêtre, le sens de nos rites V (2024; olio e pastello su tela, 200 x 300 cm). Su concessione di Mariane Ibrahim Gallery
Ben Sledsens, Girl lying in the grass (2019-2020; olio e acrilico su tela, 230 x 210 cm). Su concessione di Tim Van Laere Gallery
Ben Sledsens, Girl lying in the grass (2019-2020; olio e acrilico su tela, 230 x 210 cm). Su concessione di Tim Van Laere Gallery
Francesca Banchelli, Learning from rocks before the past eats us (2019-2020; olio e acrilico su lino, 195 x 130 cm)
Francesca Banchelli, Learning from rocks before the past eats us (2019-2020; olio e acrilico su lino, 195 x 130 cm)
Andrea Fontanari, Das rote Telefon I (2021; olio su tela di lino, 200 x 200 cm)
Andrea Fontanari, Das rote Telefon I (2021; olio su tela di lino, 200 x 200 cm)
Marco Salvetti, Senza titolo (2022; olio, oilbar e pastelli su carta applicata su tela, 60 x 66 cm). Su concessione di Cardelli&Fontana
Marco Salvetti, Senza titolo (2022; olio, oilbar e pastelli su carta applicata su tela, 60 x 66 cm). Su concessione di Cardelli&Fontana
Rebekka Steiger, Shanhua (2020; tempera, inchiostro e olio su tela, 240 x 200 cm; Collezione Ringier)
Rebekka Steiger, Shanhua (2020; tempera, inchiostro e olio su tela, 240 x 200 cm; Collezione Ringier)
Felipe Baeza, Wayward (2021; inchiostro, grafite, spago, acrilico su carta, 167,6 x 121,9 cm). Foto: Roberto Marossi, su concessione de La Biennale di Venezia
Felipe Baeza, Wayward (2021; inchiostro, grafite, spago, acrilico su carta, 167,6 x 121,9 cm). Foto: Roberto Marossi, su concessione de La Biennale di Venezia

Questa pittura cosmopolita, che pesca da estetiche tradizionali per rispondere al presente, trova una propria cifra distintiva in un nomadismo culturale che, nella storia dell’arte, non ha precedenti: i nuovi pittori non appartengono a una sola tradizione ma attingono i loro riferimenti da passati spesso lontani. Salman Toor, per esempio, attinge dalla storia dell’arte europea (in particolare da quella impressionista e post-impressionista), e la mescola coi ricordi della sua terra natale, il Pakistan, per offrire al riguardante un racconto della propria esperienza d’immigrato negli Stati Uniti che si muove tra i locali notturni, che frequenta altri asiatici che vivono ai margini delle metropoli americane, che si chiude in un’intimità feriale per cercare di scansare il proprio disagio esistenziale. Njideka Akunyili Crosby fonde invece iconografie occidentali con motivi africani per produrre un’arte che, per sua stessa ammissione, cerchi di pensare sia al pubblico nigeriano (la sua terra d’origine) sia a quello americano (dove vive). In Italia, Andrea Fontanari combina un atteggiamento debitore del contemporary realism statunitense con un’insistenza sugli oggetti ch’è invece tipica dell’arte italiana del dopoguerra, da Guttuso a Ferroni, da Gnoli alla Scuola di Piazza del Popolo. Alcune delle caratteristiche dei pittori cosmopoliti contemporanei potrebbero essere associate al concetto di “altermoderno” elaborato nel 2009 da Nicolas Bourriaud, per indicare un atteggiamento che cerca di superare il relativismo del postmodernismo, che opera nella globalità rifiutando però la standardizzazione, che combina passato, presente e futuro dentro nuove strutture temporali. L’altermoderno secondo la formula di Bourriaud, tuttavia, predilige strutture narrative non lineari e aperte, ed è interessato al processo piuttosto che al contenuto, al modo in cui gli elementi vengono messi in relazione piuttosto che al significato intrinseco di ciascun elemento, perché l’opera altermoderna può esser considerata un nodo in una rete di connessioni. L’altermoderno, si legge nella presentazione d’una mostra della Tate che, sempre nel 2009, era stata dedicata a questo concetto (lasciando tuttavia al pubblico il compito di decidere cosa significasse “essere moderni oggi”), “privilegia i processi e le forme dinamiche rispetto agli oggetti singoli unidimensionali e le traiettorie rispetto alle masse statiche”. In Italia, a cercare di elaborare una formula altermoderna in pittura è stato il collettivo artistico-critico Luca Rossi, che vede in Enrico Morsiani (1981) il suo “frontman”, con la serie IMG, dipinti legati al progetto If you don’t understand something search for it on Youtube, un’opera in divenire che rimanda ai video amatoriali caricati su YouTube per elevare una sorta di ode al caos dei contenuti digitali e in particolare a quelli dimenticati, a quelli caricati sul web agli albori dell’era dei social e poi finiti nell’oblio. Nessuno invece dei pittori cosmopoliti di cui s’è detto sopra può esser definito altermoderno, almeno secondo l’accezione di Bourriaud, dacché nella loro pratica il contenuto è forte, i processi sono tradizionali, non c’è una focalizzazione sulle strutture dinamiche e sulle traiettorie. Ad ogni modo, rispetto alla frammentazione e al citazionismo che ha caratterizzato la pittura postmoderna, i pittori cosmopoliti contemporanei tentano al contrario una sintesi coerente e, pur talvolta conservando una certa ironia ch’era propria anche del postmodernismo, sembrano opporsi alla decostruzione, al sarcasmo, all’eclettismo che caratterizzava l’arte delle generazioni precedenti, e al contrario mescolano linguaggi e tradizioni per creare nuove narrazioni, che solitamente hanno a che fare con le grandi questioni contemporanee: le rivendicazioni sociali, le crisi ambientali, le migrazioni, spesso con approcci personali e autobiografici ma cercando di parlare a un pubblico globale (ragione per la quale i nuovi pittori cosmopoliti sembrano più immediati, anche più facili, rispetto ai pittori delle generazioni precedenti).

Occorre, a questo punto, un affondo sulle principali narrazioni che caratterizzano la giovane pittura cosmopolita contemporanea, dal momento che sono sì complesse, diverse e interconnesse, ma sono anche ricorrenti e mirano a riflettere sulle dinamiche di una situazione internazionale e globale a sua volta complessa, segnata da importanti trasformazioni politiche, sociali, culturali, economiche (il post-colonialismo e le conseguenti relazioni di potere, le disuguaglianze razziali e sociali, la digitalizzazione e l’uso crescente della tecnologia, le questioni di genere, l’interconnessione culturale, le crisi migratorie e quelle ambientali). Il giovane pittore cosmopolita è dunque, tendenzialmente, un artista engagé. La pittura cosmopolita del XXI secolo, intanto, insiste spesso sul concetto di “identità”, cercando di capire come le migrazioni, le connessioni culturali, i legami transnazionali e la fluidità delle società contemporanee, in primo luogo quella occidentale, si riflettano sugl’individui e sulle comunità: l’opera della succitata Nijdeka Akunyili Crosby, s’è detto, indaga le intersezioni tra la cultura nigeriana e quella americana. Quella di Salman Toor cerca di raccontare l’esperienza della diaspora. Molti pittori cercano invece di raccontare storie di resistenza e di lotta per l’autodeterminazione di popoli che hanno patito gli effetti del colonialismo o di comunità che hanno a lungo subito la segregazione razziale. Per ragioni di brevità, dal momento che molti sono oggi gli artisti che affrontano questi temi, ci si limiterà a fare rapida menzione della scena statunitense legata a una pittura che, da poco meno di un secolo a questa parte, non ha mai smesso di raccontare la diaspora africana, fin dall’esperienze pionieristiche di Jacob Lawrence con le sue scene di migrazione degli anni Quaranta passando attraverso l’Harlem Renaissance e l’arte degli anni Settanta nata sulla scia delle lotte del Civil Rights Movement (Barkley Hendricks, Faith Ringgold) per giungere al graffitismo di Basquiat e ai lavori di artisti nati tra anni Sessanta e Settanta che hanno raccontato la complessità della cultura afroamericana (Kerry James Marshall, Mickalene Thomas, Kara Walker, Kehinde Wiley). Artisti giovani e cosmopoliti che si pongono come eredi di questa significativa tradizione possono esser considerati, per esempio, Nina Chanel Abney (1982), Tajh Rust (1989), Ambrose Rhapsody Murray (1996), Shaina McCoy (1993), Na’ye Perez (1992), la stessa Crosby.

Etsu Egami, The Birth of Venus No. 2 (2022; olio su tela, 197,5 x 287 cm)
Etsu Egami, The Birth of Venus No. 2 (2022; olio su tela, 197,5 x 287 cm)
Ayako Rokkaku, Untitled (2007; acrilico su tela, 260 x 350 cm)
Ayako Rokkaku, Untitled (2007; acrilico su tela, 260 x 350 cm)
Luca Rossi, If you don't understand something search for it on YouTube (2019; acrilico su tela, 70 x 70 cm ciascuno)
Luca Rossi, If you don’t understand something search for it on YouTube (2019; acrilico su tela, 70 x 70 cm ciascuno)
Nina Chanel Abney, Hobson's Choice (2017; acrilico e spray su tela, 214 x 305,4 cm; Durham, Nasher Museum of Art at Duke University). Su concessione di Jack Shalnman Gallery
Nina Chanel Abney, Hobson’s Choice (2017; acrilico e spray su tela, 214 x 305,4 cm; Durham, Nasher Museum of Art at Duke University). Su concessione di Jack Shalnman Gallery
Tajh Rust, Preserved from the Flood I (2022; olio e acrilico su tela, 157,5 x 121,9 cm). Su concessione di Matthew Brown Gallery
Tajh Rust, Preserved from the Flood I (2022; olio e acrilico su tela, 157,5 x 121,9 cm). Su concessione di Matthew Brown Gallery
Tschabalala Self, Anthurium (2023; tela tinta a mano, velluto, tela di cotone, tela dipinta, filo, pastello, pittura acrilica e pittura a olio su tela, 243,8 x 243,8 cm). Su concessione di Pilar Corrias
Tschabalala Self, Anthurium (2023; tela tinta a mano, velluto, tela di cotone, tela dipinta, filo, pastello, pittura acrilica e pittura a olio su tela, 243,8 x 243,8 cm). Su concessione di Pilar Corrias
Jonathan Lyndon Chase, Run away with me (2019; acrilico, penna, glitter e strass su tela, 198,1 x 214,6 cm; New York, Whitney Museum of American Art)
Jonathan Lyndon Chase, Run away with me (2019; acrilico, penna, glitter e strass su tela, 198,1 x 214,6 cm; New York, Whitney Museum of American Art)
Anthony Cudahy, Rest (Past) (2021; olio su tela, 122 x 122 cm). Foto: A. Mole. Su concessione di Semiose
Anthony Cudahy, Rest (Past) (2021; olio su tela, 122 x 122 cm). Foto: A. Mole. Su concessione di Semiose
Madjeen Isaac, The Presence of Gran Bwa (2022; olio su tela, 127 x 182,9 cm). Su concessione di Jenkins Johnson Gallery
Madjeen Isaac, The Presence of Gran Bwa (2022; olio su tela, 127 x 182,9 cm). Su concessione di Jenkins Johnson Gallery
Claire Sherman, Trees (s.d.; olio su tela, 213,4 x 243,8 cm). Su concessione di Robischon Gallery
Claire Sherman, Trees (s.d.; olio su tela, 213,4 x 243,8 cm). Su concessione di Robischon Gallery
Ranny MacDonald, Still raining in my heart (2024; pigmenti da lavorazione sostenibile, caseina e gesso su carta riciclata, 44 x 48 cm)
Ranny MacDonald, Still raining in my heart (2024; pigmenti da lavorazione sostenibile, caseina e gesso su carta riciclata, 44 x 48 cm)

Esiste poi una ricerca sul genere e sulla queerness portata avanti da artisti che mettono continuamente in discussione le identità sessuali, i ruoli di genere, le stesse rappresentazioni del corpo, con una pittura che viene adoperata come mezzo per esprimere esperienze personali e collettive che riflettono sull’evoluzione della cultura queer e sullo spazio pubblico di auto-espressione della propria identità di genere. Si possono inquadrare in questo contesto artisti come Salman Toor, Tschabalala Self (1990), Jonathan Lyndon Chase (1989), Frieda Toranzo Jaeger (1988), Anthony Cudahy (1989). Lavorano invece sul fronte del cambiamento climatico pittori come Madjeen Isaac (1996), Claire Sherman (1981), Zaria Forman (1982) e Ranny MacDonald (1994), mentre nel novero degli artisti interessati alla critica sociale (al capitalismo, ai sistemi economici, ai sistemi di potere, allo strapotere della tecnologia e così via) si potrebbero includere Jamian Juliano-Villani, Chloe Wise (1990), Vladimir Kartashov (1997). Ci sono poi artiste che indagano temi legati al corpo femminile, alla femminilità, spesso riflettendo sul corpo come territorio di rivendicazione, se non come spazio tout court. Si possono citare in questo caso artiste come Christina Quarles (1985), Sahara Longe (1994), Alejandra Hernández (1989), mentre per l’Italia è possibile menzionare Romina Bassu (1982), Chiara Enzo (1989) e Giuditta Branconi (1998) .

Fuori dall’arte engagée se ne trova poi un’altra, non meno interessante (anzi, spesso molto più originale, innovativa, e anche meglio in grado di descrivere il presente), caratterizzata da una marcata tendenza all’intimismo, al rifugio nel quotidiano ch’è al centro della pratica di molti giovani pittori contemporanei. Questo rifugio nel quotidiano è una risposta che molti oppongono alle sfide poste dal mondo odierno: ne emerge una pittura che trova ristoro nella dimensione domestica, negli affetti, nella quotidianità, e che guarda alla memoria, al tempo, all’amore, all’amicizia come a spazi di resistenza, contemplazione, ridefinizione della realtà. Un’arte che parla di connessioni intime, umane, un’arte che rifiuta l’istanza politica (o quanto meno la presa di posizione politica attiva) ma non è comunque meno politica di quella più direttamente impegnata. Un’arte che spesso trova rifugio anche nel sogno e assume allora connotazioni oniriche. Artisti come Jordan Casteel (1989), Caroline Walker (1982) e Andrea Fontanari sono quelli che forse meglio offrono un esempio di questo genere. Per avere invece un paio di esempi d’artisti interessati invece a un’indagine che esca dal piano del razionale e s’inoltri invece nei territori del sogno, dell’inconscio, del subliminale, si possono osservare i lavori di Francesca Banchelli, la cui ricerca recente approfondisce un visionario espressionismo onirico che rinnova la tradizione della Transavanguardia, oppure quelli di Alessandro Fogo (1992).

Tornando invece sul piano strettamente formale, e sempre allontanandoci dalle narrazioni più politicamente impegnate, si può terminare la panoramica con le ricerche degli astrattisti che operano nel quadro della giovane pittura cosmopolita: difficile trovare qui indagini originali, in un ambito in cui è davvero arduo innovare, ma c’è comunque chi ci prova. Per esempio, c’è chi tenta la via del lavoro sui materiali come Julia Bland (1986) e chi invece reinterpreta l’astrattismo moderno guardando allo spazio e al cosmo come l’italiano Erik Saglia (1989), e poi, pur non essendo particolarmente innovative, per coerenza delle loro ricerche e per qualità del loro lavoro vanno citate almeno Emma McIntyre (1990), che pesca, più o meno consapevolmente, da Richter e dall’espressionismo astratto e specialmente da quello di Helen Frankenthaler, e Jadé Fadojutimi (1993), per la quale è invece difficile non pensare a Julie Mehretu. Sempre parlando d’arte astratta, il critico e artista Julien Delagrange, direttore della rivista belga Contemporary Art Issue, ha voluto individuare una tendenza nell’astrattismo contemporaneo, ovvero l’interesse per il gradiente, motivo da lui ritenuto onnipresente nella cultura visiva odierna, dal graphic design al webdesign, dalla stampa al design d’interni fino ad arrivare agli artisti-da-Instagram, quelli suggeriti dai filtri dell’algoritmo, non di rado astrattisti che s’esprimono per mezzo del gradiente e che con tale mezzo, dice Delagrange, riescono spesso a diventare virali, perché il gradiente è popolare e il pubblico sembra apprezzarlo. A suo avviso questo interesse si fonda su di una particolare risposta sensoriale, “un’esperienza fisica e psicologica che combina sensazioni piacevoli e rilassanti in risposta alla visione di un gradiente”. Una sorta di ASMR visivo, per Delagrange. Niente di particolarmente nuovo, dal momento che sul gradiente hanno lavorato già grandi astrattisti del Novecento come Judy Chicago, James Turrell e Lee Ufan, ma abbondano oggi gli artisti che cercano d’esplorare questo filone di ricerca: per esempio Loie Hollowell (1983), Maximilian Rödel (1984), Aron Barath (1980), Ruben Benjamin (1994), Alejandro Javaloyas (1987).

Una delle caratteristiche di questa nuova pittura è la sua connotazione individuale. Gli artisti giovani difficilmente fanno gruppo, non si radunano in movimenti. Volendo individuare i più recenti movimenti della storia dell’arte tocca tornare indietro all’ultimo scorcio del secolo scorso, con la nuova pittura europea da una parte e il Contemporary Realism degli Stati Uniti dall’altra (Alex Katz, Eric Fischl, Philip Pearlstein... ): in Europa, parlando di pittura, le ultime esperienze che possiamo connotare come gruppi sono state per esempio quelle degli Young British Artists (Tracey Emin, Ian Davenport, Fiona Rae... ), della Neue Leipziger Schule (Neo Rauch, Hans Aichinger, Isabelle Dutoit... ), della nuova figurazione italiana (Daniele Galliano, Marco Cingolani, Andrea Chiesi... ) all’interno della quale sono ulteriormente nati gruppi come l’Officina Milanese (Giovanni Frangi, Marco Petrus, Luca Pignatelli, Velasco Vitali) o la Nuova Scuola Palermitana (Andrea Di Marco, Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Francesco Lauretta, Fulvio Di Piazza), per arrivare all’ultimo gruppo italiano, l’unico nato negli anni Duemila, l’Italian Newbrow (Giuseppe Veneziano, Giuliano Sale, Vanni Cuoghi, Silvia Argiolas, Michael Rotondi, Laurina Paperina, Fulvia Mendini e altri). Artisti, peraltro, quasi tutti ancora in attività (parliamo in fondo di artisti intorno ai cinquanta-sessant’anni d’età, e per l’Italian Newbrow anche di trentenni) e con esiti spesso di gran lunga più interessanti e qualitativamente superiori rispetto a quelli dei loro colleghi più giovani, che raramente scelgono di lavorare in gruppo o di condividere idee. Un po’ per le trasformazioni di cui s’è detto: il cosmopolitismo digitale facilita le connessioni ma paradossalmente induce a lavorare da soli (lo sperimentiamo tutti, del resto: abbiamo in tasca uno strumento che ha il potenziale di collegarci a chiunque nel mondo, ma ci sentiamo molto più soli, perché abbiamo la percezione che le connessioni digitali non siano autentiche, spontanee e ricche come quelle fisiche). Un po’ perché gli sviluppi dell’arte degli ultimi cinquant’anni hanno mandato in soffitta i modelli storiografici validi fino al Novecento: con un panorama così vasto e vario sembra che abbia sempre meno senso individuare chi per primo fa qualcosa, senza considerare che diventa sempre più difficile innovare in maniera profonda, diventa sempre più difficile configurarsi come artista di rottura, come artista (o come movimento) che segna uno spartiacque tra epoche diverse. E un po’ per considerazioni di carattere pratico: “Gli artisti sono ormai troppo impegnati a fare inventario per mostre, fiere e aste per pensare ai movimenti artistici”, ha scritto Scott Reyburn su The Art Newspaper. Può sembrare una considerazione cinica, ma questa è la situazione.

Vladimir Kartashov, Unilovebank (2024; olio su tela, 150×170 cm). Su concessione di Tg residency
Vladimir Kartashov, Unilovebank (2024; olio su tela, 150×170 cm). Su concessione di Tg residency
Christina Quarles, Here we come again (2023; acrilico su tela, 195,6 x 244,2 cm). Su concessione di Pilar Corrias
Christina Quarles, Here we come again (2023; acrilico su tela, 195,6 x 244,2 cm). Su concessione di Pilar Corrias
Romina Bassu, (The thin end of) The Wedge (2021; acrilico su tela, 80 x 60 cm)
Romina Bassu, (The thin end of) The Wedge (2021; acrilico su tela, 80 x 60 cm). Su concessione di Studio Sales
Chiara Enzo, Dietro (2017-18; tempera gouache, pastello e matite colorate su cartoncino incollato su tavola, 27 x 27 cm; Collezione privata)
Chiara Enzo, Dietro (2017-18; tempera gouache, pastello e matite colorate su cartoncino incollato su tavola, 27 x 27 cm; Collezione privata)
Giuditta Branconi, Se nella notte estiva sai trovare la via (2023; olio su tela, 120 x 240 cm). Su concessione di LUPO Lorenzelli Gallery
Giuditta Branconi, Se nella notte estiva sai trovare la via (2023; olio su tela, 120 x 240 cm). Su concessione di LUPO Lorenzelli Gallery
Jordan Casteel, Damani and Shola (2022; olio su tela, 90 x 78 cm)
Jordan Casteel, Damani and Shola (2022; olio su tela, 90 x 78 cm)
Caroline Walker, The Architecture of Leisure (2016; olio su tela, 165 x 215 cm)
Caroline Walker, The Architecture of Leisure (2016; olio su tela, 165 x 215 cm). Su concessione di Grimm Gallery
Julia Bland, Half Moon (2022; fili di lino e lana, tela, lino, tintura per tessuti e pittura a olio, 264,2 x 152,4 cm). Su concessione di Kasmin Gallery
Julia Bland, Half Moon (2022; fili di lino e lana, tela, lino, tintura per tessuti e pittura a olio, 264,2 x 152,4 cm). Su concessione di Kasmin Gallery
Erik Saglia, Untitled (2016; vernice spray, pastelli a olio, nastro di carta e resina epossidica su tavola, diametro 250 cm)
Erik Saglia, Untitled (2016; vernice spray, pastelli a olio, nastro di carta e resina epossidica su tavola, diametro 250 cm)
Loie Hollowell, Standing in Blue (2018; pittura a olio, medium acrilico, segatura e schiuma ad alta densità su lino montato su tavola, 182,9 x 137,2 cm). Su concessione di Pace Gallery
Loie Hollowell, Standing in Blue (2018; pittura a olio, medium acrilico, segatura e schiuma ad alta densità su lino montato su tavola, 182,9 x 137,2 cm). Su concessione di Pace Gallery
Avery Singer, Reputation Demolition on Dereliction Island (2018; acrilico su tela, 217,17 x 241,93 cm). Su concessione di Kraupa-Tuskany Zeidler
Avery Singer, Reputation Demolition on Dereliction Island (2018; acrilico su tela, 217,17 x 241,93 cm). Su concessione di Kraupa-Tuskany Zeidler
Jonathan Chapline, Image Gallery (Collecting and Transcribing) (2018; acrilico su tavola, 122 x 213 cm). Su concessione di The Hole
Jonathan Chapline, Image Gallery (Collecting and Transcribing) (2018; acrilico su tavola, 122 x 213 cm). Su concessione di The Hole
Emma Webster, Nouveau Nocturne (2021; olio su tela, 152 x 274 cm). Su concessione di Stems Gallery
Emma Webster, Nouveau Nocturne (2021; olio su tela, 152 x 274 cm). Su concessione di Stems Gallery
Petra Cortright, economic analysis of crime_editoria elettronica/educational software (2021; pittura digitale su alluminio, 74,3 x 121,92 cm). Su concessione di 1301SW
Petra Cortright, economic analysis of crime_editoria elettronica/educational software (2021; pittura digitale su alluminio, 74,3 x 121,92 cm). Su concessione di 1301SW

L’unica scena che può assomigliare a un movimento (che però è tutt’altro che omogeneo e, nel caso, includerebbe comunque personalità che lavorano separate dalle une alle altre ma che si possono accomunare per tante similarità) vede al suo centro un tipo di pittura che potremmo trovare forse più innovativa rispetto a quella che s’è vista sin qui (lo è almeno sotto il profilo tecnico, talvolta meno sul piano dei contenuti che anzi alle volte paiono ancora legati a idee postmoderne), e che lavora sul confine tra analogico e digitale: una pittura post-digitale, potremmo definirla scomodando un aggettivo invero ormai un po’ datato ma comunque utile per indicare una forma d’arte che nasce col dominio dell’informatica. L’esito è una produzione frutto della combinazione di disegno o progettazione condotta in ambito digitale (software di elaborazione grafica, programmi di realtà virtuale e via dicendo) e dell’applicazione di tecniche tradizionali. Pionieristici in quest’ambito sono stati i lavori del tedesco Albert Oehlen che già negli anni Novanta creava i suoi dipinti “computerizzati” o quelli del texano Jeff Elrod che ha sviluppato quella che lui chiama frictionless painting (“pittura senza attrito”): i suoi lavori nascono dunque in uno spazio virtuale e producono un rendering che viene poi trasferito su tela con una tecnica che combina stampa digitale e applicazione manuale. Accanto a Elrod dev’essere citato almeno un altro pittore statunitense, Wade Guyton, autore di dipinti che corrono lungo le frontiere tra figurativo e astratto e che vengono creati a partire da screenshot di pagine web, scannerizzazioni, stampe di fogli Word su cui vengono impresse forme semplici o lettere, dopodiché la stessa tela viene fatta passare attraverso una stampante a getto d’inchiostro, con l’idea di far emergere in maniera chiara, financo prepotente, il condizionamento che gli strumenti digitali esercitano sulle nostre vite. A Oehlen, Elrod e Guyton, dunque, il merito d’aver aperto questa strada, percorsa oggi da diversi pittori venti-trentenni. Intento comune di questi artisti è quello d’esplorare i limiti della pittura per mezzo del digitale, spesso focalizzandosi più sulle tecniche che sui contenuti. La newyorkese Avery Singer (1987) crea dunque i suoi dipinti con un software di modellazione 3D per ingegneri, attraverso il quale prepara dei modelli che traspone poi sulla tela con un aerografo parimenti guidato da una macchina (alle volte però i suoi procedimenti cambiano). Nei dipinti di Singer non mancano elementi riconoscibili che rimandano spesso all’immaginario del web: è invece legato a un singolare figurativismo il suo coetaneo Jonathan Chapline (1987) che parte invece da ambienti modellati nella realtà virtuale, poi tradotti su tela dove prendono vita paesaggi e interni che fondono realtà e immaginazione con un’estetica fortemente legata alla figurazione americana del secolo scorso. Ancora, l’anglo-statunitense Emma Webster (1989) è autrice d’una pittura di paesaggio dal carattere onirico e visionario che parte da schizzi tracciati su schermo, nella realtà virtuale, arricchiti poi da un’illuminazione teatrale: ne sortiscono paesaggi che paiono naturali, o comunque ispirati direttamente dalla natura, ma che sono in realtà frutto di un’elaborazione digitale. Si può includere nella conta anche la californiana Petra Cortright (1986), che produce dipinti a partire da immagini digitali (che spesso pescano variamente dal web), con aggiunta anche di vere “pennellate digitali”, che vengono poi stampate su tela tramite processi industriali.

Infine, per chiudere questa rapida e necessariamente incompleta panoramica, un cenno a un particolare fenomeno che non è nuovo, ma s’è notevolmente amplificato in questo primo quarto di secolo, e che potremmo chiamare “neo-manierismo”: si è dunque estesa quella vastissima schiera di artisti che rielaborano l’estetica di precisi momenti della storia dell’arte con forme di revival più o meno aderenti al linguaggio di partenza, a prescindere dal contenuto. Il panorama è vastissimo. Andando veloci, qualche esempio pescato tra i giovani più quotati, più famosi o dei quali più s’è parlato in tempi recenti: i neo-barocchi (Jesse Mockrin), i neo-rococò (Flora Yukhnovich, Michaela Yearwood-Dan, Mia Chaplin), i neo-impressionisti (Lucas Arruda), i neo-surrealisti (Rae Klein, Sarah Slappey), i neo-fauves (Tunji Adeniyi Jones), i neo-espressionisti (Doron Langberg, Jennifer Packer, Antonia Showering, Yukimasa Ida), i neo-cubisti (Louis Fratino, Danielle Orchard, Leon Löwentraut), i neo-pop (Szabolcs Bozó), i neo-graffitisti (Aboudia), oltre ai derivativi generici, che richiamano modelli facilmente individuabili, per esempio (con tra parentesi il precedente illustre) Anna Weyant (John Currin), George Rouy (Francis Bacon), Roby Dwi Antono (Margaret Keane), Cristina Banban (Jenny Saville), per non parlare degli artisti che paiono ancora legati a una pittura postmoderna (Allison Zuckerman, Sarah Cwynar).

Naturalmente quel che fin qui s’è detto rappresenta una fotografia d’una situazione presente, viva e in divenire, e gli artisti inclusi nella panoramica sono in continua e piena attività, ragion per cui il quadro potrebbe cambiare rapidamente (un artista potrebbe abbandonare un filone di ricerca e abbracciarne un altro, un neo-manierista potrebbe cercare una sintesi diversa e più interessante, un nuovo movimento, magari anche sconvolgente, potrebbe nascere anche dopodomani, e via dicendo). È il principale motivo per cui non è semplice cercare d’inquadrare il presente, specialmente quando alcuni elementi inediti rendono ancor più difficile il lavoro: l’enorme numero di artisti al lavoro oggi nel mondo (forse l’umanità non ha mai conosciuto una così vasta mole di artisti attivi in tutto il pianeta) e la conseguente difficoltà di approfondire tutto (non escludo, dunque, stante anche la non esaustività di questa rapida panoramica, d’aver trascurato o tralasciato qualche nome, se non dirompente, dal momento che nell’era dell’interconnessione globale è difficile che qualcosa di veramente dirompente sfugga all’attenzione, quanto meno importante), la grande proliferazione di eventi che si susseguono di settimana in settimana (biennali, fiere, aste, eventi, mostre, discussioni), la struttura stessa del mercato, con artisti sempre più professionalizzati che lavorano per una platea di acquirenti e collezionisti sempre più ampia che richiede, dunque, artisti costantemente al lavoro e costantemente in grado di produrre opere nuove. Si spera però d’esser stati almeno utili a fornire almeno qualche spunto.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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