Guido Piovene, forse il più grande tra gli scrittori di viaggio italiani, definiva la Madonna della Pace come “il miglior quadro dipinto dal Pinturicchio”. La scelta è ardua: Bernardino di Betto è stato artista eccelso, difficile dire quale delle creazioni uscite dalla sua mano divina superi le altre. Se dunque si può discutere a lungo sul giudizio che Piovene riserva, nel suo Viaggio in Italia del 1957, all’opera conservata nella Pinacoteca di San Severino Marche, si può tuttavia accogliere di buon grado la descrizione che ne fornisce: per Piovene, la Madonna della Pace è un capolavoro “dolcissimo, minuzioso, quasi miniato, sembra riassumere in sé lo spirito medio delle Marche e dell’Umbria”. Dolcezza e minuzia erano due elementi distintivi della pittura umbra di fine Quattrocento, e il Pinturicchio seppe portarli al sommo grado: nella Madonna della Pace ne dà un’evidente dimostrazione.
C’è dolcezza nei fini lineamenti dei personaggi celesti, specialmente in quella Madonna adolescente, una bellezza idealizzata che regge un biondissimo Bambino dal portamento regale, colto nell’atto di benedire il committente, Liberato Bartelli, già protonotario apostolico, canonico di Santa Maria in Trastevere e di San Pietro e cameriere segretario del papa, che richiese la tavola al pittore perugino per farne dono al Duomo di San Severino Marche: il patrizio marchigiano, appena nominato priore del Duomo, evidentemente voleva celebrare in tal modo il suo nuovo titolo, e con tutta probabilità si rivolse al Pinturicchio dopo esservi stato introdotto da Niccolò Bufalini, suo amico, per il quale l’artista aveva lavorato in una delle sue più note imprese, la decorazione della Cappella Bufalini in Santa Maria in Aracoeli. C’è dolcezza negli angeli che assistono alla scena, uno con le mani giunte che guarda negli occhi l’osservatore e l’altro che china il volto, in quell’atteggiamento che troviamo negli stessi anni anche in Leonardo da Vinci: le fonti dalle quali i due artisti bevvero non erano poi così distanti, dato che per vie traverse la lezione dei grandi fiorentini arrivò anche al Pinturicchio. C’è dolcezza nel profilo delle colline che si stagliano sul fondo, con un borgo che s’affaccia sulle rive del fiume: sono quelle delle terre in cui il pittore visse e operò. E cosa dire delle stradine illuminate dal sole che attraversano i colli e la campagna circostante, con tanto di passaggio di cavalieri? Osservare un dipinto di Pinturicchio significa anche perdersi nei dettagli, indugiare sull’apparentemente superfluo, ammirare e meravigliarsi per un fiore, per un ricamo, per una torretta in lontananza, per i bagliori dorati che fanno risaltare la parte esposta al sole della chioma d’un albero, per la trama traforata d’un’aureola. Tanto più che questo maestro del Rinascimento umbro non padroneggiava la prospettiva aerea come altri avrebbero fatto dopo di lui: per il Pinturicchio, un dettaglio in lontananza è nitido quasi come un oggetto che si trova a pochi centimetri dal riguardante.
Pinturicchio, Madonna della Pace (1488-1490 circa; tempera su tavola, 94 x 64 cm; San Severino Marche, Pinacoteca Comunale Tacchi Venturi) |
Perché il Pinturicchio fu anche un maestro d’analisi descrittiva. La Madonna della Pace è anche un capolavoro di minuzia fiamminga: lo è, anzitutto, per il modo di trattare lo stesso profilo delle colline, nette, a far da fondale assieme alle rocce scoscese, memori di certa pittura ferrarese, e agli esili alberelli che scandiscono regolarmente la composizione in verticale, offrendo all’occhio equilibrio e bilanciamento. C’è minuzia nei nimbi della Madonna e degli angeli, trasparenti: al di là del gioco delle decorazioni s’intravedono le fronde delle piante. C’è minuzia nelle gemme che adornano le vesti dei bellissimi angeli, nel cuscino di raso, nell’abbigliamento del Bambino, che non è nudo come nei dipinti dei pittori del Rinascimento toscano: è vestito di tutto punto come i Bambini che il pittore vedeva nei mosaici di Santa Maria in Trastevere o di Santa Maria Nova o di altre antiche chiese romane, e qui indossa un pallio da antico romano, celeste e intessuto d’oro, posto sopra una dalmatica con bordature dorate. C’è minuzia nel globo crucigero che tiene con la destra, simbolo della sua supremazia sul mondo: per un grand’esperto del Pinturicchio, Franco Ivan Nucciarelli, quella sfera di cristallo è uno degli elementi più pinturicchieschi dell’insieme, un “felice momento descrittivo”, al pari degli “alberi d’altezza paradossale portati fino al limite superiore del dipinto”. È “quasi un gioiello”, scrive Nucciarelli, “destinato a consolidarsi all’interno del lessico pinturicchiesco” e di conseguenza a riemergere anche in altri momenti della sua produzione.
Quella di Pinturicchio è dunque, anzitutto, la pittura della delicatezza di forme, profili e incarnati, della ricchezza di dettagli, dell’eleganza formale e della raffinatezza esecutiva: il globo sembra diventare davvero una sfera di cristallo fragilissimo, i riverberi del cangiantismo dorato delle vesti restituiscono davvero l’evidenza tattile d’un tessuto prezioso, la luce lieve che si diffonde uniforme è davvero quella d’un mattino di primavera in Umbria, il committente inginocchiato è davvero un uomo catturato naturalisticamente nella piena presenza della sua fisicità, con tanto di vena che pulsa sulla tempia e di gote solcate dalle rughe. Ma a questa morbidezza e a queste minuterie il Pinturicchio, artista comunque solido, unisce consistenza di volumi e saldezza monumentale che rimandano ai suoi interessi per la pittura fiorentina. È come se nella Madonna della Pace si celebrasse l’incontro tra diversi Rinascimenti: l’Umbria, le Fiandre e la Toscana convivono armoniosamente nel capolavoro del Pinturicchio.
Corrado Ricci elencava la Madonna della Pace, “giovine, bella, soave, col collo tutto scoperto, nella veste rosa, dal manto d’oltremare oscurato”, tra i lavori migliori del Pinturicchio, ma ne approfittava anche per muovere una critica all’artista: “Se il Pintoricchio avesse dipinto a lungo così”, si legge nella sua monografia del 1915, “se il cumulo dei lavori, in ispecie di decorazione, non l’avesse reso in seguito trascurato e talora anche grossolano […]; se, insomma, l’arte sua, raggiunta questa vetta, fosse riuscita, se non a salirne un’altra anche più eccelsa, almeno a rimanere lungamente in essa, nessun pittore umbro e pochi tra gli italiani del tempo avrebbero certo meritata lode di maggior grazia, finezza e venustà”. E dello stesso avviso era Berenson, secondo cui l’ultimo Pinturicchio (quello della Libreria Piccolomini, per intenderci), era un artista “all tinsel and costume painting”, ovvero da pittura tutta “decorazione e costumi”. Comunque la si voglia pensare sugli esiti estremi dell’arte del Pinturicchio, risulta difficile trovare difetti nella Madonna della Pace, apprezzata da pressoché tutta la critica d’ogni epoca. Anche perché si trattò d’un’opera destinata a rimanere impressa nella memoria a lungo: non soltanto in quella del Pinturicchio, che tornò più volte a questo dipinto per produrre altri capolavori che derivano chiaramente dal capolavoro eseguito per il Duomo di Sanseverino. Si tratta, sostanzialmente, di Madonne conservate nei musei di tutto il mondo: il nesso forse più noto è col cosiddetto “Bambin Gesù delle mani” della Fondazione Giordano di Perugia, legato a un frammentario volto della Vergine oggi custodito in una raccolta privata. Ma anche nella memoria d’altri artisti, da Macrino d’Alba a Marco Palmezzano, ad esempio. La recente mostra Raffaello e gli amici di Urbino ha inoltre messo la tavola di San Severino Marche in relazione con gli esordî di Raffaello: non per stabilire dei paralleli precisi, quanto piuttosto, ha scritto Luca Pezzuto, per “evocare l’acclarato ma complesso rapporto tra Pinturicchio e Raffaello”. Il rapporto con Pinturicchio, rammenta lo studioso, “ebbe una notevole incidenza sullo sviluppo del giovane Raffaello, che dal più anziano collega riprese aspetti tecnici e iconografici”. Sulla strada del grande Rinascimento c’è dunque anche la Madonna della Pace di San Severino.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).