Nel corso della sua carriera il Perugino (Pietro Vannucci; Città della Pieve, 1450 circa – Fontignano, 1523) realizzò diversi gonfaloni, ovvero stendardi che venivano solitamente dipinti su tela perché destinati a essere trasportati durante processioni, e che quindi dovevano essere relativamente leggeri. Il termine gonfalone deriva dall’antico francese gonfalon, forma dissimilata di gonfanon che viene ricondotta all’ipotetica voce fràncone (famiglia di dialetti germanici occidentali) gundfano, propriamente un vessillo di guerra (tedesco Fahne: bandiera). Probabilmente dunque in origine legato al mondo bellico, il gonfalone ha assunto poi un valore differente, come simbolo municipale, di associazioni, confraternite e compagnie religiose, diventando simbolo di appartenenza e di identità. Si trattava proprio di uno stendardo generalmente rettangolare, sostenuto da un’asta orizzontale montata su una verticale, in modo da tenerlo disteso.
Tra questi gonfaloni realizzati dal Perugino, vi è il Gonfalone della Pietà, meglio conosciuto come il Gonfalone del Farneto, che oggi fa parte delle collezioni della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia. Quest’ultimo è stato restaurato in occasione della grande mostra Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo, con la quale il museo ha inteso celebrare il cinquecentenario della scomparsa del maestro umbro.
La sua denominazione lo lega alla sua provenienza, ovvero al convento francescano della Santissima Pietà del Farneto a Colombella, sulla strada che unisce Gubbio e Perugia, e qui restò fino alla metà dell’Ottocento, posto sulla parete destra della chiesa. Il Gonfalone del Farneto, stendardo processionale utilizzato in origine per le processioni quaresimali, venne realizzato a tempera su tela intorno al 1472 e costituisce, anche secondo la critica, uno dei capolavori della produzione giovanile dell’artista. È un fatto insolito che l’opera sia eseguita su tela (circostanza che ha portato a considerarla, appunto, un gonfalone), supporto poco diffuso all’epoca, e per di più fu realizzata con una tecnica particolare. Quest’ultima è inconsueta: “si differenzia infatti dai più comuni dipinti su tela del secondo Quattrocento, come ne farà anche Perugino”, spiega la studiosa Veruska Picchiarelli, “perché priva dello strato di preparazione tra il supporto e la pellicola pittorica. Il legante utilizzato sembra essere una tempera grassa, con olio mescolato a uovo o a colla animale. A questa combinazione, che ha comportato la penetrazione del colore nella fibra vegetale, si deve l’aspetto terroso e opaco della materia, che probabilmente, in origine, non ha neanche ricevuto una verniciatura finale, come lasciano intendere le indagini diagnostiche. Un altro aspetto singolare nella tecnica è rappresentato dalla cucitura molto vistosa che unisce i due lembi di tela del supporto nella parte centrale. La mancanza dello strato ammortizzante rappresentato dalla preparazione accentua l’evidenza della giunzione, ma una simile ‘trascuratezza’ in un dipinto accarezzato per il resto nei minimi particolari porta a immaginare che l’aspetto umile e dimesso fosse voluto e ricercato, forse per esigenze di carattere devozionale”.
Nell’opera, tra le più importanti e significative del periodo, si riconoscono elementi riconducibili alla lezione di Andrea del Verrocchio: durante il suo soggiorno fiorentino, il Perugino frequentò infatti la sua bottega, considerata la più importante e la più feconda della Firenze medicea; per dare un’idea, da qui passarono e si formarono grandi artisti quali Leonardo da Vinci, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, divenuti come sappiamo geni e maestri della storia dell’arte. Il Perugino fu in grado di rileggere la lezione del Verrocchio, in particolare il naturalismo di quest’ultimo, attraverso un profondo lirismo: una combinazione tra il tratto più caratteristico del Perugino e gli insegnamenti del maestro che nel dipinto si rende ben visibile soprattutto nei colori terrosi di cui è intrisa l’opera, nei toni quasi lattei delle vesti dei personaggi laterali, sulle quali pare rifrangersi la luce come fossero lamine metalliche, e nella resa dei volumi e delle anatomie, con tratti marcati e alquanto spigolosi (si noti anche il corpo di Cristo quasi scheletrico). L’aspetto terroso e opaco della materia, che caratterizza il dipinto, è dato dalla combinazione di un legante, probabilmente una tempera grassa, con olio mescolato a uovo o a colla animale, comportando quindi la penetrazione del colore nella fibra vegetale, e dall’assenza dello strato di preparazione tra il supporto e la pellicola pittorica. Una tecnica insolita che si differenzia dai più comuni dipinti su tela del secondo Quattrocento.
Di primaria importanza è inoltre la luce che giunge da sinistra, insinuandosi tra le pieghe delle vesti come specchi lucenti; illumina gli occhi del leone accovacciato accanto a san Girolamo, le aureole che diventano dischi di metallo riflettente e il fermaglio dorato col serafino che chiude al petto il manto della Vergine. Da notare il contrasto tra la parete rocciosa di sinistra, in controluce, e quella di destra, completamente assolata, suggerendo così l’ambientazione della scena in una gola ombrosa, che si fa aperta dietro ai personaggi in primo piano. Anche i bordi dei nimbi presentano lumeggiature accesissime, che dal giallo arrivano al violetto passando per l’arancio. Vi è inoltre una grande espressività nei volti dei personaggi raffigurati, in particolar modo nella Vergine (il suo viso è solcato da pieghe disegnate dalla disperazione e da lacrime) e nella Maddalena, che esprimono profonda drammaticità, ulteriormente rappresentata dal gesto delle mani di quest’ultima. Il paesaggio roccioso, che rimanda al Quattrocento fiammingo, conferisce una nota intima e meditativa all’opera tutta, in linea con la committenza dei frati francescani, i quali nel convento della Santissima Pietà del Farneto, situato su un’altura circondata da un bosco di farnie, una specie di querce, dovevano ricordare l’esperienza degli antichi eremiti nel deserto. Non è un caso se uno dei personaggi raffigurati nell’opera sia proprio san Girolamo, inginocchiato in preghiera e accompagnato dal leone: la sua presenza rimanda a uno degli episodi più famosi della vita del santo che, attratto dalla vita ascetica, nel periodo di eremitaggio nel deserto, incontrò un leone con una spina conficcata in una zampa; il santo gli tolse la spina, gli curò la zampa e l’animale, a lui eternamente grato, da quel momento non lo abbandonò più, rimanendogli fedele. Anche la santa Maria Maddalena, anche se rappresentata con maggior drammatismo, è in ginocchio, in posizione di penitenza.
Tra i due santi penitenti, al centro del dipinto, l’artista ha raffigurato la Madonna, vestita di un lungo abito marrone scuro che ricade ampiamente a terra in linee rigide, formando spigoli; ha il volto visibilmente affranto dal dolore per la morte di suo figlio. Lo tiene sdraiato sulle sue ginocchia, sorreggendolo con la mano destra sotto la testa e con la mano sinistra, con forza, per una coscia, in modo da non fare scivolare il corpo di Cristo in avanti. Il suo corpo, a peso morto, reso anche dal braccio sinistro che penzola giù toccando la veste materna, è coperto solo da uno stretto drappo che gli cinge i fianchi e dalla ferita sul costato sgorgano ancora sottili rivoli di sangue. Il volto ha lineamenti tirati, ma non così drammatici come quelli della Madonna: pare infatti che stia solo dormendo. Sempre a proposito dei personaggi, come scrive lo studioso Emanuele Zappasodi (per il quale la Pietà del Farneto va considerata come uno dei capisaldi del giovane Perugino), qui “del tutto nuovo per Perugia è il rapporto tra i personaggi in primo piano e il paesaggio largo alle loro spalle, e completamente insolito è anche l’insistito tour de force con cui sono indagati minuziosamente i lumi. La luce spiove da sinistra, si insinua tra le pieghe a cannelli delle vesti, proietta l’ombra lunga della pisside metallica a terra, imperla le lacrime, bagna persino gli occhi del leone acquattato in penombra, balugina sui gioielli della Maddalena e scintilla sugli spessori dei nimbi, veri e propri dischi specchianti come nel polittico perugino di Piero della Francesca e come a Firenze nelle opere di Andrea del Castagno e di Alesso Baldovinetti”.
Il soggetto del Gonfalone è dunque il Compianto sul corpo di Cristo, ovvero il momento successivo alla deposizione dalla croce: una Pietà a cui assistono e partecipano ai lati san Girolamo e santa Maria Maddalena. La composizione s’ispira tuttavia allo schema della Vesperbild, termine tedesco che letteralmente significa “immagine del Vespro” e che indica un genere di scultura nato nella Germania del Trecento realizzata con materiali poveri, principalmente in legno dipinto, raffigurante la Pietà, ovvero la Madonna seduta che tiene sulle sue gambe il corpo senza vita di Gesù, appena deposto. Obiettivo delle Vesperbilder era proprio quello di creare nell’osservatore, o meglio nel fedele, un sentimento di compassione per la sofferenza provata da Maria e dai santi attorno, e quindi di partecipazione del dolore. Secondo questo schema compositivo, la Vergine è il vertice di una composizione triangolare che vede negli angoli alla base i due santi penitenti; questi ultimi risultano inoltre di dimensione minore rispetto al gruppo Vergine-Cristo, più grande per sottolineare l’ordine gerarchico, le figure più importanti del dipinto.
Su modello del Gonfalone del Farneto l’ormai anziano Giovanni Boccati realizzò il gonfalone con la Pietà e santi: è anch’esso uno stendardo processionale, ma la sua provenienza è incerta. La Pietà del Boccati, realizzata nel 1479, sebbene presenti alcune analogie nella composizione con il Gonfalone del Perugino, non raggiunge il linguaggio sofisticato della Pietà del Farneto. Il Boccati popola inoltre la scena di molti personaggi, conferendo all’opera un tono di corale tragicità. Anche lui però al centro colloca la Madonna con sulle ginocchia il corpo disteso di Cristo e ai lati del dipinto utilizza rocce come fossero quinte. Entrambi i dipinti testimoniano dunque la diffusione in Umbria dell’iconografia del Vesperbild, giunta qui probabilmente attraverso i gruppi scultorei in pietra e in gesso realizzati da artisti tedeschi e da italiani loro seguaci presenti nella regione nel corso del Quattrocento. Sullo sfondo il Perugino però propone un paesaggio caratterizzato da dolci colline, dai suoi tipici alberelli dal fusto sottile, da un specchio d’acqua, a ricordare probabilmente il paesaggio umbro, a cui aggiunge alte rocce.
Il tema sarà ripreso dall’artista sul finire del XV secolo, tra il 1493 e il 1496, nella Pietà oggi conservata agli Uffizi: qui il paesaggio roccioso e le quinte di rocce spariscono per lasciare posto a un monumentale portico rinascimentale con pilastri in pietra serena, che diviene elemento di divisione tra il paesaggio collinare sullo sfondo e i personaggi tutti rappresentati in primo piano. Realizzata per la chiesa degli Ingesuati di San Giusto alle Mura a Firenze, anche in questo caso il Perugino pone al centro della scena la Madonna seduta con disteso sulle gambe il corpo di Cristo, non più scheletrico come nel Gonfalone del Farneto. Ai lati, sulla sinistra, san Giovanni Evangelista inginocchiato sorregge il busto di Gesù con aria smarrita e allo stesso tempo afflitta, mentre in piedi è un giovane, forse identificabile con Nicodemo; a destra, Maria Maddalena seduta in atto di preghiera con il capo chino e sulle ginocchia le gambe di Cristo, mentre in piedi è Giuseppe di Arimatea. A differenza delle opere giovanili degli anni Settanta del Quattrocento, qui i colori da terrosi si fanno accesi e brillanti, le linee più delicate e rotonde e, sebbene permanga un’atmosfera intima e meditativa, i volti dei personaggi risultano molto meno segnati da espressioni e tratti drammatici. Vi è infatti una maggior compostezza e raffinatezza.
Di simile impostazione è anche la Pietà realizzata dallo stesso Perugino e oggi conservata alla National Gallery of Ireland di Dublino. Databile al 1495 circa, anche quest’opera raffigura il Compianto sul Cristo morto, con al centro la Madonna seduta che sorregge sulle sue ginocchia il corpo morto di suo figlio, tenendolo con la mano destra sotto la nuca, mentre la mano sinistra poggia su una coscia. Posizionati simmetricamente ai lati della Madonna stanno, a sinistra san Giovanni Evangelista che guarda verso l’osservatore con la testa di Cristo appoggiata sulla sua spalla, e in piedi Nicodemo alza lo sguardo al cielo tenendo le mani giunte in preghiera; a destra santa Maria Maddalena tiene sulle sue ginocchia le gambe di Gesù e in piedi Giuseppe d’Arimatea assiste commosso alla scena.
Il tutto si svolge sotto a una loggia con archi a tutto sesto retti da pilastri e sopra ai capitelli si intravede lo stemma di Charles Gouffier, primo proprietario del dipinto e cortigiano di Francesco I. Sullo sfondo si nota il caratteristico paesaggio collinare umbro punteggiato da alberelli quasi stilizzati e si vedono inoltre sul luogo della Crocifissione alcune minuscole figure. Come nella Pietà degli Uffizi il patetismo e drammatismo che caratterizzava il Gonfalone del Farneto è nettamente diminuito, l’atmosfera pare più serena, e anche i colori si sono fatti più pastello, superando quindi le tinte terrose di quest’ultimo. L’opera è firmata “Petrus Perusinus Pinxit”, in lettere dorate, sul muretto dietro la Madonna, sotto al gomito di Cristo. Un tema, quello del Compianto sul corpo di Cristo, che viene affrontato dal Perugino più volte e che, come si è visto, è stato raffigurato con un approccio differente a distanza di vent’anni tra il Gonfalone del Farneto degli anni Settanta del Quattrocento e le successive Pietà degli Uffizi e di Dublino degli anni Novanta del XV secolo.
L’articolo è redatto nell’ambito di “Pillole di Perugino”, un progetto che fa parte delle iniziative per la divulgazione e diffusione della conoscenza della figura e dell’opera di Perugino selezionate dal Comitato Promotore delle celebrazioni per il quinto centenario della morte del pittore Pietro Vannucci detto “il Perugino”, costituito nel 2022 dal Ministero della Cultura. Il progetto, a cura della redazione di Finestre sull’Arte, è cofinanziato con i fondi messi a disposizione del Comitato dal Ministero.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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