Agli amanti e studiosi dell’arte certo è noto il contributo che ha dato la città di Livorno alle vicende dell’arte italiana tra XIX e XX secolo. Il capoluogo dell’omonima provincia toscana, benché si attesti come una città relativamente piccola e periferica, ha dato i natali a uno sbalorditivo numero di artisti di primario apporto per alcune delle più significative esperienze dell’arte italiana. La lista è lunghissima e annovera importanti accademici come Giuseppe Maria Terreni ed Enrico Pollastrini, due dei protagonisti della Macchia, Serafino De Tivoli e Giovanni Fattori, e una schiera di altri talentuosi pittori, tra cui svettano Amedeo Modigliani, Plinio Nomellini, Vittorio Corcos, Mario Puccini, Renato Natali e Oscar Ghiglia. Eppure, nonostante la smisurata densità creativa, anche i più preparati difficilmente assocerebbero le circostanze artistiche livornesi a quella che è stata la prima e probabilmente unica avanguardia italiana, il Futurismo. Anche di questo movimento però si trovano interessanti riscontri: infatti nella città toscana furono attivi Francesco Cangiullo, scrittore, poeta e pittore che partecipò attivamente al Futurismo degli inizi e alla redazione dei manifesti futuristi, e Osvaldo Peruzzi, probabilmente l’ultimo esponente dell’avanguardia. Ancora meno nota, ma non certo priva di interesse è la storia che ci accingiamo a raccontare, e che nell’arco di una manciata di anni ritaglia un ruolo come centro di irradiamento del Futurismo in Toscana, a Livorno, o meglio ad Antignano, frazione balneare a sud della città labronica.
Queste vicende hanno infatti come teatro una delle lussuose ville che incorniciano la passeggiata a mare, “la più sontuosa delle Ville di Antignano, specialmente di quelle non modernissime”, come la apostrofa Giovanni Wiquel, attento annalista livornese. Tutto ebbe inizio quando l’edificio noto oggi come Villa Pendola fu acquistato nel 1915 da una famiglia di ricchi fiorentini, i Conti, tra i cui figli vi era quel Primo Conti (Firenze, 1900 – Fiesole, 1988) noto per essere stato l’enfant prodige della pittura italiana all’alba del XX secolo (così come titola l’importante mostra tenutasi a Seravezza a lui dedicata e curata da Nadia Marchioni). Peraltro, il pittore fiorentino non fu il primo grande artista ospite della villa, poiché anni prima, intorno al 1890, quando l’edificio apparteneva all’imprenditore e politico fiorentino Antonio Civelli, vi soggiornò a lungo, durante le estati, Giovanni Fattori, che qui dava lezioni di pittura alla figlia del ricco proprietario, Corinna, ritratta anche in uno squisito dipinto dal titolo La scolarina.
Quando Conti insieme alla famiglia iniziò a trascorrere le estati a Livorno non aveva che quindici anni, ma aveva già percorso i suoi primi passi nel mondo dell’arte. Infatti, dopo aver indirizzato il suo interesse nello studio del violino, nel quale dimostrò un grande virtuosismo, nel 1910 la sua naturale predisposizione anche al disegno convinse i genitori a mandarlo a lezione dal pittore Eugenio Chiostri. L’anno successivo dipinse la sua prima tela ad olio, un autoritratto di grande introspezione psicologica. Nel 1913, visitando a Firenze la prima mostra di “Lacerba” entra in contatto con i futuristi, attirando l’interesse di Carrà, Marinetti, Soffici e gli altri, e in quell’occasione Papini gli dona una cartolina con dedica: «Al più giovane e più intelligente visitatore dell’Esposizione futurista». Da quell’incontro, il rapporto con la compagine inizia a rinforzarsi, complice la partecipazione di nascosto alle loro serate, e l’amicizia con Umberto Boccioni. Contemporaneamente a Viareggio, dove la famiglia Conti aveva una casa, il giovane artista frequenta l’abitazione di Plinio Nomellini, luogo di incontro di molti importanti intellettuali del tempo: Grazia Deledda, Ada Negri, Galileo Chini, Alberto Magnelli, Eleonora Duse, Giacomo Puccini, Lorenzo Viani. Insomma, il Conti adolescente si era già messo in luce con alcuni dei più importanti protagonisti della scena artistica italiana, e di fatto stava perfezionando la sua militanza nel manipolo dei futuristi.
Nella sua autobiografia intitolata La gola del merlo abbondano i ricordi della residenza a Livorno: “Stavo ad Antignano da marzo a ottobre. La villa era grande e aveva un porticciolo con un lungo molo. Per raggiungerlo si attraversava un tunnel sotto la strada. La campagna era a ridosso del mare, vuota di case come in certe tavolette del Fattori. Livorno mi piaceva per la sua aria, si viveva ancora come in una stampa ottocentesca [..]. Mi piaceva la scogliera nera d’antracite che da Antignano brilla al sole fin verso l’Ardenza. Ogni tanto s’interrompe per far posto a una piccola spiaggia dove i bagnanti aprivano gli ombrelloni”.
Ad Antignano, Primo Conti realizzò anche numerose opere tra disegni e dipinti, alcune delle quali rivestono un’importanza nodale nella biografia del fiorentino, e testimoniano la sua irrequieta ricerca artistica in molteplici direzioni. Nel 1916 dipinse Fiori allo specchio, tela oggi in collezione privata, che ancora mostra la fascinazione del giovane pittore per la lezione di Cézanne, approfondito grazie alla frequentazione dello studio di Alfredo Müller: “Müller mi parlava di Cézanne con un forza di evocazione che me lo faceva sentire fra noi”. L’anno successivo Conti approfondiva il suo rapporto, testimoniato da una ricca corrispondenza, con Tommaso Marinetti e Giacomo Balla, che accolsero con entusiasmo le opere di quel giovane e innato talento.
L’entusiasmo di questi incontri spinse definitivamente il fiorentino ad abbracciare le poetiche futuriste, e proprio al suo rientro ad Antignano realizzò alcuni saggi di pittura dove la scomposizione dinamica di matrice futurista veniva reinterpretata. Nella celebre tavola La cocomeraia lo spazio si deforma e si comprime per assecondare il movimento rapido della figura femminile reso con una tavolozza brillante ancora memore della precedente esperienza fauve; inoltre, vi include brani di realtà con la tecnica del collage, come un “foglietto di stagnola da cioccolatini ed un batuffolo di stoppa”. “La visione di quel quadro”, avrebbe scritto, “mi aveva investito come un getto d’acqua fresca, vedendo una bancarella nell’ombra di una stradina nel centro di Livorno, dov’era il mio parrucchiere, e mi si era precisata nei riflessi glaciali dello specchio che mi trovai davanti di lì a poco, mentre sedevo a farmi la barba”.
A questo seguirono altre opere sempre realizzate nella frazione livornese, come Case Coloniche e Antignano dall’alto. In quest’ultimo dipinto, realizzato dalla terrazza della sua villa, si ritrovano le prime esperienze cubiste di Picasso e Braque, che portano a concepire gli edifici come grandi volumi cubici, mediati però da una polverosa caligine ambientale che il fiorentino cala sulla scena rendendola più emotiva e trasognante.
Nella villa abbarbicata sul litorale, Conti consumò importantissime esperienze, tanto dal lato artistico, quanto da quello umano. Grazie all’immensa disponibilità di spazi, alla posizione appartata e incantevole dell’accomodazione livornese, che in quegli anni vede Antignano come una delle mete balneari più gettonate, ben preso Villa Conti diviene punto di riferimento per molti artisti e intellettuali in particolare quelli vicini al Futurismo. Proprio qui venne infatti fondato nel 1917 il gruppo dei futuristi toscani a cui presero parte, oltre a Conti, Roberto Marcello Baldessari, Arnaldo Ginna, Achille Lega, Neri Nannetti, Emilio Notte, Ottone Rosai, Giulio Spina, Lucio Venna e Vieri Nannetti, e che fu ufficializzato sulle pagine di “Italia Futurista” nel 31 dicembre dello stesso anno.
Nel 1919, al termine delle ostilità del conflitto mondiale, Primo Conti tornò a Livorno dove insieme a Corrado Pavolini fondò la rivista “Il Centone”. Lo stesso anno la villa fu testimone di altri due importanti eventi: Santi Ceccherini, generale dell’esercito italiano che si era distinto nella difesa sull’Isonzo, e coinvolto da D’Annunzio nell’impresa di Fiume, richiese al pittore di poter usufruire per una sera della sua villa per organizzare le difese della città irredenta. L’edificio era stato prescelto per le sue caratteristiche, poiché essendo dotato di un porticciolo e di un passaggio sotterraneo che lo collegava con l’abitazione poteva essere utilizzato permettendo ai cospiratori di incontrarsi senza essere notati dalle autorità. “Faccio questo per l’Italia”, disse a Conti il generale “questa preghiera te la rivolgo a nome di D’Annunzio al quale ho detto che sarei venuto da te”. Il pittore animato da istinti patriottici riuscì a convincere la famiglia della bontà dell’impresa, e a lasciare la villa ai sovversivi.
Il 1919 è anche l’anno che registra un nuovo passaggio nella pittura di Conti: “Mi trovavo infatti tra il Futurismo e quella metafisica che allora stavo respingendo per certe sue origini nordiche”, ma di cui già si riscontrano i germi nel dipinto Marinaio ubriaco, in cui mostra l’interesse per quella “gente truce, feccia e ultimo strato della società” che il primo Futurismo milanese aveva ignorato. Tale passaggio trova compimento quando anche le ultime resistenze dell’artista vengono vinte: in questa fase Primo Conti si rifugiava in un altro villino attiguo alla proprietà Conti, che il padre aveva appena acquistato e per tale motivo ancora privo di mobili, qui l’artista dipingeva “con la sola compagnia del vento”. Realizzò così Il Limonaro: “Ero partito con una costruzione di forme molto disciplinata nei suoi valori contemplativi: poi, ad un certo momento, mi venne un bisogno quasi selvaggio di animarla mettendoci sopra occhi, naso, bocca e una grande pipa bianca […]. C’era in questa specie di Metafisica uscita dal Futurismo come un urlo, un rigurgito da bassa plebe che la rendeva diversa da quella di De Chirico”.
La villa vide spesso ospite anche il deus ex machina del Futurismo, Tommaso Marinetti, immortalato in alcune foto: da qui continuava a far proseliti per la sua creatura. Ad esempio, il 30 agosto del 1920 fu organizzata una serata futurista nel Castello di Antignano, allora sede dell’Hotel Cremoni. La serata di beneficenza si proponeva di raccogliere fondi per costruire delle case popolari nel quartiere. Conti ricorda nella sua biografia che per avere la sala furono costretti ad accettare che si esibisse il poeta livornese Rivalta, il quale si accollò le spese dell’evento e che declamò la sua interminabile poesia “Oleandri”. Marinetti, invece, che avrebbe dovuto recitare la “Beatrice di Dante”, iniziò la serata con una provocazione, attirandosi le ire del pubblico: “Nonostante il suo vergognoso successo coi professori, Dante merita di essere trattato al pari con i nostri poeti futuristi”. Tutto tornò però alla quiete quando lo scrittore iniziò a declamare il Sommo Poeta.
Sempre nella frazione livornese, Marinetti presentò, a Conti e agli altri, Benedetta Cappa, la sua fidanzata, tradendo così la sua storica avversione per le donne e per i rapporti amorosi. Anzi, al contrario di ciò che predicava, della donna si mostrava alquanto geloso, tanto da affidarla alle cure della mamma di Primo Conti quando era costretto ad allontanarsi. Ad Antignano, con la fidanzata, il poeta scrisse il manifesto del tattilismo: “Nell’estate scorsa, ad Antignano, là dove la via Amerigo Vespucci, scopritore d’Americhe, s’incurva costeggiando il mare, inventai il Tattilismo. Sulle officine occupate dagli operai garrivano bandiere rosse. Ero nudo nell’acqua di seta, lacerata dagli scogli, forbici coltelli rasoi schiumosi, fra i materassi d’alghe impregnate di iodio. Ero nudo nel mare di flessibile acciaio, che aveva una respirazione virile e feconda. Bevevo alla coppa del mare piena di genio fino all’orlo. Il sole con le sue lunghe fiamme torrefacenti vulcanizzava il mio corpo e bullonava la chiglia della mia fronte ricca di vele”.
Oltre al manifesto, il poeta scrisse anche il romanzo “Alcova d’acciaio”, ispirato, come ci ricorda Conti nell’autobiografia, dai movimenti dei piccioni nel sonno, che il poeta studiava di notte alla luce di una lanterna nella voliera costruita nel giardino della villa dal padre del pittore fiorentino. Ma la villa fece da cornice anche ad un altro fondamentale incontro della vita di Conti: “Su quella scogliera nacque il primo vero amore della mia vita, intenso e drammatico”. Infatti, un giorno del 1923 Conti, trovandosi in una spiaggia con la sua cartella da disegno, si imbatté in una donna cinese di mezza età che stava asciugando due bambini biondissimi, alla quale chiese il permesso di ritrarli. Mentre era immerso nell’attiva grafica la sua attenzione però venne disturbata poiché dal mare “emerse una splendida giovane grondante di sole e di schiuma”.
Si chiamava Henriette Quien, ma preferiva con orgoglio utilizzare il soprannome maschile Harry. Nata in Olanda, aveva vissuto diversi anni a Shanghai con l’ex marito tedesco. I genitori avevano acquistato Villa Macchiavelli a Bagno a Ripoli, nelle vicinanze di Firenze, e la donna con i suoi figli e la balia Liung-Yuk alloggiava d’estate a Livorno alla pensione “Villa Augusta”, poco distante da Villa Conti, e immortalata nel quadro Antignano dall’alto. Da questo incontro nacque una frequentazione amorosa, benché Conti fin dall’inizio fosse consapevole della propensione della donna a una vita fatta di amori facili e dissoluti.
Ma Henriette lo catturò per la sua profonda intelligenza, le sue esperienze e la sua cultura cosmopolita, che permisero all’artista di conoscere altri orizzonti di vita e di pensiero più moderni e più stimolanti di quelli accessibili in Toscana. La donna portava inoltre con sé abiti e stoffe orientali, che dischiusero un campionario di colori, ricami e figure mai viste dal pittore prima d’ora. Da questa storia d’amore nacquero anche numerose opere: l’artista eternò Harry in un dipinto dal titolo Giubbotto russo e anche i figli in successivi quadri, ma ancora più significative furono le opere che eternarono la domestica Liung-Yuk. Si tratta di tre meravigliosi brani realizzati intorno al 1924 che si conservano alla Galleria comunale d’arte moderna di Roma, nella collezione Contini-Bonacossi e a Palazzo Pitti, grazie a quest’ultimo Primo Conti vinse il Premio Ussi, ottenendo una discreta somma di denaro e un successo nazionale.
Ma il rapporto d’amore tra i due non era certo esente da dolori e sofferenze, tanto che Conti decise di troncarlo nel 1927: “La più spaventosa, e dolce, e atroce, e pietosa storia d’amore della mia vita, alla quale avevo dato per quattro anni tutto me stesso, è morta nella stessa ombra da cui era nata […]. Un’epoca della mia vita, importante, si è chiusa. Ora mi si presenta dinnanzi un immenso spazio verso cui muovo con passo ubriaco e da convalescente”. Il pittore chiese perfino al padre di vendere la villa di Antignano e di ricomprarla a Viareggio al fine di “tagliare il cordone ombellicale fatto di sesso e sentimento, di magia, che mi teneva legato a quella donna meravigliosa. Livorno, però, mi rimase nel cuore”.
A chi si fosse domandato poi se vi fossero stati degli incontri fra la compagine futurista che proprio ad Antignano aveva uno dei maggiori centri di irradiazione in Toscana e i post macchiaioli del Caffè Bardi, ecco cosa rispose Conti intervistato dal giornalista Aldo Santini: “Quando ero all’Antignano non mi occupavo certo dei post-macchiaioli. Sentivo il bisogno di essere moderno. I seguaci di Fattori poi, guardavano a noi futuristi con ironia, non si occupavano a loro volta di un signorino con villa sul mare come me. Appartenevano all’Ottocento, tant’è vero che non capivano Modigliani. La mia Antignano era lontanissima da Piazza Cavour”.
E in effetti il disinteresse era davvero reciproco, tanto che nel suo libro “Virtù degli artisti labronici” Gastone Razzaguta, memoria storica degli artisti livornesi, rammenta un solo incontro dei labronici con i pittori futuristi, venato di comicità e irriverenza: “Marinetti nell’estate 1913, stiede con noi sui bagni Pancaldi, guardandosi bene di mettere piede nella sala della nostra Esposizione che gli faceva, naturalmente, oibò. In compenso pretendeva di fare il bagno completamente nudo e allora era lui che, secondo la direzione dello stabilimento faceva come s’è detto”.
L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.