Perché Gustave Caillebotte non è famoso come gli altri impressionisti?


Quando si pensa agli impressionisti, il nome di Gustave Caillebotte fatica a saltare subito alla mente. Perché questo grandissimo artista è così poco famoso e perché fu a lungo dimenticato?

Quando si pensa agli impressionisti, i più tendono a enumerare i tipici nomi da manuale: Monet, Manet, Renoir, Degas, qualche volta Sisley e Pissarro. Del resto, i pittori appena citati possono essere considerati i capifila di quella che è forse la corrente artistica più nota dell’intera storia dell’arte. Tuttavia, accanto ai nomi principali, ci fu anche un numero ben nutrito di artisti che, purtroppo o per fortuna (dipende dai punti di vista), non sono finiti nell’immaginario collettivo. Ma non è detto che non fossero figure altrettanto (e forse più) suggestive rispetto a quelle dei loro colleghi più famosi. Uno di questi artisti solitamente dimenticati dal grande pubblico è Gustave Caillebotte (1848 - 1894).

Eppure, Caillebotte è stato uno degli impressionisti più moderni e innovativi, decisamente avanti rispetto ai tempi. Pochi altri, come Caillebotte, negli anni Settanta dell’Ottocento compresero l’importanza dell’aiuto che l’appena nata fotografia poteva apportare alla pittura. Ne risulta, dunque, che i dipinti di Caillebotte ci appaiono come vere istantanee della vita parigina di fine Ottocento, oppure degli ozi campagnoli delle classi agiate (Caillebotte proveniva da una famiglia ricchissima). Il pittore aveva capito che la fotografia era il miglior mezzo per documentare la vita di tutti i giorni. E decise, dunque, di dare ai suoi dipinti un taglio spiccatamente fotografico. I soggetti spesso fuoriescono dai bordi del quadro, le vedute sembrano delineate facendo uso del grandangolo, i personaggi che popolano le strade della sua Parigi ci appaiono in movimento, ritratti nella loro piena naturalezza, senza filtri e senza pose, e i punti di vista sono spesso inediti quando non azzardati: proprio le vedute dall’alto, tipiche dello stile del pittore, sembrano quasi anticipare un tipo di fotografia che sarebbe nato solo qualche decennio più tardi.

Gustave Caillebotte, Giorno di pioggia a Parigi
Gustave Caillebotte, Giorno di pioggia a Parigi (1877; Chicago, Art Institute)


Gustave Caillebotte, Tetti sotto la neve
Gustave Caillebotte, Tetti sotto la neve (1878; Parigi, Musée d’Orsay)


Oltre a questi dipinti, occorre anche citare le opere che ritraggono i canottieri mentre vogano, tipici della produzione di Caillebotte. In alcune di queste opere, l’artista introdusse una particolare rappresentazione che possiamo considerare antesignana della moderna ripresa soggettiva: Caillebotte, ovvero, ritraeva canottieri e vogatori come se fosse seduto di fronte a loro, sulla canoa. Il tutto con una tecnica molto particolare: probabilmente, Caillebotte non fu mai pienamente impressionista, perché il suo stile coniugava elementi di accademismo, realismo e, appunto, impressionismo.

Gustave Caillebotte, Vogatore con cilindro
Gustave Caillebotte, Vogatore con cilindro (1878; Yerres, Propriété Caillebotte)

Perché, dunque, un artista così innovativo fu a lungo dimenticato, dato che a seguito della sua scomparsa nessuno si interessò più della sua pittura, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso? E perché il suo nome fa ancora fatica a essere accostato a quello degli impressionisti più famosi? Che l’artista avesse talento, era ben noto ai suoi contemporanei. Émile Zola, nel suo articolo Le naturalisme au Salon del 1880, disse che Caillebotte era “un artista molto scrupoloso”, “che ha il coraggio di fare grandi sforzi e che cerca le soluzioni più virili”. Nel 1894, all’indomani della sua scomparsa, Camille Pissarro, scrivendo al figlio Lucien, diceva che Caillebotte era una persona “buona e generosa e, cosa che non guasta, un pittore di talento”. Tuttavia, occorre anche considerare che Caillebotte si portava sempre dietro quell’etichetta di garçon riche (“ragazzo ricco”), come lo definì lo stesso Zola, che faceva sì che molti lo considerassero poco più che un dilettante, un rampollo benestante che poteva permettersi di oziare dipingendo. Caillebotte, come abbiamo già detto prima, proveniva infatti da una famiglia molto ricca, appartenente all’alta borghesia parigina: il padre Martial era a capo di un’impresa operante da generazioni nel settore del tessile per i militari, e aveva una casa a Parigi, quella in cui Gustave nacque, nonché una vasta tenuta a Yerres, cittadina di campagna dove la famiglia era solita trascorrere le estati (e dove Gustave sarebbe poi tornato a più riprese per dipingere i suoi celebri canottieri). Alla scomparsa del padre, Gustave ereditò, assieme ai suoi fratelli, una grande fortuna, con la quale il giovane, allora ventiseienne, decise di sovvenzionare la propria attività d’artista.

E, proprio grazie alle sue ricchezze, Caillebotte si diede parecchio da fare per il gruppo dei pittori impressionisti, di cui egli fu parte integrante. Li supportò anche economicamente: acquistò molti dei dipinti dei suoi colleghi, riuscendo a radunare una cospicua collezione (che confluì poi nelle raccolte statali: molte di tali opere oggi sono esposte al Musée d’Orsay) e arrivando anche a pagare l’affitto dell’appartamento di Claude Monet dalle parti di rue Saint-Lazare, in centro a Parigi. Diventò insomma non soltanto uno dei maggiori pittori del gruppo, ma ne fu anche uno dei principali mecenati. E proprio perché si sentiva così attaccato al gruppo, fece di tutto per tenerlo unito anche quando i dissapori iniziarono a minarne l’integrità: i tentativi però fallirono e l’artista, probabilmente deluso nel vedere che l’unità del gruppo era praticamente compromessa, nel 1882 decise di esporre per l’ultima volta insieme agli altri impressionisti, in quella che sarebbe stata la loro penultima mostra, seguita solamente da quella conclusiva del 1886. Allo stesso tempo, Caillebotte decise di porre un brusco freno ai suoi acquisti di dipinti e soprattutto di appendere quasi del tutto i pennelli al chiodo: fino alla fine dei suoi giorni si dedicò ad altre attività, come la nautica, la filatelia e il giardinaggio, e tornò a fissare le proprie impressioni sulla tela solo in poche occasioni, senza partecipare a mostre di rilievo.

Gustave Caillebotte, Autoritratto al cavalletto
Gustave Caillebotte, Autoritratto al cavalletto (1880 circa; collezione privata)

Dopo la sua scomparsa prematura, i suoi esecutori testamentari fecero rispettare le sue volonta. Aveva infatti scritto nel suo testamento, già redatto nel 1876: “Io dono allo Stato i dipinti che possiedo; tuttavia, siccome voglio che questo dono sia accettato nella misura in cui le opere non finiscano in una soffitta o in un museo di provincia, ma finiscano prima al Luxembourg e poi al Louvre, è necessario che trascorra un po’ di tempo prima che questa clausola venga eseguita, e cioè fino al momento in cui il pubblico non dico che capirà queste opere, ma almeno le accetterà”. Caillebotte aveva previsto bene: alcuni membri dell’Accademia di Belle Arti infatti protestarono contro l’ingresso delle opere impressioniste nelle collezioni statali, ritenendo la cosa “un’offesa alla nostra scuola”. Tuttavia, alla fine le volontà di Caillebotte furono eseguite, e per la prima volta nella storia un nucleo di opere impressioniste (benché alcune fossero state rifiutate) entrò a far parte di una raccolta pubblica.

Tra le 67 opere che Caillebotte lasciò allo Stato, neppure una era stata dipinta da lui. È per questo che, per lungo tempo dopo la scomparsa, Gustave fu ritenuto più un importante mecenate e un facoltoso collezionista, che un pittore moderno e innovativo alla stregua dei suoi amici. Il suo generoso dono, insomma, aveva oscurato la sua importanza artistica: bisogna infatti aggiungere che la quasi totalità della sua produzione, dopo la scomparsa, rimase proprietà della sua famiglia (e molte opere lo sono tuttora), e quindi celata agli occhi dei più. Questo per il fatto che Gustave, essendo ricco, non aveva bisogno di vendere i suoi dipinti. L’artista, insomma, dipingeva per pura passione: questo fatto però, invece di fargli guadagnare un’ottima reputazione, portò gli storici dell’arte a sottostimare la reale portata della sua arte.

L’interesse per Gustave Caillebotte iniziò ad affermarsi a partire da una data precisa, il 1951, quando la Galerie Wildenstein di Parigi allestì una prima piccola retrospettiva di alcuni dei suoi lavori, collaborando attivamente con la storica dell’arte Marie Berhaut, che da qualche anno aveva iniziato a occuparsi dell’artista dimenticato, incoraggiata nel suo lavoro anche dalla stessa famiglia Wildenstein. La mostra costituì, per Marie Berhaut, l’occasione per iniziare a redigere un primo catalogo ragionato dei dipinti dell’artista, pubblicato, dopo che nel frattempo uscirono altri studi, nel 1978, con il titolo di Gustave Caillebotte, sa vie et son oeuvre: catalogue raisonné des peintures et pastels (“Gustave Caillebotte, la sua vita e la sua opera: catalogo ragionato delle pitture e dei pastelli”). Nello stesso periodo, probabilmente stimolato dagli studi di Marie Berhaut e colleghì, anche lo storico dell’arte statunitense Kirk Varnedoe iniziò a occuparsi di Caillebotte: appena trentenne, Varnedoe curò nel 1976 un’importante monografica sull’artista al Museum of Fine Arts di Houston. Una mostra che l’anno successivo fece tappa al Brooklyn Museum di New York: si trattava della mostra decisiva per la riscoperta dell’artista.

Oggi, il nome di Gustave Caillebotte figura tra quelli dei grandi impressionisti, anche se, dati i trascorsi, fa ancora un po’ di fatica a imporsi presso il grande pubblico. Ma probabilmente non ci vorrà molto tempo affinché una figura notevole come quella di questo grande pittore riesca a ottenere la fama che le spetta.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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