Per una storia dell'arte italiana dal 2000 a oggi. Arte relazionale, prospettiva intimista


All’inizio del nuovo millennio, molti artisti italiani, sulla scorta dell’esperienza di Maurizio Cattelan, s’inseriscono nel solco dell’arte relazionale per indagare il rapporto tra l’individualità e contesto in cui questa si muove.

L’elemento che più di tutto rende difficile essere artista, o lavorare nell’arte, al giorno d’oggi, è la frammentarietà. Con il sorgere del nuovo millennio è infatti definitivamente tramontata l’idea di corrente o movimento, con gli artisti che si muovono sostanzialmente in autonomia, liberi di spaziare trasversalmente (e continuamente) tra tecniche espressive e temi trattati. Un aspetto di per sé niente affatto negativo, sintomo di una consapevolezza professionale sempre più marcata da parte della categoria.

Eppure, tale fluidità, riferendoci all’utilizzatissimo ma calzante concetto sviluppato da Zygmunt Baumann, si scontra con la quasi totale mancanza di volontà e risorse da parte di grandi musei e istituzioni nel dare fiducia e opportunità ad artisti mid career, ovvero proprio coloro che rientrano nel nostro campo di indagine. Ne risulta un quadro ampio ma disarticolato, dove iniziative locali ed estemporanee non riescono a fungere da rampa di lancio per nuovi talenti, ma d’altra parte ne rappresentano la principale opportunità d’espressione. È come se l’artista avesse oggi la possibilità di camminare da solo, ma poi mancasse a lui la terra sotto i piedi. Se da una parte questo restituisce un sistema estremamente eterogeneo, dall’altro rende tortuoso il processo di legittimazione che ogni autore insegue. Eppure, anche se parcellizzato, tale percorso prosegue lo stesso e ci permette di individuare un nucleo di artisti che si è distinto in questi anni e che ci aspettiamo possa continuare a farlo.

A partire da quello che può essere considerato padre putativo di tutti loro, ovvero Maurizio Cattelan (Padova, 1960). Forse il più importante artista italiano vivente, sicuramente l’ultimo ad essersi guadagnato una personale al Guggenheim di New York. Una figura di raccordo tra gli anni Novanta e il Duemila, in grado di aprire la strada a buona parte delle produzioni giunte dopo di lui. Se non altro in qualità di elemento di passaggio da un approccio scultoreo-installativo di matrice povera, dunque incentrato sui processi e sulla materia, a un’inclinazione molto più disposta a incontrare la realtà e a interpretarla (La rivoluzione siamo noi, 2000). Se la sua lente è stata quella del sarcasmo e della provocazione, gli artisti a lui successivi hanno filtrato l’elemento ironico rimanendo però legati alla dimensione tridimensionale dell’arte. Alla quale si aggiunge l’altra grande influenza artistica del secolo scorso, ovvero l’Arte Relazionale.

Maurizio Cattelan, La rivoluzione siamo noi (2000; resina, pelo naturale, feltro, appendiabiti, 189,9 x 47 x 52,1 cm). Foto: Perrotin
Maurizio Cattelan, La rivoluzione siamo noi (2000; resina, pelo naturale, feltro, appendiabiti, 189,9 x 47 x 52,1 cm). Foto: Perrotin
Luca Trevisani, Gravare, levare (2005; stampa digitale su carta, 40 x 30 cm)
Luca Trevisani, Gravare, levare (2005; stampa digitale su carta, 40 x 30 cm)
Luca Trevisani, A chain of chains (2009; riviste modificate, stampe laser su carta, gesso, dimensioni variabili, 190 x 220 x 30 cm)
Luca Trevisani, A chain of chains (2009; riviste modificate, stampe laser su carta, gesso, dimensioni variabili, 190 x 220 x 30 cm)

La definizione, elaborata da Nicolas Bourriaud nell’omonima pubblicazione del 1998, vede antefatti significativi in artisti come Michelangelo Pistoletto e soprattutto Maria Lai, che nel 1981 legò – idealmente e concretamente – le abitazioni di Ulassai, in Sardegna, con un nastro azzurro. L’opera (Legarsi alla montagna) raccoglieva in sé tutti i precetti dell’Arte Relazionale, ovvero una forma espressiva che individua come elemento chiave la co-partecipazione di artista e fruitore dell’opera d’arte. Evidente dunque il concetto antistante, fondato sulla collettività e la necessità aggregativa dell’uomo. Una strada che seguiranno poi, per tutti gli anni Novanta e primi Duemila, artisti come Piero Almeoni, Maurizio Donzelli, Emilio Fantin, Eva Marisaldi, Luca Quartana, Massimo Silvano Galli e Michele Stasi. E, come detto, in parte anche il ben più noto Maurizio Cattelan.

Negli anni Duemila, anche se variando in modalità e soluzioni estetiche (l’happening perde la sua centralità, così come la partecipazione diretta con il pubblico), gli artisti conservano però un dettato fondamentale dell’Arte Relazionale: l’uomo è un essere inserito nell’universo delle relazioni e del contesto sociale in cui esse si svolgono. Un’immagine ramificata e connessa dell’esistenza che trova sempre più aderenza con la realtà grazie alla costante e dilagante globalizzazione, che ha allargato confini e miscelato culture, spinto gli artisti a confrontarsi con i loro colleghi all’estero, o addirittura a muoversi lontano dal proprio paese per trovare la propria dimensione. In tale contesto sorgono, e sono oggi individuabili, alcuni contenuti comuni agli artisti che operano all’inizio del terzo millennio: la relazione tra gli oggetti e la realtà quotidiana, la dimensione esperienziale dell’arte, la relazione tra opera e spazio architettonico, il rapporto tra l’individualità e il contesto in cui si muove. Sempre e comunque nell’ottica di indagare, in ultima istanza, la propria identità posta in crisi dalle contingenze moderne.

Non è un caso, allora, che spesso questo tentativo di ricostruzione, precaria e frammentata, abbia assunto la multiforme natura dell’assemblaggio. Come accade nelle creazioni di Luca Trevisani (Verona, 1979), che unisce elementi leggeri come canne da pesca, carta, nylon e legno per creare strutture dall’equilibrio sensibile, tese fino al loro limite, sull’orlo del disfacimento (Gravare, levare, 2005). L’improvvisazione per loro sembra l’unica strategia di sopravvivenza, adattarsi di volta in volta al contesto. Esattamente come fa l’uomo, esattamente come fa l’artista, che gradualmente si muove verso il video e la grafica, aumentando il numero di medium coinvolti (A chain of chains, 2008). Ancorata alla scultura è rimasta invece Alice Cattaneo (Milano, 1976), che della leggerezza e della fragilità ha fatto la forza espressiva della sua poetica. Le sue opere sono calibrate ma incisive operazioni di allineamento, composizioni sospese dove tutto promette (o minaccia?) di cambiare da un momento all’altro. Come per Trevisani, anche i lavori di Cattaneo richiedono una compresenza per essere compresi appieno. Se di materiali si tratta, inevitabile che si riscopra centrale l’elemento fisico. Celebre l’opera Untitled I, II e III con cui nel 2010 partecipò alla mostra Terre Vulnerabili all’Hangar Bicocca di Milano. Esili strutture di metallo lasciate dialogare, interagire, unirsi con l’aria scura del museo, fino a mutare dentro di essa assumendo forme prospettiche differenti.

Alice Cattaneo, Untitled I (2010; ferro e smalto, 130 x 200 x 140 cm)
Alice Cattaneo, Untitled I (2010; ferro e smalto, 130 x 200 x 140 cm)
Diego Perrone, La fusione della campana (2007; resina, polvere di quarzo, legno, 205,74 x 134,62 x 233,68 cm). Foto: Casey Kaplan Gallery
Diego Perrone, La fusione della campana (2007; resina, polvere di quarzo, legno, 205,74 x 134,62 x 233,68 cm). Foto: Casey Kaplan Gallery
David Casini, Krystallos (2008; installazione)
David Casini, Krystallos (2008; installazione)
Patrick Tuttofuoco, Cameron (2009; fibra di vetro e acciaio, 200 x 225 x 85 cm)
Patrick Tuttofuoco, Cameron (2009; fibra di vetro e acciaio, 200 x 225 x 85 cm)

Ancora più evidente la matrice relazionale nella pratica di Chiara Camoni (Piacenza, 1974), che nei suoi disegni e installazioni rinuncia totalmente alle pretese di autorialità, preferendo affidare alla progettualità o al filtro dell’osservatore il tassello che completi una narrazione da lei solo accennata. Può trattarsi di un oggetto ritrovato ed elevato ad opera, oppure di un percorso esperienziale che guadagna valore artistico nel suo prodursi. Come Grande Madre, 2002, in cui realizza con la nonna 365 disegni, 1 al giorno per un anno. Alla processualità affida ampio spazio anche Diego Perrone (Asti, 1970), che spazia dalla fotografia al video, dal disegno alla pittura, dall’installazione alla scultura per ricreare situazioni stranianti, a volte grottesche, in altri casi imbevute di storia e concettualismo (La fusione della campana, 2007). Questi tipi di opere funzionano come spugne, aperte ad assorbire qualsiasi suggestione. Sono crateri creativi dove precipitano elementi semplici, che posti in relazioni assumono però implicazioni complesse.

Ne sono un esempio gli assemblaggi sofisticati di David Casini (Montevarchi, 1973), ognuno dei quali rappresenta una sorta di Wunderkammer rinascimentale. Esemplificativa Krystallos del 2008, in cui l’artista ha inserito una scultura di ghiaccio all’interno di un comodino vintage, il quale manteneva integra l’opera attraverso un sistema di refrigerazione. Come già visto in precedenza, anche qui il reticolo di significati che si cerca non sono chiari, anzi la nebulosità serve non solo a rendere potenzialmente più aperta l’interpretazione, ma anche a stimolare l’intimità dell’osservatore posta a diretto contatto con quella dell’artista. Uno spiraglio aperto lo lasciano sempre anche le sculture e installazioni di Patrick Tuttofuoco (Milano, 1974), che pure evade (anche se solo leggermente) dal proprio io allacciandosi a riferimenti letterari e artistici. Ganci che rendono le sue creazioni accessibili, anche perché spesso si tratta di ammiccamenti alla dimensione teatrale (maschere, guanti, parrucche) che suggeriscono contesti aggregativi e ludici (Cameron, 2009). Ma, d’altra parte, anche potenzialmente fraintendibili, all’evenienza sinistri, forse anche inquietanti. La scelta, percettiva, risiede proprio nell’osservatore.

Come vedremo meglio nei prossimi articoli della serie, potremmo individuare un certo percorso che porta gradualmente gli artisti italiani dei primi anni Duemila a muoversi da un’analisi prettamente intima del sé a una riflessione che amplia il discorso non solo allo spazio e al contesto architettonico, ma anche alla dimensione sociale e pubblica all’interno della quale la loro personalità è andata costruendosi. Senza perdere il filtro della soggettività, gli artisti intercettano sempre di più l’immaginario collettivo, adottando o distorcendo narrazioni, interpretando o riportando memorie e vissuti condivisi.


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